Tag: Sir-Zavaratto

È risorto!

6 Aprile 2021 - Città del Vaticano - Una settimana nella quale abbiamo accompagnato Gesù mentre entrava a Gerusalemme accolto dalla folla osannante. Lo abbiamo accompagnato in quella ultima cena nella sala del Cenacolo, quando ci ha donato, si è donato come pane spezzato e sangue versato. Nell’orto degli Ulivi eravamo con lui mentre uno dei dodici lo tradiva, mentre lui chiedeva amicizia ai suoi. Poi la croce estremo atto di amore per tutti gli uomini, ma “collocazione provvisoria” come ricordava don Tonino Bello che aveva visto questa scritta posta accanto al crocifisso in un locale della sacrestia del duomo a Molfetta: non c’è formula migliore per “definire la croce, la mia, la tua, non solo quella di Cristo”. La provvisorietà della croce, diceva, è data da un passo preciso del Vangelo: “da mezzogiorno alle tre si fece buio su tutta la terra. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è il divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore – affermava don Tonino Bello – ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio”. La domenica di Pasqua inizia con il buio, quando Maria di Magdala si reca al sepolcro. Buio fuori e, forse, buio dentro il cuore della donna. La pietra rotolata la fa correre da Pietro e da Giovanni per dire che “hanno portato via il Signore dal sepolcro. Per gli ebrei i simboli della Pasqua sono l’agnello e il pane azzimo. Cristo è morto sulla croce proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel Tempio di Gerusalemme, memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Cristo diventa così “l’agnello di Dio immolato sulla croce per togliere i peccati del mondo”. Il pane azzimo è il tema della purificazione: secondo una antica usanza ebraica, a Pasqua si doveva eliminare ogni più piccolo avanzo di pane lievitato, ricordo della fuga dall’Egitto quando, lasciando quella terra, gli ebrei avevano portato con se solo focacce non lievitate. Azzimi, simbolo di purificazione: “eliminare ciò che è vecchio per fare spazio al nuovo”. Ecco la novità cristiana, il nuovo “passaggio”: l’annuncio della risurrezione, è l’evento che illumina il mondo, le sue zone buie. È “il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi – dice papa Francesco nella veglia della notte – è possibile ricominciare sempre, perché c'è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti”. La Pasqua “non mostra un miraggio, non rivela una formula magica, non indica una via di fuga di fronte alla difficile situazione che stiamo attraversando”. Dall’altare della Cattedra, nella basilica vaticana, il Papa pronuncia il messaggio Urbi et Orbi, cioè alla città e al mondo, e dice: “Cristo risorto è speranza per quanti soffrono ancora a causa della pandemia, per i malati e per chi ha perso una persona cara”. E ancora: “Il Signore dia loro conforto e sostenga le fatiche di medici e infermieri. Tutti, soprattutto le persone più fragili, hanno bisogno di assistenza e hanno diritto di avere accesso alle cure necessarie. Ciò è ancora più evidente in questo tempo in cui tutti siamo chiamati a combattere la pandemia e i vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta”. Nello spirito di un “internazionalismo dei vaccini”, Francesco chiede alla comunità internazionale “un impegno condiviso per superare i ritardi nella loro distribuzione e favorirne la condivisione, specialmente con i Paesi più poveri”. Guarda a quanti sono in difficoltà: Cristo risorto, dice, “è conforto per quanti hanno perso il lavoro o attraversano gravi difficoltà economiche e sono privi di adeguate tutele sociali”. Chiede che il Signore “ispiri l’agire delle autorità pubbliche perché a tutti, specialmente alle famiglie più bisognose, siano offerti gli aiuti necessari a un adeguato sostentamento. La pandemia ha purtroppo aumentato drammaticamente il numero dei poveri e la disperazione di migliaia di persone”. Ha parole, il Papa, per le tante situazioni difficili che il mondo vive, e ricorda la tragedia dei migranti in fuga da guerre e miserie: nei loro volti, dice, “riconosciamo il volto sfigurato e sofferente del Signore che sale il Calvario”. (Fabio Zavattaro - Sir)  

La grazia dello stupore

29 Marzo 2021 - Città del Vaticano - Domenica delle Palme per la seconda volta senza processione in piazza san Pietro, senza folla, mani che agitano palme e ulivi. Ancora la pandemia che segna la festa, celebrazione dell’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme. «L’anno scorso eravamo più scioccati, quest’anno siamo più provati. E la crisi economica è diventata pesante» dice Papa Francesco all’Angelus. «In questa situazione storica e sociale, Dio cosa fa? Prende la croce. Gesù prende la croce, cioè si fa carico del male che tale realtà comporta, male fisico, psicologico e soprattutto male spirituale, perché il maligno approfitta delle crisi per seminare sfiducia, disperazione e zizzania». Male, come la violenza che si consuma in Myanmar con le sue numerose vittime; come l’attentato avvenuto nella mattina davanti la cattedrale di Makassar in Indonesia. Gesù sale sulla croce, dice il Papa, «per scendere nella nostra sofferenza», per avvicinarsi a noi «e non lasciarci soli nel dolore e nella morte». Celebra nella basilica vaticana papa Francesco, pochi fedeli nel rispetto delle norme anti Covid. Liturgia nella quale facciamo memoria di un ingresso nella città santa diverso dal solito; l’ultima tappa sono due località nei pressi del monte degli ulivi citati da Marco nel suo Vangelo: Betfage e Betania. Per entrare a Gerusalemme chiede ai suoi discepoli di trovare una cavalcatura semplice, umile, come quella di un asino. La gente attende per Pasqua «il liberatore potente, ma Gesù viene per compiere la Pasqua con il suo sacrificio», la gente «aspetta di celebrare la vittoria sui romani con la spada, ma Gesù viene a celebrare la vittoria di Dio con la croce». Entra nella città santa con l’intenzione di rivelare chiaramente la sua missione; sa che sono le sue ultime ore di vita terrena, sa che gli amici, i discepoli non esiteranno Giuda a tradirlo, e Pietro a rinnegarlo per tre volte. L’ingresso trionfante, per alcuni versi, metafora dell’effimera gloria terrena, di come l’uomo possa esaltare e successivamente condannare senza chiedersi perché. Una radice è un fiore che disprezza la fama, scrive Khalil Gibran. Gesù sale sulla croce, afferma Papa Francesco e prova «i nostri stati d’animo peggiori: il fallimento, il rifiuto di tutti, il tradimento di chi gli vuole bene e persino l’abbandono di Dio. Sperimenta nella sua carne le nostre contraddizioni più laceranti, e così le redime, le trasforma. Il suo amore si avvicina alle nostre fragilità, arriva lì dove noi ci vergogniamo di più. E ora sappiamo di non essere soli: Dio è con noi in ogni ferita, in ogni paura: nessun male, nessun peccato ha l’ultima parola. Dio vince, ma la palma della vittoria passa per il legno della croce. Perciò le palme e la croce stanno insieme». L’immagine che il Papa propone, nella sua riflessione all’Angelus, è Maria, «la prima discepola»: ha seguito il figlio «ha preso su di sé la propria parte di sofferenza, di buio, di smarrimento e ha percorso la strada della passione custodendo accesa nel cuore la lampada della fede. Con la grazia di Dio, anche noi possiamo fare questo cammino. E, lungo la via crucis quotidiana, incontriamo i volti di tanti fratelli e sorelle in difficoltà: non passiamo oltre, lasciamo che il cuore si muova a compassione e avviciniamoci». Nell’omelia, in basilica, papa Francesco mette l’accento sul tema dello stupore, e dice che le palme e la croce stanno insieme, per questo «dobbiamo chiedere la grazia dello stupore. La vita cristiana, senza stupore, diventa grigiore. Come si può testimoniare la gioia di aver incontrato Gesù, se non ci lasciamo stupire ogni giorno dal suo amore sorprendente, che ci perdona e ci fa ricominciare?». Diventa sorda la fede che perde lo stupore, «non sente più la meraviglia della grazia, non sente più il gusto del Pane di vita e della Parola, non percepisce più la bellezza dei fratelli e il dono del creato». Se non siamo più capaci di stupirci, forse è «perché la nostra fede è stata logorata dall’abitudine. Forse perché restiamo chiusi nei nostri rimpianti e ci lasciamo paralizzare dalle nostre insoddisfazioni. Forse perché abbiamo perso la fiducia in tutto e ci crediamo persino sbagliati. Ma dietro questi ‘forse’ c’è il fatto che non siamo aperti al dono dello Spirito, che è colui che ci dà la grazia dello stupore».(Fabio Zavattaro - Sir)