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Vangelo Migrante: Domenica 16 luglio – Vangelo Mt 13, 1-23

14 Luglio 2023 -
Nella XV Domenica del Tempo Ordinario ascoltiamo la Parabola del Seminatore, la principessa delle parabole. Se non comprendiamo questa, come potremo comprendere le altre? Tutta la vita è una parabola, ma dobbiamo capirne il significato: è la sfida dell’ascolto. Il seme di cui si parla è la Parola seminata nei fatti della nostra storia. Nei primi tre casi la Parola non la prende chi avrebbe dovuto prenderla, cioè il terreno buono.  Nella vita o fraintendiamo o comprendiamo e siamo chiamati ad una crescita. La vita è crescita e non esistono fasi intermedie: nella vita spirituale o si va avanti o si va indietro. Lo stesso seme produce frutti molto diversi. Dio non dà alle persone a chi più e a chi meno, quello che il Signore dona è, però, diverso secondo l’apertura del cuore delle persone. La parabola inizia con la folla che esce sulla spiaggia e Gesù se ne distanzia. Stanno tutti lì, ma ognuno non può vivere mescolandosi e nascondendosi nella folla. Ognuno è chiamato a un atto personale d’accoglienza: la fede è scelta personale. Anche io devo prendere una posizione: o lascio cadere le parole o non mi perdo una parola. Il problema della comprensione non è un esercizio intellettuale, ma cambia secondo il rapporto con il maestro. La Parola dice, infatti, la Prima Lettura “non torna in cielo come la pioggia e la neve, senza aver prodotto l’effetto per cui è stata mandata”, quantomeno l’effetto della verità. C’è il seme che cade sulla strada: è destinato ad uno, ma gli uccelli, cioè i pensieri che vengono dal demonio, lo portano via. È ciò che accade quando il Signore ci dice cose che noi non comprendiamo, perché quando una cosa non la capiamo di solito non la accettiamo: la novità implica sempre un trauma. Dio non può dirci sempre quello che capiamo o quello che già sappiamo, Dio ci dice ciò che ci serve per farci crescere e crescere vuol dire uscire dall’infanzia e diventare adulti: nessuno di noi va a scuola o manda i figli a scuola per imparare qualcosa che già sa, ma per imparare qualcosa di nuovo. I Vangeli, subito dopo Natale, ci narrano che “Maria non comprendeva, ma custodiva nel suo cuore queste parole”.  Il problema della nostra ragione è che spesso ci dà soltanto ragione e se ci fermiamo a quello che non capiamo ci chiudiamo. E se invece quello che non capiamo fosse parte di un disegno più grande? E se fosse un pezzo di una storia che si deve ancora compiere? Perché dobbiamo farcelo rubare dal maligno? Lasciamoci insegnare da Dio. C’è il seme che cade sul terreno sassoso, spunta subito, ma poi il sole lo secca.  Qui Gesù fa riferimento a coloro che accolgono la Parola con entusiasmo, poi arriva una tribolazione e si “seccano”. Se chi vive la strada vive di ragioni e cerca solo ciò che lo conferma, chi vive il sasso vive solo di emozioni, di sensazioni. Invece le persecuzioni arrivano: arrivano da fuori quando ti attaccano, perché vieni in chiesa; arrivano da dentro, quando le persone, anche dentro la chiesa, ti deludono; arrivano da Dio quando non ti dice quello che ti piace, ma ti contesta e ti fa soffrire. In questo caso abbiamo due possibilità: o ce ne andiamo o la Parola inizia a entrare in noi proprio quando non è l’entusiasmo che la conserva, ma qualcosa di più profondo che va oltre il cuore di pietra, cioè l’uomo vecchio. Ci sono, poi, le spine che crescono insieme col grano e lo soffocano. Qui Gesù fa riferimento a quelli che credono di poter ascoltare due cose e non scelgono mai: per poter dire sì alla Parola bisogna dire no ad altre cose. Le spine sono ciò che è incompatibile con quello che Dio ti sta dicendo e non si eliminano da sole, vanno tagliate. Anche a Maria una spada trafiggerà l’anima non per uccidere, ma per separare. Bisogna sempre tagliare qualcosa per fare spazio a Dio. C’è, infine, il terreno buono: “che dà frutto dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta”. Quando vivo con il Signore lasciandomi seminare da Lui in quello che c’è, che oggi può essere cento, sessanta, trenta, porto frutti, non risultati. Questi cento, sessanta e trenta non sono numeri messi a caso visto che erano anche le misure dell’Arca dell’Alleanza. Il terreno è, invece, il nostro cuore, dove cambia e dove non cambia, sapendo che il cammino con la Parola e con il seme è un cammino che dipende da quanto mi apro, perché la Grazia è per tutti e produce frutti straordinari, ma l’apertura spetta a me ogni giorno. (Francesco Buono)

Vangelo Migrante: Domenica 9 luglio – Vangelo Mt 11,25-30

9 Luglio 2023 -
Per conoscere il Signore bisogna ri-conoscere la propria povertà e smettere di vivere in adorazione del proprio ego: il centro non sei tu. Si racconta che San Francesco, dopo il bacio al lebbroso, quel giorno, per la prima volta, smise di adorare se stesso: in altri termini cominciò a conoscere tutto e tutti, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, come ci dice la Seconda Lettura. È lo Spirito che ci mostra la nostra debolezza, ovvero che da soli non riusciamo a fare il bene. In nome della nostra ragione, spesso, diventiamo piuttosto violenti, perché stanchi e oppressi.  La Prima Lettura parla di un re giusto e umile che cavalca l’asina e rialza chiunque è caduto: “Egli rigetta le armi della guerra e sceglie le armi della pace”. Ebbene, la seconda parte di questo Vangelo ci esorta a prendere il “giogo” di Cristo (è una parola molto bella, da cui vengono i termini “coniuge”, “coniugio”), che è la Legge con cui non si entra nel dovere, ma nella vera obbedienza: è la sottomissione, l’arte di entrare nella vita: non si può sempre solo dire che non va bene; non si può solo oscillare tra il subire tutto e il distruggere tutto. La vita ti mette un giogo sulle spalle: o lo porti con Dio o lo porti con la tua umanità. Con la nostra ragione creeremo solo l’oppressione nostra o l’oppressione dell’altro. Il “giogo” è, invece, andare al ritmo di Cristo e con Lui portare il peso della realtà. Non riusciremmo, da soli, neanche a fare il bene, perché anche il bene potrebbe diventare pesante e potremmo ribellarci al bene nella vita. Il problema non è essere uguali o pensarla allo stesso modo. Spesso il giogo era portato da un bue più grande e da un bue più piccolo: non si riesce mai a portarlo da soli. Il problema non è la diversità, ma, potremmo dire, è la comunione: rigare dritto, imparando da Colui che è “mite e umile di cuore”, da Colui che è dolce e sa cercare il ristoro di colui che Lui ama. Dio, nell’ entrare nella nostra povertà, è delicato: apriamoGli la porta e allora righeremo dritti. È un invito non è una pretesa:” Venite a me”, dice il Signore. È questo il passaggio dal vivere da soli al vivere da coniugi. È questa la frase meravigliosa che Enrico Petrillo si sentì pronunciare da sua moglie Chiara Corbella negli ultimi attimi della sua vita sulla terra: “Chiara è veramente così dolce questo giogo?” – “Sì, Enrico, perché lo portiamo con Cristo”. Da Cristo impariamo: la vera mitezza, l’arte di scegliere la giusta battaglia; la vera umiltà, l’arte di fare da soli ma non da soli, cioè da coniugi, sposati da Cristo per sposare la realtà. Se il giogo lo portiamo con Lui non ci schiaccia, ma in Lui troveremo il vero riposo e il vero ristoro. Apriamoci al vero riposo. (Francesco Buono)

Vangelo Migrante: Domenica 4 giugno – SS. Trinità

1 Giugno 2023 -
Celebriamo oggi la Festa della Santissima Trinità. Perché si celebra? Apparentemente potrebbe sembrare una festa astratta. In realtà la Festa della Santissima Trinità è la Festa della nostra Salvezza: lo Spirito Santo è l’unione tra il Pastore e la pecora, è il Signore della Comunione, il Signore della relazione. È Lui che ci fa incontrare Gesù vivo che ci salva e questa esperienza della salvezza, attraverso il Figlio, ci fa conoscere il Padre. E così non viviamo più da servi o da soli, con tutto lo zaino della vita sulle spalle, ma viviamo nella libertà dei figli che si sentono amati dal Padre. Abbiamo bisogno, di conseguenza, di festeggiare Dio che è Padre e che ci genera sempre come Figli in ogni fatto della vita, anche negli eventi di morte, della nostra vita: anche la morte fisica sarà la strada che ci apre il cielo, che ci apre il Paradiso. Abbiamo poi bisogno di credere che Gesù è l’unico vero Signore, così possiamo disobbedire a tutti gli altri padroni che dominano la nostra vita e ci rendono schiavi. Infine, abbiamo bisogno di credere nello Spirito Santo che è Signore e che ci insegna la vita, correggendoci e consolandoci. È nella consapevolezza della Trinità che facciamo l’esperienza di quel “tanto” che Gesù dice a Nicodemo nel Vangelo di oggi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio unigenito”. Noi, attraverso lo Spirito, riceviamo Gesù come il dono del Padre, come l’amore del Padre, per non andare perduti, poiché tutti rischiamo di andare perduti, cioè di sprecare la nostra vita. Abbiamo, quindi, bisogno della vita di Dio che si riceve su questa terra, per vivere tutto con la “qualità” della fede. “Egli è venuto, non per condannare, ma per salvare”. Abbiamo la concreta possibilità di perderci, la concreta possibilità di dire “no”, ma “chi non crede è già stato condannato”: che cos’è questa condanna? Aggiunge Giovanni:” Perché non crede nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”, cioè la condanna è legata al nome.   Di quali nomi si sta parlando? Si sta parlando di Paolo, di Francesca, di Luigi? No. Chi non crede è condannato dagli altri nomi che vengono dagli altri padri, ma quanti nomi abbiamo? Per rispondere facciamo riferimento al rito del Battesimo, laddove è molto interessante la domanda che viene fatta all’inizio: “che nome date al vostro bambino?”. Ovviamente i genitori non danno il nome in quel momento, avendolo già scelto e registrato all’anagrafe. Quella prima domanda del rito del Battesimo è, in realtà, una presa di consapevolezza che il primo nome lo riceviamo dai nostri genitori, dalla vita che loro ci hanno dato, tanta o poca, bella o brutta, vuota o piena; c’è poi un secondo nome, che è quello che ci diamo da soli per reagire al nome che ci è stato dato dai nostri genitori: quindi se devo essere quello “bravo”, farò di tutto per soddisfare le loro aspettative o farò di tutto per non essere bravo. È chiaro che questo nome non è “libero” in quanto è solo la mia reazione al primo nome ricevuto; il terzo nome, invece, è quello che mi dà il Padre: quando mi dà questo nome? Nel Battesimo, ma diventa concreto nel momento in cui io mi rendo conto che da solo non posso cambiare il mio nome, ma lascio amare il mio nome al Padre ed esso diventa per me: “vivere tutto da figlio amato”, per cui io non mi sento condannato dalla mia vita o nella mia vita, ma io vivo da salvato. Questo è il senso di quel Nome che nella prima lettura il Signore proclama sul monte a Mosè, che è andato a portar su le Tavole con la Legge di pietra a cui il popolo non è capace di obbedire e di servire. Lì Mose riceve quel Nome da imporre sulle spalle del popolo, un popolo di dura cervice. Un Nome che è misericordia, un Nome che è salvezza. È molto diverso fare esperienza di Dio nella vita e conoscere Dio per Nome. Un conto è aver incontrato Dio nella vita, e un conto è vivere in comunione con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo nel segno di quella preghiera semplice che ci è stata insegnata da bambini, che non dice “Il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo….”, ma “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”. La Trinità o si vive da dentro o si vive da fuori e questo cambia tutto. (Francesco Bruno)
 

Vangelo Migrante: V domenica di Quaresima | Vangelo (Gv 11, 1-45)

22 Marzo 2023 - Attorno alla persona di Gesù, nei Vangeli di queste domeniche, in un crescendo, sono apparsi con sempre maggiore evidenza il dramma dell’uomo e la gloria di Dio: nell’uomo prevale la necessità dell’acqua, della luce, della vita; da Dio provengono la sorgente che disseta, la verità che illumina, la resurrezione che dà vita. L’episodio della resurrezione di Lazzaro, questa domenica, è la prova generale della Resurrezione di Gesù, il fondamento della nostra fede. La morte resta un dramma ed è il problema dell’uomo. Non solo quella esistenziale ma anche le tante morti e mortificazioni, dinanzi alle quali i nostri desideri e i nostri progetti non possono nulla. Nel Vangelo odierno colpisce una sorta di lentezza da parte di Gesù. Marta, la sorella del defunto gliela fa notare: “se tu eri qui, mio fratello non moriva”.  A volte l’attesa di un Suo intervento, lento e quasi distratto, sembra metterci alla prova. Perché fa così? Dal Vangelo odierno impariamo che i tempi di Dio non sono i nostri e l’intervento di Dio non va confuso con il far qualcosa e basta: Dio non è cura palliativa ma uno che risolve le cose alla radice. Come per la Samaritana Egli chiede da bere per poi offrire acqua in abbondanza, così per Lazzaro: aspetta la morte, ed anche una sorta di necrosi, per poter operare la vita. È probabile, e anche molto umano, che, presi dalle nostre paure e dal nostro dolore, noi non ce ne accorgiamo. Il primo segno dell’Opera di Dio è proprio questo: nella necrosi nessuno mette mano; Gesù lo fa perché Dio va dove non va nessuno. E da lì ricomincia la vita: scatena le porte degli inferi e riprende l’uomo dove i vermi se lo mangiano e lo porta con sé. Il Suo pianto è una risposta a Maria. Come a dirgli: “ho colto profondamente il tuo stato. Ti ho accolta”. Il passaggio è importante. Molte volte, impotenti dinanzi alle tante lacrime di chi chiede di essere accolto, forse anche a noi è sembrato più logico darci da fare senza aver fatto prima quel silenzio, anche ferito e in lacrime, che ci mette in condizione di entrare in relazione con Dio, farci accogliere da Lui e riconoscere l’Opera sua, che vive e dà vita anche attraverso le nostre azioni. Solo sentendoci accolti da Lui possiamo dare il meglio di noi stessi anche agli altri.

Vangelo Migrante: IV domenica di Quaresima – Vangelo (Gv 9, 1-41)

16 Marzo 2023 - L’acqua promessa alla Samaritana, nel vangelo di questa domenica diventa segno di guarigione. Non una qualsiasi guarigione ma un ritorno alla luce che fa vedere ogni cosa. Nel cammino di preparazione al battesimo degli adulti, il catecumenato, questa domenica è una tappa fondamentale: è la domenica della professione di fede. Come il cieco nato, anch’essi diranno: credo Signore! Tra i migranti che incontriamo e a cui rivolgiamo le nostre cure pastorali, ci sono diversi fratelli e sorelle impegnati in questo percorso. L’occasione di averli con noi può essere propizia per risvegliare la nostra tensione dell’inizio della vita cristiana. Essa non è per nulla scontata visto che anche da battezzati resta l’esigenza di una guarigione degli occhi di una fede spesso impastata da troppi distinguo o cortesi dinieghi rivolti a fratelli e sorelle battezzati alla stessa fonte o ad altri uomini e donne venuti da lontano e, come noi, chiamati alla fede. Lo sguardo umano, apparente mente neutro, sovente si adagia sull’esteriorità delle cose e delle relazioni fino a sostituire la verità nelle cose e nelle persone: l’esclusione del cieco è verità indiscussa e indiscutibile, per lui, per i suoi stessi parenti e ovviamente per quelli che l’hanno decretata. Non per Gesù. Perché il bisogno di vedere, in quell’uomo rimane. Non può spegnersi ciò per cui siamo stati creati. L’opera di Dio non può essere annientata. Ne è prova il fatto che la vista ricevuta crea un problema in comunità: il cieco (lo straniero) dove lo mettiamo? Non basta dire: “è ipocrisia”. Troppo facile. Qui si tratta di aver perso di vista Dio; è questo che produce ipocrisia, a tal punto che anche la lode che fa il cieco (dottrinalmente impeccabile) risulta inammissibile. Dio non vuole la morte di nessuno. E Gesù, che è da Dio, luce da luce, è venuto a fare cose che solo Dio sa fare. Ma perché questo accada è necessaria una fede che faccia vedere oltre il legalismo o il buonsenso in cui ci ricacciano le cose di questo mondo ma che non provengono da Dio e non portano a Dio. Che non capiti anche a noi che questa presunzione nella quale tentiamo di recintare la nostra vita e, in proiezione, quella di altri uomini e donne, faccia ancora esclamare al Maestro; “se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite “noi vediamo”, il vostro peccato rimane!” (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: III domenica di Quaresima| Vangelo (Gv 4, 5-42)

9 Marzo 2023 - Per tre domeniche il Vangelo di Giovanni, attraverso alcuni segni, ci accompagnerà al Mistero di Gesù: chi è, da dove viene e dove ci porta. Scopriamoli. Il primo indizio è dato nell’incontro con la Samaritana. Il segno è l’acqua! Dio attende al pozzo della storia, paziente e rispettoso. Quello è un luogo dove per necessità occorre passare. L’umanità ferita, dopo essersi lavata un po' se n’è andata ma, di tanto in tanto, deve tornare ad attingere acqua per andare avanti. Proprio come fa la donna Samaritana: essa sa che può caricarsela solo un po' alla volta e per questo è costretta a passarci spesso. In uno di questi passaggi, Gesù è là e chiede da bere. Umiliandosi nel chiedere da bere permette alla donna, simbolo dell’umanità, di volgergli lo sguardo. Non pretende attenzione né contesta le sue carte sporche. Le ferite sono squarci attraverso i quali fa passare la sua luce per offrire non un pozzo ma una sorgente, non gli amori ma l’Amore. E rivela che dinanzi ad una donna, e per di più samaritana, c’è il Dio di ogni uomo. Non quello delle identità e delle appartenenze, dei primati, degli obblighi e dei distinguo ma quello che abita la storia, le fragilità e i bisogni di ogni essere umano, di tutto l’essere umano. La scelta da fare è se tornare ad abbeverarci a pozzi esauriti o esauribili, oppure passare alla fonte dove l’acqua sgorga. Il Risorto che adoreremo a Pasqua è questa fonte che zampilla per la vita eterna. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: II domenica di Quaresima | Vangelo (Mt 17, 1-9)

2 Marzo 2023 - Se l’inganno della tentazione è il boccone attraverso il quale il maligno opera la distruzione e l’annientamento di Quelli che Dio ama, la Trasfigurazione è la gloria, il peso specifico, che Dio dà ai Suoi amati, ad iniziare dal Figlio che finirà per farsi cibo nella Pasqua verso la quale siamo in cammino. Questo è il cammino della Gloria: si sale, si vede, si discende. L’ascesa al Tabor è condizione necessaria per vedere altro, per vedere diversamente quel reale in cui il demonio dopo averci separato da Dio, dapprima ci fa pensare male di Lui e quindi ci offre se stesso come dio da adorare. Schema falso e, purtroppo, vincente. La vista della Gloria non è tras-formazione di qualcosa in qualcos’altro ma è tras-figurazione, ossia la stessa cosa vista nel suo senso autentico e profondo: oltre la figura, oltre la forma. A cambiare sono gli occhi di un essere umano semplice e non acculturato come Pietro, al quale quella rivelazione risulta accessibile e bella fino a fargli esclamare: “... restiamo qui!” E c’è anche la discesa, perché Dio non è mai autoreferenziale, anche se a volte fa comodo pensarlo così e fissarlo in un quadro dottrinale. Il rientro al reale, non di rado esposto alle insidie di questo mondo, è il luogo dove Egli trasfigura e mette ordine ai nostri desideri, ai nostri progetti e ai nostri bisogni. È dura, ma la discesa di questi tempi per noi è sulla spiaggia di Cutro in mezzo a quel che resta di un barcone che all’alba di domenica scorsa (I domenica di quaresima) incagliandosi in una risecca, a causa del mare agitato, ha rovesciato in mare bambini, donne e uomini, di cui 66 vittime e 81 superstiti, finora accertati; la discesa è fra le gelide terre del territorio ucraino e in quelle di altri 60 scenari dove insistono guerre e conflitti;  è fra le corsie di ospedali o case di lunga degenza; è fra le contese tra coniugi o ex coniugi che oltre a distruggere le famiglie stanno distruggendo le persone; è fra le assurde e insensate aggressività degli adolescenti per cui non si riesce a capire il verso da cui approcciarli. Più che mai avvertiamo il bisogno di una vera trasfigurazione per collaborare al Suo progetto di salvezza. Ancora una volta: o ci amiamo o ci distruggiamo! (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: VII Domenica del Tempo Ordinario

16 Febbraio 2023 -
In questa settima domenica del tempo ordinario, alle soglie della Quaresima, il Vangelo proietta una scandalosa aurora sugli occhi dei cristiani, uno scorcio di quel “non ancora” che illumina e provoca il “già” di chi ascolta. Chi è venuto a dare compimento alle parole di Mosè le sta, via via, rendendo perfette liberandole dai limiti che la paura ha sinora imposto loro e adesso, in quest’ultimo commento, sembra giungere quasi stravolgerle. “Avete udito che fu detto: «Occhio per occhio e dente per dente»”: seguendo l’ordine in cui i precetti e divieti della Legge vengono elencati nel libro dell’Esodo, dopo il Decalogo, Gesù va a interpretare il cosiddetto “codice dell’Alleanza” dove si trova la legge del taglione (cf. Es 21,24). Legge, che dai vari membri del corpo, verrà estesa all’intera vita, nel Deuteronomio: “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente” (19,21). In realtà viene ad esservi stabilita una giustizia retributiva ben superiore a quella sproporzionata che la precedeva: la legge di Lamec, figlio di Caino. In essa, infatti, era detto: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23-24). Un’asimmetria che ci ricorda qualcosa di molto più recente rispetto ai tempi del Caino biblico, quando la morte di un tedesco valeva la vendetta della morte di dieci italiani. La Legge del Sinai dimostra di essere madre di una più alta civiltà quando stabilisce che ogni vita vale come l’altra, sia quella del re sia quella del cittadino comune, sia quella del povero sia quella del ricco, conferendo alla vita un valore assoluto. Ma due sono i limiti su cui Gesù va a intervenire: il primo è quello che ivi si intenda la vita del fratello ebreo e non di tutti gli umani al mondo; ancorché non manchino delle attenzioni per la vita del “nemico”, infatti, quella che viene protetta con la comminazione della vendetta è la vita del fratello, del figlio di Abramo circonciso. Non per nulla Gesù prosegue dicendo: “Avete inteso che fu detto: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico»”. Il prossimo è quello che fa parte della tua famiglia, della tua etnia, della tua “nazione” – oggi qualcuno direbbe! – mentre nel “nemico” ci sono tutti gli altri: gli stranieri, i pagani, quelli che sono fuori dal “muro” della tua appartenenza. Qualcosa che viene spontaneo paragonare a tanti consigli che sentiamo dare oggi in Europa: stabiliamo un confine tra noi e i migranti, i profughi, i mussulmani, tutti coloro che premono alle porte – immaginarie – ed erette proprio dal limes escludente della legge. Il secondo limite sta nel fatto che la vendetta tradisce la ragione stessa per cui Dio donò la Legge ad Israele: perché avesse la vita! La vendetta non riesce infatti che ad accumulare morte su morte. Ed è per questo che, sin dalle pagine del libro dell’Esodo, poco dopo che vi leggiamo sulla legge del taglione vediamo che Dio stesso si trova a trasgredirla! Verso quel popolo che alle pendici del monte Sinai, infatti, avrebbe meritato la morte perché s’era fabbricato un vitello d’oro per adorarlo, Dio rinunciò alla vendetta e si fece per loro pura misericordia. Quel popolo che da alleato era divenuto un nemico del suo Dio fu trattato da Lui come un figlio adorato! Cui si perdona perché possa vivere e mutare il suo cuore e capire che l’unica “giustizia” che genera vita è la grazia dell’amore, è la fraternità universale, è la riconciliazione offerta incondizionatamente, che abbatte il muro fra amici e nemici. Di questa “giustizia” di Dio – “che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” – Gesù riconosce la radice nell’antica legge di Mosè e cerca di spiegarla a chi, pur sapendola a memoria, sembra non averla ben compresa. Qualcosa che rispecchia  l’ignoranza anche di molti tra noi cristiani che ancora si scandalizzano del porgi l’altra guancia, che non vedono ancora altra soluzione che quella armata a chi fa la guerra. “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli”. Chi si dice cristiano non può rinunciare a quell’unica, originaria “differenza” che Tertulliano già riconosceva: “Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani” (Ad Scapulam 1,3). “Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? (…) Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. (Rosanna Virgili)  

Vangelo Migrante: VI domenica del tempo ordinario|Vangelo (Mt 5,17-37)

10 Febbraio 2023 - “Sta scritto… ma io vi dico”, è la Parola che risuonerà nel Vangelo di questa domenica. Nessuna divisione o polarizzazione, come forse piacerebbe. Gesù entra nel progetto di Dio non per rifare un codice, ma per rifare l’amore. “Avete inteso che fu detto agli antichi: non ucciderai;” ma chi non ama, uccide già. Il non-amore è già un incubatore di violenza e omicidi oltre che un lento morire. E Gesù mostra i primi tre passi verso la morte: l’ira, l’insulto, il disprezzo, tre forme di omicidio. L’uccisione esteriore viene dalla eliminazione interiore dell’altro. Questo fa innanzitutto il non-amore. “Avete inteso che fu detto: non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”. Non dice semplicemente: se tu desideri una donna; ma se guardi per desiderare, con atteggiamento predatorio, per conquistare e violare, per sedurre e possedere, se la riduci a un oggetto da prendere o collezionare, tu commetti un reato contro la grandezza di quella persona. ‘A(du)lterio’ significa alterare, cambiare, falsificare, manipolare la persona; e, quindi, rubare a quella persona il sogno di Dio. Adulterio non è tanto un reato contro la morale, ma un delitto contro la persona, deturpare il volto alto e puro dell’umano che c’è il lei. E conclude: “avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non giurerai il falso (…) Ma io vi dico: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no”. Gesù va fino in fondo: dal divieto del giuramento, arriva al divieto della menzogna. Dì sempre la verità e non servirà più giurare. Non abbiamo bisogno di mostraci diversi da ciò che siamo nell’intimo. Dobbiamo solo curare il nostro cuore, per poi prenderci cura della vita attorno a noi; è necessario guarire il cuore per poi guarire la vita. È la pagina tra le più radicali di tutto il Vangelo ma, per contrasto, capisci che è anche la più umana, perché agisce su tre leve decisive della vita di ciascuno: la violenza, il desiderio, la sincerità.  Gesù annuncia la Vita, sempre; e lo fa con le parole proprie della Vita: “Custodisci le mie parole ed esse ti custodiranno” dice il libro dei Proverbi. Con linguaggio corrente, viste anche le tante parole ‘cantate’ e confuse di questi giorni (Sanremo) potremmo commentare: “…e non finirai nell’immondezzaio della storia”.  

Vangelo Migrante: V domenica del tempo ordinario |Vangelo (Mt 5,13-16)

2 Febbraio 2023 - Voi siete sale, voi siete luce. Sale che conserva le cose, luce che accarezza le cose e ne risveglia i colori e la bellezza. Nell’immagine Gesù annuncia che dalla buona riuscita della nostra avventura umana e spirituale, dipende la qualità del resto del mondo. Come fare per vivere questa responsabilità che è di tutti? Meno parole e più gesti. E nei gesti alcuni accorgimenti: non siamo noi ad aver acceso le qualità del nostro sapore e la luminosità dei nostri gesti; né la loro utilità è data per ottenere vantaggi. L’agire annunciato da Gesù è sempre per la gloria di Dio. È Lui che ha creato il buono del sapore e il bello della luce. La testimonianza cristiana è autentica quando rimanda al Padre dei cieli, altrimenti è inutile e dannosa come il sale che diventa insipido e come una lucerna posta sotto il moggio. Un agire intriso di autoreferenzialità o sempre alla ricerca di approvazione svuota di senso le stesse azioni dando origine a macroscopici abbagli, a picchi di ‘entusiasmo immotivato’ destinato a non durare e a non servire. Il discepolo si preoccupa esclusivamente di far conoscere questo Dio origine e fonte. Nella sua autentica fedeltà alla gloria di Dio, e non alla sua, risiede la riuscita e il senso di quello che fa. Il discepolo è pienamente consapevole di essere limitato ma sa bene che la sua unica ricchezza è Dio. Quanti hanno l’occasione di incontrare questo sapore e questa luminosità sono naturalmente scossi e inevitabilmente si interrogano sui motivi che spingono ad agire così. È il Vangelo ‘sine glossa’ del poverello di Assisi di cui si racconta che un giorno invitò fra’ Ginepro ad uscire con lui e a predicare. In risposta, fra’ Ginepro gli manifestò la sua nota inadeguatezza al compito ma, vista l’insistenza di Francesco, acconsentì. Girarono per tutta la città pregando in silenzio, sorridendo ai bambini, accarezzando i malati e aiutando qualche donna a portare dei pesi. Dopo aver attraversato più volte la città arrivò l’ora di rientrare. Fra Ginepro chiese: “e la nostra predica?”.  “L’abbiamo fatta, l’abbiamo fatta” rispose il santo.

Vangelo Migrante: IV domenica del tempo ordinario | Vangelo (Mt 5,1-12)

26 Gennaio 2023 - Chi non vuol essere felice? Nel Vangelo di questa domenica Gesù ci offre addirittura la beatitudine, un di più di felicità. A prima vista per come è strutturato il testo, l’attenzione può essere rapita da quelle condizioni di vita che umanamente non sono proprio un vantaggio o non sono la condizione accettata dai più: beati quelli che sono poveri in spirito, nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, i puri di cuore, i misericordiosi, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia, gli insultati, i perseguitati e i calunniati. Sembra di assistere ad una benedizione delle sventure! Non è così! Il testo annuncia la beatitudine partendo, sì, da una condizione di vita ma si allunga dicendo anche ‘perché’. Il punto di partenza non è tutto; il tutto viene annunciato nello snodo del ‘perché’: perché di essi è il regno dei cieli, perché saranno consolati; perché avranno in eredità la terra; perché saranno saziati; perché troveranno misericordia; perché vedranno Dio; perché saranno chiamati figli di Dio; perché di essi è il regno dei cieli, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Accolte così, le beatitudini diventano una provocazione perché costituiscono una domanda diretta e profonda: ti interessa il regno dei cieli, ti interessa vedere Dio, di essere consolato, di avere quella pienezza e sazietà di vita che solo Dio può dare e nessun altro può togliere? Non è una sfida. È l’offerta più alta che sia mai stata fatta al cuore dell’uomo. Gandhi diceva che queste sono “le parole più alte del pensiero umano”. Chi non ha mai vissuto una di quelle condizioni ‘svantaggiose’? Ne siamo venuti fuori? Può darsi; ma, ahinoi, mai per sempre e mai per tutti. Al posto della lotta continua, comunque faticosa e sempre ìmpari, Gesù offre la pienezza di Dio e del Suo Regno disponibile per tutti gli uomini. Non è utopia o nostalgia di un mondo fatto di bontà, sincerità, giustizia e non violenza ma è un tutt’altro modo di essere uomini. Gesù pronuncia queste parole su una montagna, circondato dalla folla e dai suoi discepoli. In quella circostanza insegnerà anche il Padre nostro. Egli è il nuovo Mosè che promulga la legge della nuova alleanza. Per accoglierla è necessario ‘emigrare’, uscire, salire, per poterlo ascoltare e diventare davvero Suoi discepoli. Nelle Beatitudini c’è un’attrazione perchè si avvertono come difficili eppure suonano amiche e necessarie per il cuore dell’uomo. Amiche perché non stabiliscono nuovi comandamenti, ma propongono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, necessarie perché quando uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: III domenica del tempo ordinario | Vangelo (Mt 4,12-23)

19 Gennaio 2023 - Con il Motu proprio ‘Aperuit illis’, Papa Francesco ha stabilito che “la III Domenica del Tempo ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio”. Non a caso la Parola di questa domenica ci offre il messaggio generativo del Vangelo: “il regno dei cieli è vicino!” Giovanni è stato arrestato, la voce del Giordano tace ma poco più in là sulle rive di un lago si alza una voce libera: esce allo scoperto, e senza paura, un giovane rabbi che da solo va ad affrontare i confini nella meticcia Galilea, crogiolo di genti, regione quasi perduta per la fede, e dice: “convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”. Dio è vicino, è qui, e non al di là delle stelle. Quel regno di giustizia, di pace, d’amore, desiderato da ogni uomo di buona volontà, finalmente non è più solo una bella ma irrealizzabile utopia: è vicino. Non si tratta di un regno completamente presente ma in via di costruzione: quanto più gli uomini accolgono Gesù e il suo messaggio, tanto più i segni della presenza del regno dei cieli diventano riconoscibili. “Convertitevi”, allora, significa ‘accorgetevene’, ‘sapevatelo’, si direbbe oggi; giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. La notizia bellissima è questa: Dio è all’opera per guarire la tristezza e il disamore del mondo e ogni strada del mondo è Galilea. La conversione non nasce dalla paura di essere condannati dal giudizio di Dio, ma dalla bellezza del progetto finalmente realizzabile. La gioia nel cuore del discepolo è la naturale conseguenza: la vita ha finalmente un senso compiuto e l’uomo può dedicare tutta la sua vita per collaborare alla costruzione del regno dei cieli. L’esito felice del progetto è assicurato da Gesù. La prima e fondamentale conversione consiste proprio nel fidarsi di Lui e della Sua lieta novella. Chi non crede alla vicinanza del regno di Dio inevitabilmente si rassegna ad una vita mediocre e senza senso. Se l’invito alla conversione per vedere il regno dei cieli, e farne parte, è rivolto a tutti, non tutti però hanno lo stesso compito. Alcune persone sono chiamate a seguire Gesù più da vicino: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”. I dodici apostoli dopo la morte e la risurrezione di Gesù, avranno il compito di guidare le comunità cristiane nella custodia e nella diffusione del Vangelo. Non si tratta di un compito più importante degli altri, ma di un servizio indispensabile perché tutti possano essere discepoli. Quel rabbi ci mette a disposizione un tesoro di vita e di amore, un tesoro che non inganna, che non delude. Ascoltarlo è sentire che la felicità non è una chimera, è possibile, anzi è vicina. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: II domenica del tempo ordinario | Vangelo (Gv 1,29-34)

12 Gennaio 2023 - Il Vangelo domenicale del tempo ordinario riparte dalle parole del Battista che indica in Gesù “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Quale peccato? L’errore di bersaglio compiuto da tutta l’umanità: creata, ‘vocata’ a vivere in un modo, essa vive un perenne ‘fuori bersaglio’ accumulando sbagli e debiti. Quale Agnello? Non un Dio giudice e carnefice, come spesso viene riconosciuta la divinità, ma un innocente, un non violento, mite ed amante di coloro per cui è venuto a pagare i danni prodotti e l’enormità del debito contratto in ogni errore di bersaglio. Giovanni è consapevole che Gesù ha il potere di salvare il mondo e liberare l’uomo da ogni male, malattia, infermità, morte e schiavitù per condurlo alla pace; ma sa anche che Gesù compirà il suo mandato in modo del tutto inatteso e imprevisto. Gesù, il Messia e il Salvatore, userà sempre e solo le ‘armi’ dell’Agnello: l’amore, la compassione, la misericordia, la mitezza e la dolcezza. E questo per Giovanni umanamente non sarà affatto un vantaggio: in quella consapevolezza, ammette che l’Agnello che sta indicando non combatterà con forza e con violenza nemmeno contro il potere e le ingiustizie che causeranno la sua decapitazione … Provvederà anche a lui ma non nel modo che la mente o la paura umana si aspettano. Giovanni sperimenta la Sua potenza liberatoria ma anche l’assoluta divina imprevedibilità che non lo liberano dalle catene della prigionia e della decapitazione. Il Vangelo di oggi è ad un tempo annuncio e atto di fede. Parole e gesti. Giovanni accetta per davvero di essere parte vera, costi quel che costi, di quel Regno che le sue parole inaugurano. Gesù sa che fino a quando la testa di Giovanni sarà al suo posto, sarà possibile per gli uomini conoscere il più grande tra i nati di donna e ascoltare l’annuncio del precursore; ma sa anche che la testa di Giovanni sul vassoio di Erodiade, manifesterà la gloria di Dio e sarà la semina feconda del Regno di Dio di cui Giovanni, e con lui tutti coloro che stanno affondando, che naufragano in mare o nell’anonimato di un’esistenza ai margini e che soffrono le conseguenze del peccato, sono parte integrante. Ecco l’Agnello di Dio: imprevedibile, certo; ma Salvatore per davvero! (p. Gaetano Saracino)      

Vangelo Migrante: Solennità dell’Epifania del Signore

4 Gennaio 2023 - Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo di una carovana, al passo di una piccola comunità: si cammina insieme, non solo attenti alle stelle ma anche attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Come quello dei Magi, il cammino di ogni comunità può essere pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il dramma non è cadere ma arrendersi alle cadute. Allo stesso modo, una stella che sorge non indica soluzioni immediate ai problemi della vita ma intende suscitare nuovi inizi e nuovi cammini, anche nella notte più nera, dopo un fallimento o un pericolo. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l'oro, l’incenso o la mirra ma è il loro stesso viaggio che permette di cercare e arrivare ad una luce che c’è. “Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra”, ripeteremo nel Salmo responsoriale. I Magi, e i nuovi popoli con loro, non sono già formati, indottrinati, perfetti ma sono popoli, comunità, persone in cammino che cercano e portano al Figlio di Dio la vita nel suo ‘migrare’. Il ‘tutto’ degli uomini è preceduto dal ‘tutto’ di Dio: la venuta di Dio è per tutti, la culla di Betlemme è per tutti, la mensa eucaristica è per tutti. Quel che conta non è arrivare prima ma arrivare tutti. I Magi sono la nostra possibile risposta al Natale del Signore! (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: Solennità di Maria Santissima Madre di Dio | Vangelo (Lc 2,16-21)

29 Dicembre 2022 - La festa cristiana che venera Maria Madre di Dio, suggerisce una meditazione su Maria che custodisce tutti gli avvenimenti straordinari e misteriosi della sua vita, meditandoli nel suo cuore, e in tal modo li strappa alla consunzione del tempo. La data del calendario civile, il primo giorno dell’anno, suggerisce una meditazione apparentemente di segno opposto: il tempo divide e disperde, il tempo fugge e inesorabilmente si porta via la nostra vita. Il passare degli anni rischia infatti di produrre una stanchezza progressiva, connessa all’incapacità di trovare un senso compiuto alla vita sempre insidiata dall’inarrestabile scorrere del tempo. Il tempo fugge e non puoi fermarlo. Lentamente rischia di uccidere ogni speranza e tutto diventa inutile e vano; praticamente un’attesa (più o meno lunga) del colpo finale: la morte. La ragione non vede altre vie. Nel Vangelo odierno si affaccia la risposta dell’intervento di Dio: dopo la nascita di Gesù, Giuseppe e Maria compiono un rito al tempio di Gerusalemme: “quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù”. Nella cultura semitica il nome ha una grande importanza in quanto esprime la realtà stessa della persona che lo porta. Il nome Gesù significa ‘Dio è salvatore’, ‘Dio salva’. In modo perfettamente appropriato, il nome Gesù esprime dunque il mistero del Dio che si è fatto uomo per salvarci. Mistero appena intravisto negli avvenimenti del Natale, mistero che Maria non pretende di capire subito in modo compiuto ma che serba nel suo cuore, così come accadrà per quelli successivi della vita del suo Figlio; dispone il suo cuore alla sequela e alla fine la verità, espressa nel nome del suo Figlio, diventerà per lei realtà luminosa. L’icona di Maria rappresenta la fede cristiana che conferma e soprattutto precisa che l’unico rimedio alla dispersione del tempo non è pretendere di capire subito e sempre tutto, ma innanzitutto nell’offrire a Dio tutto noi stessi e tutte le nostre opere. Da lì nasce la fiducia che in Gesù Cristo Dio ha rivelato definitivamente il suo volto e ci ha dato l’esempio luminoso ed impegnativo di quale sia l’unica strada per salvare la propria vita. Come Maria, anche noi in Gesù scopriremo il Dio che salva, il Dio che si è fatto presente nella storia ma che sta prima del tempo e oltre ogni tempo. È lui il Dio che raccoglie anche il più piccolo frammento della nostra vita, quando viene spesa per gli altri, per restituircelo bello, quanto neppure riusciamo ad immaginare. Fidiamoci di lui, come Maria, e ad ogni anno che passa capiremo qualcosa di più del tempo che scorre per portarci alla vita definitivamente ‘rialzata’: la vita eterna. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: IV domenica di Avvento | Vangelo (Mt 1,18-24)

15 Dicembre 2022 - A differenza di quanto spesso si sottolinea, il maggior turbamento di Giuseppe non nasce dal dubbio a proposito della fedeltà di Maria, ma dalla difficile comprensione di quale potesse essere il suo ruolo in una nascita tanto misteriosa. Il progetto divino rischia di essere compromesso dalla decisione di Giuseppe. Infatti egli, che è giusto, non può riconoscere una paternità alla quale non ha diritto. Per questo senza disonorare Maria vuole andarsene: la soluzione migliore e più giusta sarebbe quella di farsi da parte e lasciare che un evento tanto grande e misterioso facesse il suo corso senza di lui. Dio solo poteva condurre Giuseppe ad assumere una tale paternità; egli accetta per obbedienza il suo importantissimo compito paterno: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Giuseppe è giusto, cioè desidera solo che la sua vita sia vissuta nella fede e nell’obbedienza a Dio. È fedele nel seguire la volontà di Dio sia nel suo primo proposito di rinviare Maria, sia nell’accoglierla alla fine. E quindi riconosce in quel Figlio un dono fatto a lui e a tutta l’umanità, segno inequivocabile e definitivo dell’amore di Dio per ogni uomo. Con molto coraggio e molta umiltà, si dispone a collaborare a quel singolare progetto di salvezza: “Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”. Subito Giuseppe prende con sé Maria ed accetta di mettere al bimbo che sarebbe nato il nome Gesù. La sua grande fede semplice, riflessiva, silenziosa gli permette di conoscere la gioia immensa di essere lo sposo di Maria e il custode del Redentore. Maria dà il corpo a Gesù, ma Giuseppe, dandogli il suo nome, ne fa un essere sociale: lo introduce nella condizione umana. Attraverso di lui Gesù potrà radicarsi in un popolo, appartenere ad una discendenza, entrare in una tradizione, crescere sereno, imparare un mestiere. La vicenda di Giuseppe rende manifesta una verità che interessa ogni padre della terra: Padre vero, dall’origine e per sempre, è soltanto quello dei cieli. È necessario che tutti i padri della terra salgano fino al cielo per comprendere chi siano davvero i loro figli: sono tutti figli di quel Padre di cui Gesù svelerà finalmente il volto misericordioso e fedele. La gioia di Giuseppe è dunque la gioia che conosce ogni uomo che si fida di Dio. In particolare la sperimenta chi sa accogliere e riconoscere in ogni figlio un dono di Dio. In Gesù Dio ci ha visitati. Allo stesso modo, ogni uomo nuovo che arriva rinnova il segno che Dio non si è stufato di loro. Accoglierlo, è dire Amen! (p. Gaetano Seracino)  

Vangelo Migrante: II domenica di Avvento | Vangelo (Mt 3,1-12)

1 Dicembre 2022 - Fa il suo esordio la figura di Giovanni il Battista che annuncia la svolta radicale della storia umana: il Cristo sta per venire. L’imminente arrivo del regno di Dio è legato all’assoluta necessità della conversione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. La prima buona notizia è che Dio è vicino, è qui: Dio è accanto, a fianco, si stringe a tutto ciò che vive; come una rete raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia), uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero. Il regno dei cieli è la terra come Dio la sogna, e in Gesù, incarnato, la realizza: si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore, un respiro. Egli battezzerà in Spirito Santo e fuoco e chi si farà raggiungere cambierà vita, sarà immerso, avvolto, intriso, impregnato della vita stessa di Dio. Riconosce i segni della vicinanza e della presenza del regno dei cieli, solo chi ha nel cuore la fame e la sete della giustizia. Chi non sente nel cuore il desiderio grande e la nostalgia intensa di una vita più giusta e più fraterna, non può riconoscerlo ed accogliere il Suo regno. Proprio come quei farisei e sadducei a cui il Battista rivolge parole estremamente dure perché sa troppo bene che non sono disposti a cambiare vita: “razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?” Vanno nel deserto spinti dalla curiosità, ma con la convinzione di non aver nessun peccato da confessare e nulla da dover cambiare. S’illudono di potersi sottrarre all’ira di Dio attraverso la pratica di un battesimo solo esteriore, al quale non corrisponde nessun proposito serio di cambiare vita. Spirito assai diffuso e pericoloso: più di quanto non si pensi. Ragion per cui le parole rivolte ad essi non possono non colpire la coscienza di ciascuno: “già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco”. Cosa vuol dire? Vuol dire che così come nella vita non si va avanti se uno non accetta dei tagli, delle perdite, delle potature allo stesso modo non si accoglie il regno dei cieli se non si è disposti ad eliminare tutto ciò che non è buono o è ambiguo. La prima forma di conversione è proprio il desiderio che il Signore arrivi con tutta la chiarezza e la bellezza che ha in sé; ma anche con la selettività che serve per liberarci dei rami stupidi e inutili della nostra vita. Non possiamo proprio fare a meno, allora, di una venuta che, come fuoco, bruci le nostre menzogne e ci liberi dalle perdite di tempo, dagli inganni, dalle trappole, liberi il mondo da tutto ciò che non è il bene. Essa avrà il volto della misericordia di Dio, che non vuole la morte del peccatore ma la sua conversione, e la forza dello Spirito che sostiene, illumina, rafforza. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrantes: 1 domenica di Avvento

25 Novembre 2022 -
Inizia un nuovo anno liturgico, tramite il tempo forte dell’Avvento siamo invitati a rivolgere la nostra attenzione verso le ultime realtà, riflettere intorno al destino della creazione e della vita di ciascuno di noi. Lo scopo di un’esistenza, può essere meglio compreso, solo nel momento in cui si ha presente il fine verso cui siamo incamminati. Vi è un potenziale rischio: avere lo sguardo basso, immerso nel vivere quotidiano, senza rendersi conto di quale sia il traguardo della vita. Qualcun altro invece, può essere ben consapevole che il nostro essere creature ha un termine, però non vuole pensarci, quasi a esorcizzare il momento. Il tempo dell’Avvento, soprattutto nella prima parte, ci dona delle indicazioni molto preziose, aiutandoci a comprendere che la nostra esistenza acquista sapore se consapevole di ciò che accadrà: è in base al fine che si prendono le misure del vivere. Questo tempo, che non va ridotto a una mera preparazione al Natale, ci insegna che la vita umana non ha una fine, bensì un fine, uno scopo: il mio incontro con Cristo luce del mondo. La corona d’avvento mi ricorda proprio questo aspetto, l’esistenza umana non va verso la morte intesa come oscurità, annullamento, ma verso la luce che è Cristo. Il fine si caratterizza come un ad-ventus: un appuntamento tra l’uomo e Gesù, infatti, mentre noi camminiamo incontro a Cristo, Lui a sua volta procede verso di noi. “E vide che era cosa buona e giusta” ci ricorda il libro della Genesi, e se così è, anch’io come creatura possiedo un senso che nasce dal Cristo che mi attende, mi salverà, mi condurrà con Lui. Andare incontro al “fine” non significa che stiamo camminando verso un futuro che accadrà, quest’ultimo non è scritto da nessuna parte, non siamo dei destinati, il Vangelo piuttosto desidera che ciascuno di noi si mobiliti su cosa fare, perché possiamo giungere ben preparati all’incontro con il Signore. Il tema predominante del Vangelo di oggi e dell’Avvento è il vegliare: la religione non è un oppio, non è una realtà in grado di chiuderti gli occhi e anestetizzarti dalla concretezza della vita, al contrario sostenendo che l’esistenza è un cammino, ti chiede di darle uno scopo: se sei ben conscio di dove stai andando, non perder tempo con il distrarti guardando il paesaggio. Vegliare: c’è un oltre che attendo, c’è un di più imparagonabile rispetto alle bellezze che nell’immediato l’occhio può osservare. Vegliare: la mia vita non trova il suo senso profondo, la motivazione del cammino in quello che è mortale come me, ma il fine è in Lui che mi sta venendo incontro, è l’eternità che viene per avvolgermi e farmi divenire luce. Stai attento a non inciampare. Il giorno dell’incontro non ci è dato saperlo perché ciascuno di noi non si culli sul tempo mancante o non entri nel panico quando esso si avvicina, vivi bene: ogni giorno può essere il giorno, tieni sempre aperti gli occhi. La tua fede assume sapore non in base al ruolo o alla classe sociale che hai acquistato su questa terra o sulle categorie umane che determinano il realizzarsi. Due persone possono svolgere il medesimo lavoro, avere lo stesso modello di vita, si determina però una differenza: vi è chi ama e chi invece “prende”, chi lavora per edificare il bene comune e chi invece si impadronisce delle cose, procurando sofferenza per il prossimo. Uno sarà preso e l’altro no, chi era consapevole del “fine” è accolto nell’eternità sperata, chi credeva di trovare senso nelle cose del mondo si dissolverà con esse. (Luca De Santis)

Vangelo Migrante: Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo| Vangelo (Lc 23,35-43)

17 Novembre 2022 - Che Dio è un Dio che muore? E per di più, di una morte infamante come la croce, maltrattato e deriso: ‘guardatelo, il Re!’ I più scandalizzati sono i devoti osservanti: “ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti; come a dire: ‘se sei il re, usa la forza!’ E per bocca di uno dei crocifissi, ritorna con prepotenza anche la tentazione del deserto: “non sei tu il Cristo? salva te stesso e noi”. Fino all’ultimo Gesù deve scegliere quale volto di Dio incarnare: quello di un messia di potere, secondo le attese di Israele, o quello di un Re che sta in mezzo ai suoi come colui che serve? Il messia dei miracoli e della onnipotenza, o quello della tenerezza e del perdono? E sceglie. Ce lo dice l’assassino che prova un moto compassione per Lui e vorrebbe difenderlo pur nella sua impotenza di inchiodato a morte. In risposta all’altro detrattore, urla: “non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?”. Egli vede Gesù nella loro stessa pena. Eccolo il Re: è dentro il nostro patire, è crocifisso in tutti i crocifissi della storia, naviga nel fiume di lacrime che scorre nel mondo, o tra le onde che solcano mari in cerca di approdo, entra nella morte perché là entra ogni figlio di Dio. E mostra come il primo dovere di chi ama è di essere insieme con l’amato. “Non ha fatto nulla di male!”: questo è Gesù! Niente di male, per nessuno, mai, solo bene, esclusivamente bene. E fa del bene fino alla fine: perdona, si preoccupa non di sé ma di chi gli muore accanto. Anche sull’orlo della morte, stabilisce un momento sublime di comunione che diventa via al cielo: “ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, gli chiede uno dei due compagni di sventura. Gesù non solo si ricorda, ma lo porta via con sé, se lo carica sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta e ritrovata, perché sia più leggero l’ultimo tratto di strada verso casa: “oggi sarai con me in paradiso”. La salvezza è un regalo, non un merito. I re, per come li intende il mondo, la vita la chiedono ai sudditi. Mandano in guerra gli eserciti e garantiscono la vita di tutti salvando la propria! Per Gesù no: Lui è la Via e la fa con noi, la verità e la condivide con noi, la vita e ce la dona! Qualunque sia il nostro passato: questa è la Buona Notizia di Gesù Cristo, Re dell’Universo. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: XXXII Domenica del Tempo Ordinario | Vangelo (Lc 20,27-38)

3 Novembre 2022 - Dopo i farisei e gli scribi anche i sadducei sono avversari di Gesù. Aristocratici e conservatori in campo religioso e politico, conducevano una vita agiata. Ai loro occhi la fede nella resurrezione non era normativa, anzi doveva essere fermamente rifiutata. Presunzione e saccenteria stanno alla base della loro posizione teologica; ritengono, infatti, con una banale storiella di poter chiudere definitivamente tutti gli interrogativi relativi alla vita oltre la morte. Lo stravagante racconto secondo cui sette fratelli sposano in successione la stessa donna ha come unico obiettivo quello di screditare la fede nella risurrezione. Dal loro punto di vista, qualora si ammettesse la resurrezione, si avrebbe l’insolubile caso di una donna moglie di sette mariti. Il loro obiettivo non è certo quello di sapere chi sarà il marito di quella donna, ma quello di ridicolizzare e negare la risurrezione. Nel racconto, se da una parte stupisce la fermezza con cui negano la resurrezione, e la conseguente vita oltre la morte, dall’altra sono inequivocabili le parole di Gesù che smascherano le ragioni di tanta ostilità. Gesù, innanzitutto, rigetta il pregiudizio che la resurrezione sia semplicemente un rozzo prolungamento della vita terrena: “i figli di questo mondo prendono moglie e marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito”. La meta finale della speranza cristiana è la pienezza della vita dei figli di Dio: “infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”. È proprio in forza di un’intima comunione con Dio che siamo strappati per sempre alla morte. E, quindi, si può rinunciare al matrimonio e agli affetti conseguenti per il regno di Dio, proprio perché questo mondo non è quello definitivo. Se con la morte finisse tutto sarebbe impensabile e assurdo rinunciarvi. Né deve sfuggire che solo i giusti sono giudicati degni della risurrezione per la vita: “quelli che sono giudicati degni”. Ora, i sadducei vivevano tenacemente aggrappati al presente e alle cose che si vedono, arrendendosi ad essere per sempre sconfitti dalla morte perché non disponibili a trasformare la loro vita e a renderla buona e giusta. Esiste una scintilla del divino deposta in noi. Ognuno deve però alimentarla, vivendo una vita buona e giusta. Non serve né negare la risurrezione e neppure limitarsi ad un vago desiderio di vita oltre la morte incapace di promuovere una vita buona. Gesù non intende dare informazioni precise sull’aldilà, sulle modalità della risurrezione, ma afferma in modo perentorio la fede nel Dio vivente capace di produrre opere buone in vita e più forte della morte stessa. Il desiderio di immortalità è ben espresso in un passaggio molto efficace tratto dai Demoni di Fedor Dostoevskij: “La mia immortalità è indispensabile perché Dio non vorrà commettere un’iniquità e spegnere del tutto il fuoco d’amore ch’egli ha acceso per lui nel mio cuore. […] Io ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore deposto in me come una scintilla divina. Come è possibile che Lui spenga me e la gioia e ci converta in zero? Se c’è Dio, anch’io sono immortale”. Il racconto è posto quasi al termine del cammino terreno di Gesù. Quello che ci consegna è decisivo: fidarsi di Dio in modo incondizionato, compiere ogni giorno la sua volontà e produrre frutti di bene e di giustizia, sostenuti dalla speranza certa di essere in cammino verso la vita piena e definitiva: una vita che certamente non deluderà. (p. Gaetano Saracino)