2 Dicembre 2021 - Come vi ricorderete la volta scorsa abbiamo affrontato il libro dei Proverbi in uno dei suoi primi capitoli, in cui un padre raccomandava al figlio il valore della fedeltà coniugale. È significativo che nell’ultimo libro di questo “manuale di vita”, l’autore torni ancora sulla figura di quella che alcuni esegeti chiamano la “donna forte”. In Proverbi 31, 10-31 è descritta, attraverso la tecnica dell’acrostico, cioè con ogni frase che inizia con una delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, una donna che potremmo dire pressoché perfetta agli occhi di chi scrive. Una parte delle virtù di lei descritte sono quelle manuali (31,13-20), una parte quelle della cura per la casa e la famiglia (31, 21-27), alla fine torna la relazione con i figli e il marito (31, 28-31). Chi può trovare una donna così, si chiede il testo? Vale più di ogni tesoro, sa fare di tutto, non ti trascura in nulla, amministra la casa con saggezza… Presto fa capolino una critica di derivazione femminista, al di là della consueta contestualizzazione che sempre dobbiamo applicare, non sarà che questa donna “ideale” è il prototipo della moglie tuttofare che tanto fa comodo ai mariti anche di oggi e che, però valorizza assai poco il suo potenziale e poliedrico talento, in un contesto in cui ormai si è raggiunta (o così si dovrebbe) la sacrosanta parità di genere? Ebbene, riguardo a ciò è forse necessaria una lettura che vada più in profondità e che sappia trarre dalla Scrittura – come sempre avviene . uno dono anche per l’oggi. La donna descritta dai Proverbi rasenta sì una sorta di perfezione (tanto che una lettura rabbinica la associa alla sapienza stessa e una cristiana alla Chiesa), ma è il suo un insieme di virtù che trova il fondamento in una saggia capacità di accogliere e custodire tutto quello che riguarda la sua famiglia. Niente di più lontano, quindi, da un ruolo subalterno rispetto al marito, ma anzi, una sorta di ispiratrice, rara a trovarsi, ma che quando si incontra illumina la casa, come la lanterna che indica i passi da compiere. Non ci sarà più allora da sbuffare dentro di noi sentendo a Messa “stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso”: non sono immagini come questa che ci devono ispirare, quanto piuttosto quella di una donna che non va a dormire finché gli altri non sono a letto o che si alza per prima, che non ha timore del passare del tempo sul suo viso perché si fida dell’amore di suo marito e confida che le sue doti vengano valorizzate sempre, dentro e fuori casa, nel suo lavoro, come ai fornelli o aiutando i ragazzi a fare i compiti. È una donna che insieme al suo coniuge sa istruire i propri figli riuscendo a dialogare con essi senza entrare in conflitto con il padre, senza scambi di ruoli, ma rispettando le caratteristiche e le responsabilità di ciascuno. Inutile dire che una donna così avrebbe bisogno di avere al fianco un marito che sia alla sua altezza e – sono forse di parte – ma la sensazione diffusa è che mariti e padri siano un po’ più latitanti in questa nostra generazione… Se da un lato hanno imparato a cambiare pannolini e a dare biberon (ed era tempo che avvenisse!), ancora vi sono passi da compiere perché la loro presenza in famiglia assuma il ruolo che le compete, ovvero quello di guida sicura, di protezione, di ascolto. Gli uomini del ventunesimo secolo hanno da imparare dalle loro mogli quello che con una parola inglese chiamiamo multitasking: riuscire a fare più cose, a passare da un ruolo ad un altro con maggiore scioltezza. Lavorare e poi arrivati a casa saper fare il marito e il padre lasciando il pensiero del lavoro in ufficio; oppure vivere il volontariato o uno sport o un hobby e però non dimenticare che il centro della propria vocazione resta sempre la propria famiglia. Proprio quella dove, spesso, al centro ardono, come una lanterna che mai si spegne, il cuore e l’intelligenza della “donna forte”. (Giovanni M. Capetta)
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In Famiglia: Proverbi 5, 1-23
23 Novembre 2021 - Fra i cosiddetti libri “Sapienziali”, di cui fa parte la raccolta dei Salmi, a cui abbiamo dato uno sguardo negli ultimi due appuntamenti, è compreso anche il libro dei Proverbi, una raccolta di detti tradizionali ebraici, redatti con ogni probabilità fra il IV e il III secolo avanti Cristo. Sono da leggersi come gli ammonimenti di un padre ad un figlio, o anche – se vogliamo – di un maestro ad un discepolo e spaziano su tantissimi ambiti della vita individuale e sociale. Non si tratta, in questo caso di poesia e la nostra sensibilità attuale necessita di essere un po’ preparata a questo linguaggio così asseverativo, con la preponderanza di veri e propri divieti, norme anche molto minute, fin troppo potrebbe dire il lettore odierno! I fratelli ebrei vivono questo sistema di regole con un’osservanza che non è vissuta dai cristiani, eppure dovremmo essere più sensibili alla saggezza di questa che è pur sempre Parola di Dio e che in tante occasioni offre spunti preziosi per creare quella “siepe” che protegge l’uomo e la donna dal finire nel dirupo, dal perdere l’orientamento, dallo smarrirsi a causa del peccato e della fatica che quotidianamente anche la vita più serena comporta. Al capitolo 5, i primi 23 versetti l’autore tratta un tema che, ahimè, non ha perso di attualità. Al figlio, infatti, è fatta la raccomandazione di affidarsi alla sapienza nell’ambito della propria vita matrimoniale e non cedere alla tentazione dell’adulterio. Chiediamoci quanto oggi nella trasmissione intergenerazionale i padri affrontino questo tema coi loro figli nel corso dell’adolescenza e in età di sposarsi. C’è un mare di silenzio assordante che separa genitori e figli riguardo a tutto quello che attiene alla sfera della sessualità e dell’affettività. Gli adulti si chiedono quando e come parlarne, i figli si chiudono all’ascolto dei genitori, forse più impauriti di loro o invece convinti che le “dritte” migliori possano solo arrivare dal mondo dei pari. Spesso, così, si arriva all’età delle nozze con tante lacune e un’immaturità che spesso ci può far inciampare al primo ostacolo. La Bibbia ci richiama alle nostre responsabilità, a quelle che non possono essere rimandate o delegate per falsi pudori, tabù o pigrizia al di fuori delle mura domestiche. Con un linguaggio che è necessario decodificare e contestualizzare (è chiaro che quanto è riferito allo sposo, valga oggi anche per la sposa e viceversa) il testo raccomanda con passione di non lasciarsi sedurre dalla tentazione di cercare al di fuori del legame nuziale una soddisfazione sessuale che non potrà che essere effimera e portatrice di rovina. Il mettere in guardia da ciò non appaia anacronistico, considerando l’età più precoce in cui si contraevano i matrimoni in quel tempo; il padre dei Proverbi chiede al figlio: “bevi all’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo […] sia benedetta la tua sorgente e tu trova gioia nella donna della tua giovinezza”. Non ha per noi grande significato che la donna “alternativa” dalla quale il figlio è messo i guardia sia una straniera, una prostituta o una cantante… sono queste categorie che noi oggi dobbiamo necessariamente adattare, ma resta forte l’invito all’indissolubilità nuziale come una condizione non di rassegnata sopportazione, quanto piuttosto un elemento di energia feconda, di gioia piena, di autentico riconoscimento della pienezza di vita che gli sposi possono donarsi reciprocamente. È un precetto che dà gioia quello espresso di padre in figlio e su questa dimensione di affetto e felicità condivisa dovrebbero intendersi tutti gli interventi educativi dei genitori nei confronti dei figli. Manchiamo oggi, forse, di un poco di coraggio in più. Fatto salvo che l’amore tangibile e vicendevole di due genitori possa essere più esplicito di tante parole, è altresì vero che gli adulti non possono sottrarsi a fare, fin dall’età in cui i figli possono capire e per primi pongono domande, quella che oggi viene chiamata “educazione sessuale”. In questo ambito quanto poco è valorizzata la fedeltà? Quanto è bistrattata come una croce da portare anche a fronte di scelte immature o sbagliate e non viene invece letta come una strada che dà sapore all’esistenza, che vale la pena di essere vissuta perché la fatica che comporta, anche nel passare degli anni, anche nell’affievolirsi della passione e dell’istinto e nell’invecchiare dei corpi, è un fatica sana, come quella che si fa per raggiungere una cima. É la fatica – secondo il titolo di una splendida canzone di Ivano Fossati – per la “costruzione di un amore” che “spezza le vene delle mani e mescola il sangue col sudore”. Apprendere da giovani che l’amore o è per sempre o non è, è un segreto d’alta quota, che necessita coraggio, ma un coraggio che ripaga e che dà il centuplo già qui su questa terra e fa splendere sulla famiglia l’autentico disegno che Dio ha sognato per essa. (Giovanni M. Capetta – SIR)
In Famiglia: il Salmo 128
19 Novembre 2021
Anche il salmo 128 ci dà modo di guardare alla famiglia attraverso la parola di Dio. È come se il Creatore contemplasse un nucleo famigliare e insieme al poeta del testo ne tessesse le lodi. Si dice “beato l’uomo che teme il Signore” il che non significa, come sappiamo, che ne debba aver paura, quanto piuttosto che ne onora la grandezza, che si affida alla sua bontà riconoscendo la sua piccolezza. Anzi è proprio il dono del “timore di Dio” che permette all’uomo di non rimanere in balia del terrore che le tragedie del mondo possono far nascere in noi. Chi teme il Signore “cammina nelle sue vie” (Sal 128,1). Per il popolo ebraico non perdere la via aveva un significato particolare: quel popolo aveva smarrito la strada molte volte, aveva errato per anni nel deserto, spesso aveva disperato di vedere finalmente la terra promessa lungamente attesa e pur sempre annunciata da Dio. Noi oggi abbiamo una meta? Una terra promessa? Puntiamo con decisione ad un luogo e ad una dimensione di pienezza o ci accontentiamo di arrivare alla fine della giornata? Sappiamo contare i nostri passi desiderando di giungere dove “scorre latte e miele”. È chiaro che si dischiude in questo anelito il saper intravvedere il Regno di Dio già oggi qui… nel granello di senape che siamo e che può diventare un grande albero o nel pizzico di lievito che non si vede ma fa fermentare tutta la farina (Lc 13, 18-21), ma c’è anche un Regno che deve venire e che ci chiede di essere atteso e desiderato, camminando appunto secondo le vie che il Signore ci indica. Il Salmo prosegue esaltando il valore del “lavoro delle proprie mani”, la felicità che ne può sgorgare, i beni che se ne traggono (Sal 128,2). Mi viene in mente Gesù adolescente che mostra soddisfatto a Giuseppe un manufatto di legno appena concluso per la prima volta senza che il padre lo avesse aiutato e così ogni occasione in cui un padre, una madre e i loro figli possono ringraziare il Signore per il dono della loro maestria, della loro arte, o anche del loro semplicissimo lavoro, ogni lavoro. Penso a chi fa lavori ripetitivi, si dicono anche alienanti: nella logica del salmo non c’è spazio per questa dimensione. Anche alla catena di montaggio l’uomo può riuscire a riconoscere che il Signore è con lui e rende sacro quell’impegno, quel sacrificio, quella fatica che non è cieca ma ha in sé un senso. Segue il richiamo alla “sposa come vite feconda nell’intimità della casa e ai figli come virgulti d’ulivo intorno alla mensa”. La tentazione è di leggere queste parole con sufficienza, come ancorate ad un passato che non torna più, solo una bella immagine. Quante volte la vite non è feconda? Quante volte i figli, tutto tranne che virgulti, ti si rivoltano contro e neanche si siedono alla tua tavola?! È vero, il salmista disegna un quadro ideale che spesso non ci appartiene, che non sappiamo vivere, che ci sembra di non aver mai saputo neanche assaggiare se non forse i primissimi tempi, quando le nozze sembravano solo luce e gioia e non c’era spazio per le preoccupazioni e le difficoltà. Eppure quell’immagine della vite e dei virgulti resta, non si sbiadisce, vuole essere cantata e ricantata ogni volta e ogni volta bussa “nell’intimità della nostra casa”.
La famiglia è il luogo per antonomasia della benedizione e con una benedizione, infatti, prosegue il salmo fino alla fine (Sal 128, 4-5). Non è un luogo in cui ci è chiesto di arrangiarci cercando ciascuno di trovare il suo posto sul divano, sgomitando come nel mondo, essa è deputata a bene-dire l’uno dell’altro, a ricordarsi ciascuno reciprocamente quanto il Signore ti ama e dice bene di te, nonostante le tue fatiche, nonostante i tuoi limiti, gli errori, il peccato. Egli non si stanca di benedire e allora con quale diritto un padre e una madre possono stancarsi di benedirsi fra loro, di benedirsi davanti ai figli e di benedire i figli stessi? Ho in mente una ragazza, ormai adolescente, che non finisce mai la giornata senza segnare una croce sulla fronte dei suoi genitori. Non è quella che parla di più, né che esterna maggiormente le sue manifestazioni o le ragioni della sua fede, ma con quel gesto, molto spesso, al termine del giorno, è più eloquente di ogni altro messaggio: bene dice con Dio, ti affida a Lui e così puoi ripartire, sentendoti accompagnato e accolto da un amore molto più grande delle tue fragilità, ma che ha bisogno di passare attraverso di esse per farsi carne, vita concreta, speranza di futuro. (Giovanni M. Capetta – SIR)
In Famiglia: la moglie di Giobbe
3 Novembre 2021 - Ancora nei libri “Sapienziali” di cui fa parte il Cantico dei Cantici visitato la volta scorsa, è presente un testo che ha fatto parlare di sé molta letteratura ad esso successiva: il libro di Giobbe. La storia di un uomo giusto, ricchissimo e felice che vive onorando il Signore e che Satana chiede a Dio di mettere alla prova per dimostrare che la sua fede è solo in virtù dei suoi beni. Il dramma di quest’uomo è noto: egli perde tutto, ogni sua ricchezza, i suoi sette figli e tre figlie, infine è colpito da una malattia che lo rende pelle ed ossa. Eppure in tutto questo egli urla il suo dolore o si chiude nel silenzio, ma non bestemmia Dio e soprattutto non ne nega mai l’esistenza. Ecco la differenza fra la fede ebraico-cristiana e quella greca che non contempla l’interesse della divinità per l’uomo, pensiamo al verso di Eschilo: “Infinito è il respiro di dolore che dalla terra risale verso il cielo, ci sarà mai un dio che lo raccoglie?” Quattro amici cercano di consolare Giobbe, ma sono sapienti e teologi molesti che parlano per formule astratte (“sentenze di cenere”, “baluardi di argilla”) e che non fanno altro che attribuire a Giobbe stesso la responsabilità dei suoi mali o comunque ad un giudizio insindacabile dell’Altissimo. Giobbe, in coscienza, si ribella e chiama in causa, come in un processo, Dio stesso per chiedergli conto della sua condizione. E Dio risponde: aiuta la sua creatura a rileggere tutto il progetto della creazione con gli occhi di Lui che l’ha voluta e così ogni mistero in essa contenuto, compresa la sofferenza umana. Al termine di questo appassionante viaggio della fede, Giobbe potrà dire: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere” (Gb 42, 5-6). La sua fede coraggiosa, il suo desiderio di avere risposta lo hanno salvato. Egli non è ancora guarito ma ha una visione nuova e ad essa seguirà un “lieto fine” grandioso con il ripristino di tutte le sue ricchezze e di tanti altri figli (42, 10-17). In tutto questo percorso, fin dall’inizio il testo fa riferimento, senza neppure nominarla, alla moglie di Giobbe. Vedendo il marito, seduto nella cenere, che si gratta con un coccio per la piaga maligna che lo ha colpito, gli dice con astio: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!” (Gb 2,9). Abbiamo già visto un comportamento simile nella moglie di Tobi, ma qui la violenza è ancora più forte. Questa donna sta abbandonando il marito al suo dolore, invece di essergli vicino e consolarlo. Spesso il male interviene in questo modo nelle nostre coppie e nelle nostre famiglie. Davvero Satana è “l’avversario” e il diavolo “colui che divide”. Pensiamo a tante separazioni a fronte di un male incurabile di cui l’altro non ha il coraggio di condividere il peso; oppure a quei genitori che non riescono ad accettare la malattia di un figlio e lasciano solo il partner ad occuparsene. “Nella salute e nella malattia” recita la formula matrimoniale, ma chi siamo noi per giudicare la reazione al dolore che ogni uomo e donna può provare? Giobbe cerca di richiamare a sé la donna: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?" (Gb 2,10)”. C’è nelle parole di quest’uomo un estremo sforzo di amore perché non le dice che è stolta, ma è come se lo fosse: può, dunque, recuperare un senno perduto. Eppure di questa donna nel racconto non si parla più se non per dire che Giobbe è talmente solo e disgraziato che il suo fiato puzzolente ripugna alla moglie stessa (Gb 19,17). Ci siamo mai chiesti cosa faremmo noi in una situazione del genere? La consorte di Giobbe ha perso tutti i beni e tutti i figli che ha perso lui, vive la medesima tragedia, ma forse non ha gli strumenti per affrontare la prova come vede fare dal marito. È difficile incolparla e infatti Dio non lo fa, mentre il testo sacro avrebbe potuto imputarle la sua mancanza di pietà. Al termine del racconto, infatti, si dice che l’ira di Dio si è accesa contro i suoi amici perché non hanno detto “cose rette” (Gb 42,7), ma non una parola è riservata alla moglie che, invece, fino a prova contraria può essere considerata la destinataria, insieme, al marito, di tutto il ripristino di benevolenza che il racconto prevede nel finale, non ultimo, il dono di molti altri figli. Possiamo allora permetterci di immaginare che la moglie di Giobbe non sia “sparita” dalla sua vita, non lo abbia davvero abbandonato, ma sia riuscita in qualche modo a condividerne la tragedia e, magari senza capire, magari nel silenzio o senza avere le parole per fare i suoi ragionamenti, si sia affidata alla loro promessa e per questo venga ricompensata. Viene da benedire il Signore per tutti quei mariti e quelle mogli che, per Grazia di Dio, hanno fondato la loro casa sulla roccia e reggono anche alle piogge torrenziali e allo straripamento dei fiumi (Mt 7, 24-27): essi sono per tutti testimoni credibili che l’amore di Dio ha già vinto la morte una volta per tutte. (Giovanni M. Capetta)
In Famiglia: il Cantico dei cantici
2 Novembre 2021 - Mi sarebbe piaciuto essere fra quei rabbini che nel primo secolo dopo Cristo dibatterono in una sorta di “sinodo” prendendo la decisione che il cosiddetto “Cantico dei Cantici”, ovvero il cantico per eccellenza, il più bello di tutti, entrasse a far parte della Bibbia, dei libri ispirati da Dio. Da allora, però, questa inclusione è motivo di grande ispirazione, riflessione e consolazione non solo per i nostri fratelli maggiori ebrei ma per tutti noi cristiani. Il Cantico è un piccolo, intensissimo carme poetico che, attraverso un linguaggio grondante di immagini e metafore tratte dal mondo animale e vegetale, racconta la dimensione erotica dell’amore fra un giovane e una giovane (non si specifica che siano già sposati). Attraverso i cinque sensi quella che viene offerta al lettore in modo appassionato e sempre coinvolgente è un’arte dell’amore che non preclude e non censura nessuna delle parti di cui si compone il rapporto amoroso, dallo sguardo alla carezza, dal bacio all’amplesso. Non basterebbero queste righe per riportare tutta la ricchezza del linguaggio che la poesia utilizza; fiumi e fiumi di inchiostro sono stati versati dai commentatori nel corso dei secoli. Quella raccontata è un’avventura che tutti coloro che si sono davvero innamorati di una persona possono ripercorrere e leggere come si leggesse una poesia-preghiera, in un atteggiamento estatico che si avvicina molto a quello della mistica, dove la mente lascia spazio alle ragioni del cuore. Martin Buber ha avuto modo di dire che il Cantico ci rivela la possibilità di vivere “faccia a faccia” l’amore, di interpretare l’esistenza come un autentico dialogo fra un tu e un tu, un incontro di volti, di identità nel loro più profondo essere. È per tale motivo che questo libro si pone in una posizione apicale rispetto a tutta la Scrittura: perché esso apre alla possibilità di un amore che si consuma in un giardino, libero e non alienante, in pienezza e non schiavizzante a differenza di quello che era successo nell’altro giardino, quello dell’Eden, in cui si dice che la brama, il desiderio della donna sarà verso l’uomo ed egli la dominerà. No, questo destino di sopraffazione, questo stato di fatica, di incomprensione che nell’atto amoroso l’uomo e la donna ancora oggi sperimentano, può essere superato, può andare al di là delle nostre forze ed essere illuminato dalla luce di Dio. Il Cantico invita gli amanti ad uscire e andare ciascuno verso la verità di sé stessi e insieme verso un amore che se si chiama così è per sempre. Non si può dire “ti amo” se non è per sempre. Nel corso del carme, l’amante e l’amato si perdono (Ct 3,1-4: “voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato”), a significare che ogni storia d’amore è fatta anche di smarrimenti, è un legame fragile quello che gli uomini sanno stringere fra loro… ci si può perdere, rinnegarsi, ma poi ritrovarsi: l’importante è non offuscare il desiderio di comunione con l’altro, un desiderio che si differenzia dalla logica del possesso e dalla strumentalizzazione reciproca. Gli amanti si inseguono nella loro libertà e si contemplano nella bellezza e in quella che San Giovanni Paolo II la chiamato “la liturgia” dei loro corpi. La meticolosità, a tratti impudica nella sua purezza, con cui sono descritte le parti anatomiche dei due innamorati libera il campo da tanto moralismo che si è accumulato nei secoli anche nella tradizione cristiana. Oggi possiamo leggere con fiducia e coraggio questo testo e capire perché esso si rivolga a tutti gli uomini e, in particolare a chi vive la fede in Gesù. Il Cantico termina, infatti, con un’affermazione fondamentale, che differenzia il pensiero ebraico-cristiano da quello di tutte le altre culture: nel duello fra Thanatos (Morte) ed Eros, non è vero che la morte vincerà: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (cioè fammi destinataria da oggi di tutto il tuo agire) perché forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina” (Ct 8,6). L’amore viene da Dio e in quanto tale avrà l’ultima parola proprio come abbiamo sperimentato con Gesù Cristo che è risorto perché ha amato i suoi fino alla fine e quel suo amore non poteva andare perduto. (Giovanni M. Capetta – SIR)
In Famiglia: Tobia e Sara, seconda parte
19 Ottobre 2021 - Abbiamo lasciato Tobia e Azaria/Raffaele lungo il cammino. Attraversando il fiume Tigri, Tobia viene aggredito da un grande pesce, simbolo di pericolo misterioso e pauroso (pensiamo alla famosa balena di Giona). Raffaele gli intima di catturarlo e toglierne il fiele, il cuore e il fegato; mettendoli in disparte perché potranno essere utili medicamenti (Tb 6,4). C'è una dimensione del tutto pratica nell'aiuto che Raffaele offre a Tobia: l'angelo dà un consiglio ma la volontà e l'impegno del giovane sono fondamentali. Forse anche a noi tante volte è capitato di ricevere un'indicazione, un suggerimento e di non averlo voluto seguire senza fidarci di chi ce lo stava dando. L'invito allora è quello di avere una mente e una sensibilità accogliente nei confronti delle opportunità che Dio ci offre e saperle cogliere per il nostro bene.
Arrivati nella città di Sara, l’angelo prepara Tobia all’incontro con quella che sarà la sua sposa, perché il padre di lei è il parente più prossimo di suo padre Tobi e questo è secondo la volontà del Signore. Tutto sembra prestabilito, ma in realtà non è così: Tobia deve compiere un percorso di discernimento, ha sentito parlare del demone che affligge quella donna e non nasconde la sua paura di morire. Le parole di Raffaele sono un annuncio che dovrebbe risuonare nel cuore di ogni sposo: “Non temere: ella ti è stata destinata fin dall'eternità. Sarai tu a salvarla. Ella verrà con te e penso che da lei avrai figli che saranno per te come fratelli. Non stare in pensiero”. Ed infatti questa sorta di profezia, come prosegue il testo, porta Tobia a fidarsi e ad “amare molto quella donna senza più poter distogliere il cuore da lei” (Tb 6,18). C’è un momento preciso nella vita di ogni uomo e di ogni donna che decidono di sposarsi nel Signore a partire dal quale i due si promettono per sempre che la salvezza, potremmo dire la santità dell’altro è il dono e la responsabilità che accolgono reciprocamente. Non sono più due, ma uno, la loro fede, il loro desiderio di amare Dio passa attraverso il loro amore, in una storia intrecciata che nel libro si concretizza nel dettaglio della loro prima notte di nozze.
Quest’uomo e questa donna sanno che la posta in gioco è alta, che l’amore richiede coraggio, che è un abisso in cui ci si può perdere e dal timore, però, non nasce la fuga ma, ancora una volta una preghiera che è fra i testi più belli della Bibbia dedica al matrimonio. Un canto di lode, di ringraziamento, di fiducia, un’invocazione allo Spirito affinché li accompagni sempre: Tobia così prega: “Tu hai detto: «Non è cosa buona che l'uomo resti solo; facciamogli un aiuto simile a lui». Ora non per lussuria io prendo questa mia parente, ma con animo retto. Dégnati di avere misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia” (Tb 8,5-8). Nonostante i timori dei genitori, gli sposi si ridestano dopo la notte trascorsa insieme sani e salvi e da lì il racconto non è che un tripudio di grazie su grazie. Proseguono i festeggiamenti, Tobia recupera il piccolo tesoro che il padre gli ha affidato e poi non dimentica i suoi anziani genitori e intende ritornare a casa con la sua sposa. Il padre di Sara desidera che il rapporto di questo nuovo marito con i suoi suoceri possa essere intimo e affettuoso come quello coi genitori e chiede al genero, affidandogli la figlia di “non farla soffrire nessun giorno della sua vita” (Tb 10,13). Un’altra raccomandazione-benedizione che ogni sposo dovrebbe poter alimentare nel cuore attraverso la preghiera e l’aiuto di tutte le persone che amano la nuova famiglia che si è formata. Tobia torna dal padre e lo guarisce con il fiele del pesce: il suo coraggio lo ha reso capace di occuparsi del suo genitore e questi ora può rivederlo con occhi nuovi. È bello scoprire che in questo racconto le coppie dei genitori e quella degli sposi si dimostrano un affetto senza condizioni, un amore che supera loro stessi. In tralice c’è sempre il rischio che i legami di sangue prevalgano sull’unione che da poco si è formata, i cosiddetti “cordoni ombelicali” con le famiglie d’origine, ma vince la libertà dei coniugi che sanno staccarsi dalle case avite e iniziare la loro strada affidando il loro amore a quello provvidente di Dio. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Rut
5 Ottobre 2021 - C'è un piccolissimo libro all'interno della Bibbia che racconta una storia tutta al femminile. È il libro di Rut ambientato al tempo dei Giudici, nell'XI secolo avanti Cristo. Un uomo giudeo, a causa di una carestia, ha lasciato Betlemme per i campi di Moab, insieme a sua moglie Noemi e i suoi due figli. Quest'uomo muore e i due figli sposano due donne moabite. Dopo dieci anni muoiono anche i figli e la vedova Noemi decide di tornare a Betlemme per trovare sostegno presso i suoi parenti. Nel fare questo l'anziana e saggia donna invita le due nuore a restare a Moab e a cercare nuovi mariti perché lei non può più avere figli e non può garantire loro alcuna discendenza. Le due donne piangono per questo distacco ma poi una delle due si lascia convincere. L'altra no: questa è Rut, una donna speciale. La giovane nuora esprime proprio una specie di preghiera perché la suocera accetti che lei la segua ovunque vada e stia con lei fino alla morte (Rt 1, 15-17). Vuole andare dove andrà Noemi, non intende abbandonarla, sente che la cosa più giusta da fare è condividere la sorte dell'anziana donna fino alla fine. Le due donne nutrono l'una per l'altra un affetto che va oltre le tradizioni e le convenienze, Rut segue la suocera a Betlemme senza avere alcuna speranza sulla carta di essere bene accetta, lei straniera, da quella gente. Eppure la sua scelta umile e silenziosa per la vita verrà ripagata. Noemi e Rut scelgono di camminare insieme, non si rassegnano al male presente ma accettano di fidarsi di Dio e l'un l'altra. E Dio vede la bontà delle intenzioni di Rut e prepara una strada provvidenziale. Rut, infatti, trova il favore di un parente di Noemi, Booz, che guarda con ammirazione la scelta della donna di rimanere con la suocera e accondiscende a che Rut posso spigolare cereali presso i suoi campi. Noemi invita Rut a dimostrarsi disponibile a quest'uomo e Booz, rispettato il diritto ebraico in materia, matura un amore per la donna moabita, riscatta tutto quanto era del marito di Noemi compresa Rut che può concederglisi in sposa. Da Booz e Rut nasce un figlio che sarà il padre di Iesse, padre di Davide. Quando leggiamo la genealogia all'inizio del Vangelo di Matteo, ancora ricordiamo questa donna coraggiosa che crea un anello di congiunzione fra gli ascendenti di Gesù. È evidente la volontà dell'evangelista di rimarcare che la venuta del Messia si innesta nella storia degli uomini e delle donne laddove maggiormente essi esercitano la loro libertà. Rut ha molto amato, ha perseverato nella fatica, non si è mai disperata e ha dato la precedenza al legame di vita con Noemi, piuttosto che a tentare la sorte secondo un principio fondamentalmente più egoista. Contraddicendo il luogo comune ancora oggi in voga che fra suocera e nuora non possa esserci un buon legame, Rut incarna proprio quella virtù squisitamente femminile di saper "tenere insieme", di resistere, di aggiustare le cose. Una virtù che è fondamento dell'amore coniugale, una sorta di cemento che rinforza le radici, permette che la casa sia stabile. Donne come Rut fanno innamorare gli uomini saggi, quelli che desiderano edificare una famiglia con fondamenta solide. Non c'è bisogno che appartengano al tuo villaggio, puoi trovarle anche molto lontano, ma una volta incontrate saranno il tuo tesoro per sempre. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Mosè
21 Settembre 2021 - Tra i protagonisti della storia biblica Mosè è uno dei personaggi di maggiore fascino e con una vicenda alquanto avventurosa. Egli è l’uomo che il Signore sceglie per condurre il suo popolo fuori dal paese di Egitto, ma è anche quello a cui Dio affida le parole dell’Alleanza, le famose tavole della Legge. Mosè è un uomo di cui possiamo intuire fin dall’infanzia una particolare predilezione, ma anche un carico di responsabilità enorme. La sua nascita già lo pone in una condizione di precarietà e privilegio allo stesso tempo. Per paura che venga soppresso, la madre lo affida al Nilo in un cestello di papiro. La figlia del faraone lo trova e ne ha compassione e la sorella del bimbo che ha visto tutto ottiene che sia affidato alla madre naturale perché lo allatti fino allo svezzamento (Es 2, 1-10). Poi di questo ragazzo cresciuto alla corte del faraone come figlio adottivo non sappiamo più niente fino a quando non si macchia di un omicidio: uccide un egiziano che vede alzare la mano contro un ebreo, lui sa della sua origine, si sente chiamato in causa e ha uno scatto di violenza. La voce si sparge ed egli per paura di essere incarcerato, fugge a Madian, sui monti, dove il pastore Ietro lo prende a lavorare con sé e gli dà anche in moglie la figlia Sipporà (Es 2, 11-22). Come di consueto la storia così lineare non appartiene ai disegni di Dio. Mosè è protagonista di una vera e propria vocazione: il Signore si manifesta a lui nel roveto ardente che non si consuma e lo invita a tornare in Egitto, proprio da dove è fuggito e a liberare il suo popolo, ad essere il suo condottiero e profeta fra gli Israeliti (Es 3). Di fronte a tutto questo Mosè, l’unico uomo che parlerà “faccia a faccia” con Dio, si sente del tutto inadeguato, mette avanti le mani, dice che non potrà essere lui a parlare per conto di Dio perché è balbuziente dalla nascita. A questo punto fa il suo ingresso un altro fratello importante: Aronne, il levita. Il Signore è come se dicesse a Mosé: hai sempre avuto questo alleato fedele e a te complementare, come hai fatto a non immaginare che te lo avrei messo a fianco a servizio della missione comune a voi affidata? (Es 4, 10-17). Da questo momento il fido Aronne è sempre al fianco del fratello, gli fa da megafono… Mosé parla con Dio, Aronne col faraone, con il popolo… sono inseparabili e svolgono funzioni differenti. Questa è la bellezza della loro relazione e a questa si aggiunge quella della sorella Maria che avevamo conosciuto all’inizio della storia. Maria, anch’essa definita profetessa, canta mirabilmente, seguita dalle altre donne, dopo che il popolo ha passato indenne il Mar Rosso e l’esercito egiziano è stato sbaragliato (Es 15, 20-21). Allora ci rendiamo conto che Mosè non è lasciato solo, ha delle persone con cui condivide il peso della missione, i suoi fratelli sono preziosi eppure l’insidia è dietro l’angolo. Quando Mosé “tarda” a scendere dal Monte Sinai, dove è a colloquio con Dio, il popolo insorge, fa ressa contro Aronne e in sostanza lo induce a cedere alla tentazione di forgiarsi un idolo, il vitello d’oro. Mosé sarà molto duro con il fratello al suo ritorno perché questi non ha saputo tenere il punto, si è fatto persuadere da coloro che – dice la Bibbia – “non avevano più freno” (Es 32). Si tratta di una vicenda significativa: sono saltati i ruoli e Aronne non è più nel suo… cede al volere della folla, il suo carisma non basta. La giusta via è percorsa quando ognuno sa quale sia il suo compito e mantiene il suo posto nella cordata. Anche in un’altra occasione i fratelli di Mosè perdono il loro ruolo solidale nei confronti del fratello, leader indiscusso del popolo. È una vicenda raccontata nel capitolo 12 del libro dei Numeri (Nm 12, 1-16): Maria e Aronne rivendicano un ruolo superiore di quello che hanno avuto nel coadiuvare il fratello e come pretesto gli rimproverano di non avere una moglie ebrea, ma etiope e a questo punto l’ira di Dio non si fa attendere: Maria viene colpita nel corpo e resa lebbrosa. A sorpresa è Mosè stesso a intercedere perché la sorella non muoia e così avviene: dopo alcuni giorni di quarantena la donna viene riammessa nella comunità. “Non allargarsi”, potremmo dire oggi, è questo che ci viene chiesto, anche in famiglia, dove fra fratelli è auspicabile che viva l’amore. Ognuno ha il suo compito e a quello è chiamato e quando qualcuno sbaglia, c’è sempre bisogno di un surplus di misericordia, di pazienza, di capacità di perdono. Mosè si comporta da uomo di pace e non approfitta del favore di Dio per rivalersi sulla sua congiunta che lo aveva diffamato. Ancora una volta il racconto biblico non ci narra la perfezione della famiglia ideale, ma come, all’interno delle dinamiche tutte umane che si sviluppano nella relazione famigliare, il Signore sappia valorizzare i germi di bene che gli uomini e le donne seminano lungo il loro cammino, anche dopo aver sbagliato, anche dopo essere caduti. L’uomo di Dio non è chi non cade, ma chi, sperando in Lui, sa rialzarsi. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Giuseppe e i suoi fratelli
14 Settembre 2021 - La storia di Giuseppe è un racconto a sé stante all’interno della Genesi e occupa un ampio numero di capitoli, dal 37 al 50, con la fine del libro stesso. La vicenda è molto articolata, ha dei tratti avventurosi ed altri tesi alla riflessione e non ci è dato di percorrerla in tutti i suoi dettagli. Vi sono, però degli elementi ricorrenti nelle narrazioni bibliche che abbiamo già affrontato e degli aspetti peculiari che si possono mettere in evidenza sempre con lo scopo di illuminare le dinamiche famigliari che la Scrittura offre ai suoi lettori. In primo luogo Giuseppe si presenta come “il favorito”, il figlio che Giacobbe ha avuto in età avanzata dall’amata Rachele e a cui è legato più che ad ogni altro figlio. Un atteggiamento che di per sé non è pedagogicamente corretto, che oggi facilmente giudichiamo negativo per l’equilibrio famigliare, ma che la Bibbia non ha timore di mettere in campo. Anche i patriarchi, come tutti i padri, sbagliano, fanno preferenze e Giacobbe, così, si rende responsabile dell’invidia e dell’astio dei fratelli maggiori nei confronti di questo enfant prodige. Giuseppe stesso, talentuoso e arguto, sembra non rendersi neanche conto di quanta “distanza” sta mettendo fra i suoi fratelli. L’interpretazione dei sogni che ha come talento innato non la tiene come dote per sé, ma la ostenta suscitando l’ira di coloro che lui stesso indica come a lui in qualche modo inferiori. Non ci meraviglia, quindi, che scatti ancora l’impeto della violenza fraterna. Il complotto per assassinarlo, la mediazione del fratello maggiore Ruben che non vuole ricada su di loro il suo sangue, il compromesso della vendita ai mercanti diretti in Egitto (Gn 37). Per Giuseppe la vita cambia in modo radicale, è sbalestrato in un altro mondo, eppure – ci viene da pensare – egli rimane persona integra e che non si ripiega su se stessa. Questo gli permette di rendersi prezioso agli occhi di Potifar, il saggio padrone egiziano e di resistere alla lussuria della moglie di lui, a costo della disgrazia e della prigione per la menzogna vendicativa di lei (Gn 39). Ma anche in carcere Giuseppe mantiene la sua rettitudine e, mettendo a frutto il suo talento interpretativo dei sogni e la sua saggezza, si trova nuovamente in una condizione di favore nei confronti questa volta del faraone stesso che lo rende amministratore unico di tutti i beni d’Egitto e “capo del sistema di emergenza” in vista della carestia (Gn 40-41). È a questo punto che nella vita di Giuseppe interviene un elemento nuovo: la possibilità di perdonare chi gli ha fatto del male. Fino a questo punto il Signore lo ha assistito e sostenuto ed egli non ha mai perso la fede, ora ha l’occasione di dimostrare ai suoi fratelli che nel suo cuore non c’è rancore, non c’è risentimento. Il racconto si dilunga in tanti passaggi, è come se Giuseppe volesse mettere alla prova i fratelli, vedere fino a che punto sono legati a loro padre Giacobbe, all’amato fratello Beniamino, ma al termine di queste trattative che vedono i dieci figli di Giacobbe ignari di tutto, c’è il pianto di commozione di Giuseppe (Gn 42,24), l’amore che prevale sull’odio. Giuseppe trattiene Simeone e chiede di portare Beniamino, i fratelli convincono a fatica l’anziano padre Giacobbe, ma tutto è finalizzato alla riconciliazione: Giuseppe si fa riconoscere e abbraccia i fratelli piangendo di gioia. Si tratta di una grande lezione sul perdono che porta frutti perché il popolo di Giacobbe, sulla scorta di questa pace ristabilita può trasferirsi in Egitto e l’anziano padre può stringere al collo il figlio che credeva morto da molti anni (Gn 46,29-30). Il perdono è fecondo, fa superare la carestia, riunisce una grande famiglia fatta di tanti figli che il testo ama nominare uno a uno e contare con numeri che hanno valore simbolico (Gn 46, 1-26), che indicano la benedizione di Dio sulla libertà di un uomo che ha saputo andare oltre la logica del “dente per dente”. Giacobbe anziano può morire sereno benedicendo tutti i suoi figli e chiedendo di essere sepolto nella terra affidatagli da Dio, insieme ai suoi avi (Gn 47,27- 50,14). Ma anche adesso i fratelli non devono temere Giuseppe perché lui non si mette al posto di Dio e anzi riconosce come da un male è scaturito un bene (Gn 50, 15-21). Anche Giuseppe sazio di giorni, lascerà i suoi cari non prima di aver chiesto di conservare le sue ossa (Gn 50,22-26). La storia continua: una famiglia ha saputo superare errori e traversie e ricomporsi e da qui prosegue il lungo cammino del popolo di Israele verso la terra che il Signore ha promesso. (Giovanni M. Capetta – Sir)
In Famiglia: Rebecca e Isacco
3 Agosto 2021 - Eva nasce non “dal”, ma “di” fianco ad Adamo – e prima ancora che l’unione nuziale incarna la verità che l’uomo in quanto tale vive nella relazione: “non è bene che l’uomo sia solo”. Sara è da sempre a fianco di Abramo, non abbiamo notizia del loro incontro. Agar è la schiava “prestata” per un desiderio immaturo della discendenza promessa. Quando Abramo, rimasto vedovo della sua amata sposa, è “ormai vecchio e avanti negli anni” (Gn 24) ha ancora una speranza da coltivare: quella che suo figlio Isacco trovi moglie. Non ci è ancora capitato di seguire quello che sembra quasi un “rito”, una prassi che si ripeterà altre volte nel Primo Testamento, di fatto, non possiamo sottovalutare che la pagina biblica dedichi un intero lungo capitolo a questo evento: la ricerca di una moglie per il figlio amato, il figlio della benedizione, quello che è destinato a perpetuare la discendenza e a inverare la promessa di Dio al suo servo, anzi al suo figlio Abramo. Isacco è un uomo baciato dalla Provvidenza, tutti i preziosi e abbondanti doni del padre sono suoi: ha una dote grande, che non deve più spartire con nessuno. È davvero un buon partito, ma la strada per mettere su famiglia non è delle più semplici. Il padre vuole che egli trovi moglie fra la sua gente, quella delle terre da cui Abramo proviene. Il giuramento peculiare che viene chiesto al factotum del patriarca ha questo senso: egli è ingaggiato di un compito non facile, organizzare un vero e proprio matrimonio “combinato”, secondo regole e passi che dovranno compiersi secondo una procedura che non ponga dubbi che è proprio quella la volontà del Signore. Alle domande del servo, Abramo risponde risoluto: o avverrà secondo quanto ho chiesto perché Dio interverrà direttamente con il suo angelo, o non se ne farà niente. L’importante è che Isacco non rinunci a rimanere nella terra che Abramo ha conquistato, non sarà lui a doversi spostare. Pare un mondo del tutto lontano dal nostro, qualcosa di ancestralmente distante da come oggi ogni uomo e ogni donna iniziano le loro storie d’amore. Eppure ad una lettura più profonda si può scoprire ancora altro. Abramo dota il servo di dieci cammelli, animali pregiati, ed ogni sorta di cose preziose eppure se quella donna che individuerà non lo vorrò seguire, non potrà fare niente. Ma allora ancora una volta la libertà dell’uomo si intreccia con il disegno di Dio: è una storia che si costruisce in due, l’umanità e il Signore. Il servo è fedele e soprattutto prega; prega per conto di Abramo, chiede di essere ispirato, la sua pare proprio un’invocazione dello Spirito. “Non aveva ancora finito di parlare, quand’ecco Rebecca…, usciva con l’anfora sulla spalla”. Sembra un’apparizione, questa donna ha come una regalità nel portamento di questo gesto umile e probabilmente compiuto fedelmente ogni giorno. Siamo nell’ora della sera, quando il sole picchia meno forte e le donne si recano al pozzo: ma cos’è questo pozzo se non il luogo dell’incontro, il luogo del dialogo, delle confidenze, dell’ascolto. Il punto del villaggio dove tutti si abbeverano all’acqua, fonte di vita. Al pozzo siamo chiamati tutti perché rappresenta il luogo in cui non perdere l’occasione di presentarsi come creature bisognose di fronte al Creatore. Il pozzo è il “kairos”, il tempo propizio in cui avere il coraggio di dire il proprio nome, di mostrare la propria identità. Rebecca svetta fra le altre coetanee ed è come se il servo ne riconoscesse subito la genealogia, secondo il volere di Abramo e del Signore. La ragazza è molto bella ed è vergine, “nessun uomo si era unito a lei”. Rebecca è in età da marito, ma ancora non lo ha incontrato, chissà quanti pensieri, quante fantasie confidate alle amiche durante quel tragitto faticoso? Ma perché lei e non un’altra? Perché Rebecca è pronta, non si fa vincere dalla paura e dalla diffidenza che poteva procurarle uno straniero anonimo. In fretta abbassa l’anfora e dona acqua, offre vita e subito si dimostra attenta anche a tutti gli animali. Rebecca corre, è entusiasta nella sua generosità e il servo – dice il testo – “la contemplava in silenzio”. Viene allora il momento della gratitudine e il servo offre gioielli alla donna, la adorna già come una sposa. Rebecca è proprio la parente che Abramo sognava per suo figlio perché è lei che offre al servo e al suo convoglio un’accoglienza totale, lo spazio per riposare e riprendere le forze e intanto ancora una volta “corre”. Fa tenerezza quanto questo verbo ritorni nel racconto: è il segno di un cuore colmo di emozione, un cuore che sente giunta una svolta fondamentale nella vita. Quello che a tutti gli effetti può dirsi un “matrimonio combinato” in realtà è all’insegna della gratuità più totale: se Rebecca non si fosse comportata come ha fatto nessun gioiello sarebbe bastato, nessuna trattativa sarebbe servita. Rebecca, entusiasta, racconta alla madre quello che le è successo e a questo punto entra in gioco una figura maschile, suo fratello Labano: egli interviene e prende in mano la situazione. Avremo modo di conoscere la scaltrezza di questo personaggio, non certo del tutto trasparente, ma per ora egli non sembra opporsi ad un disegno che pare, in effetti, più grande di lui: “La cosa procede dal Signore, non possiamo replicarti nulla, né in bene, né in male. Ecco Rebecca davanti a te: prendila, va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone”. Vorrebbero prendere tempo ma il servo ha la fretta di chi sente che quella intrapresa è la strada giusta. Ancora una volta la giovane donna, interpellata direttamente, è protagonista: è lei a rompere gli indugi, è pronta a partire, a lasciare il padre e la madre, a “desatellizzarsi” (come si direbbe oggi), cambiare famiglia, terra, abitudini, per affidarsi ad una parola che ha il sapore della piena realizzazione. Ricevuta la benedizione dei suoi famigliari si parte. Chissà se durante il viaggio, in assenza di quelle fotografie che si scambiavano gli immigrati italoamericani per organizzare matrimoni a distanza, il servo di Abramo avrà raccontato a Rebecca qualcosa di quell’uomo che da lì a poco sarebbe diventato suo marito? Non possiamo saperlo, ma possiamo immedesimarci nel cuore di lei, nel suo desiderio di felicità, di pienezza, di essere “per” qualcuno. Ed ecco l’incontro! L’incontro fra l’amato e l’amata: è un simultaneo movimento degli sguardi, entrambi “alzano gli occhi”, segno di speranza, segno di sete di futuro. Sono ad un altro pozzo, possono incontrarsi davvero e quando la ragazza ha la certezza – ma io credo l’avesse già intuito – che il suo sposo è quell’uomo che le sta andando incontro, si vela il volto, quasi a preservare fino all’ultimo la purezza di quel momento, la sacralità di un evento voluto dal Padre. È il tempo del racconto perché non ci siano dubbi: il Signore ha disseminato di segni il cammino di quest’uomo e questa donna ed ora può aprirsi per loro la tenda della comunione piena: il talamo dell’unione sponsale. Allora anche Isacco può abbandonare il lutto per la morte della madre, diventa uomo maturo, capace di prendersi cura della donna che Dio gli ha preparato fin dal principio. Quello che all’inizio sembrava “un calcolo di uomini” si rivela un segno prodigioso dell’amore umano. Due giovani che si innamorano a prima vista, che si incontrano al pozzo della vita e solcano con la loro libertà la scia che il Signore ha preparato per loro sulla sabbia del deserto della vita. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: i figli, frecce scoccate dall’arco
27 Luglio 2021 - “Dopo queste cose” (Gen 22, 1-19). C’è un mondo dentro questa espressione sintetica. Abramo è un uomo che ha vissuto una lunga e avventurosa vita, che ha camminato tanto con i piedi e soprattutto con la sua fede. Un “nomade per Dio” che in Lui ha trovato la sua pace e il compimento di quella grande e misteriosa promessa a cui, alla fine, si è affidato contro ogni speranza. Ora può godere il frutto maturo di questa sua “giustizia” che gli viene accreditata (Rm 4,3) e con lui sua moglie Sara – che per altro in questa fase del racconto finisce un po’ in secondo piano e non viene più nominata, se non per la sua sepoltura. Entrambi contemplano il figlio Isacco, il figlio della promessa, un ragazzo che possiamo immaginare come tutti gli altri e pure per loro diversissimo. Non hanno occhi che per lui, per la sua crescita, i suoi progressi, i suoi talenti. La circoncisione, l’iniziazione alla fede che si assimila come il latte materno, la legge e i precetti, il lavoro a fianco del padre. Chissà, forse Isacco è un figlio irreprensibile e ubbidiente, oppure è un po’ viziato da quei genitori anziani che tanto lo amano. A noi non è dato saperlo. Quel che è certo è che la famiglia di Abramo in questo momento pare non aver più nulla da chiedere e forse non si aspetta neanche più nulla. Non che si possa demonizzare la tranquillità, eppure è come se in ogni momento della nostra vita fossimo chiamati a lasciare uno spazio ad un Altro che ci chiede di mantenere aperta la porta di un dialogo sempre orientato al “mistero”. È qui che il Signore si ripresenta alla coscienza di Abramo, si fa protagonista un’altra volta ed in modo davvero del tutto stravolgente. Dio “mette alla prova” Abramo, lo chiama per nome ed ancora una volta il vecchio come un bambino con suo padre risponde “eccomi”: sono qua, fa di me ciò che vuoi, sono pronto, mi fido di te. La richiesta del Signore appare per la nostra mentalità addirittura blasfema: sacrificare il suo unigenito figlio! Ma com’è possibile fare questa richiesta? Adesso!? Dopo tutto quello che c’è stato? E non basta che gli storici ci dicano che i sacrifici umani allora erano all’ordine del giorno, il Dio di Abramo non può volere questo, no, tutti noi ci ribelliamo. Immagino Abramo strozzare il grido nella notte sul suo giaciglio, non riuscire neanche a condividere con Sara quel macigno sul suo cuore. Poi una mattina, raccoglie tutte le forze e si prepara a questo nuovo viaggio: un viaggio verso il baratro, con il cuore gonfio di angoscia. Ogni gesto è fatto con lentezza, come se nel frattempo potesse sorgere in lui una consolazione, una rassegnazione o forse l’insperato contrordine. E Sara cos’avrà potuto capire e cos’ha avrà detto in quei frangenti? Oppure avrà taciuto, come affidata anche lei al mistero e avrà seguito con lo sguardo il marito e il figlio allontanarsi fino a perderli oltre l’orizzonte. Che preghiera sarà sorta nel cuore di questi genitori così messi in balia di un volere del tutto estraneo ad ogni concezione umana? Quando Isacco chiede al padre dov’è l’agnello per l’olocausto, Abramo è già sintonizzato nel solco della sua vocazione che lo rende davvero padre di tutti i credenti: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto”. Dio agisce, oltre me, oltre le mie possibilità, i miei affanni, i miei progetti, mi affido totalmente, mi abbandono a lui come un corpo che si lascia cadere nel vuoto sapendo che delle braccia apparentemente invisibili lo sosterranno. Questa è la fede fragile come un sospiro e granitica come una pietra che permette ad Abramo di dire ai suoi servi di fermarsi e proseguire da solo con quel figlio che fra breve capirà cosa gli sta succedendo. Timore e tremore come il titolo dell’opera di Kierkegaard sull’episodio, non sembra esserci spazio per altro. Dio aspetta fino all’ultimo, poi ferma la mano di Abramo, “cavaliere della fede”, con il coltello sguainato e cambia la storia della Salvezza. Non sacrifici umani! Mai più! Ma misericordia e amore: questo il Signore ha voluto chiedere ancora al suo figlio Abramo. Ha voluto ancora una volta fargli dono di una verità che vale per ogni uomo e ogni donna di questa terra: i figli non sono nostri, nessuno, mai, non sono un possesso e non possiamo arrogarci nessun diritto su di loro. Il Signore dà, il Signore toglie… nella libertà di ciascuno che è chiamato a scrivere la sua scia nel cielo della vita. Non ne siamo padroni, come ha cantato mirabilmente Tagore, sono frecce scoccate dal nostro arco la cui direttrice non dipende più solo dai nostri intendimenti. Abramo torna a casa con Isacco e chissà Sara come sarà loro corsa incontro, libera dal presentimento e dalla paura, ma pronta ad ascoltare dal marito, magari in molte altre notti insonni, che quel figlio che dorme lì vicino a loro, non è per loro, almeno non solo per loro, ma destinato – come ciascuno di noi – ad essere protagonista insostituibile di una storia di salvezza che non accetta la tentazione del possesso, ma si nutre e procede solo quando si fa dono. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: il figlio donato da Dio
20 Luglio 2021 - Dopo la nascita di Ismaele, il figlio della schiava, Abramo e Sara, ora con nomi nuovi, segno di una lenta conversione interiore, sono nuovamente pronti ad accogliere l’ennesima promessa di un Dio che non li ha mai abbandonati, anche nel momento dell’errore e del torto (Gen 17). Un “Dio-con-Noi” è quello di questa coppia di sposi: sempre al loro fianco, sempre capace di stupirli e di approfittare di ogni loro gesto di accoglienza. Abramo e Sara sono proprio come noi, un uomo e una donna, uniti nella ricerca del bene e della verità, con cadute, ferite, illuminazioni… ma, in ultima istanza “graziati” dal non interrompere mai, anche nel lamento o nel grido di incomprensione, il dialogo con un Dio che si abbassa a parlare loro con tutto lo spettro dei linguaggi umani. L’ultimo grande incontro è coi tre uomini alle Querce di Mamre.
Non era facile riconoscere in essi la presenza del Signore, ma Abramo mostra la piena maturità del suo essere uomo che accoglie, che si mette a servizio, che offre il meglio di sé, senza chiedere niente in cambio. Nell’accudire i tre viandanti sconosciuti Abramo è l’uomo maturo che è pronto a ricevere il dono a lungo promesso: un figlio dalla sua carne.
Quello che davvero il cuore umano non osa più sperare, Dio è capace di compierlo perché il suo amore non ha confini e lo rende continuamente Creatore di meraviglie. Ancora una volta la pagina biblica non manca di rilevare la dimensione umana della storia, come la Salvezza si dipani dritta sulle righe storte della nostra incredulità. Sara ride dietro la tenda: è in menopausa, sa di essere “avvizzita” e non poter più generare e invece: da lì ad un anno nasce Isacco, il figlio della promessa. (Gen 18, 1-16; 21, 1-6).
Quante volte non abbiamo il coraggio di sperare? Quante volte non osiamo dire che “ci basta la sua Grazia”? Spesso il nostro animo sembra non avere spazio per una misericordia che è oltre i nostri pensieri, che viene da un Dio che non ci tratta secondo la nostra misura, non ci dà solo il contraccambio ma abbonda di beni, anche là dove noi abbiamo fallito. Isacco cresce con il fratellastro Ismaele, chissà quanti giochi, quanto umano affetto, ma ancora una volta il disegno divino spiazza Abramo che deve soffrire un nuovo abbandono e chissà questa volta quale sarà stato il ruolo di Sara, madre di un erede che non poteva avere rivali. Gli uomini e le donne della terra non riescono da soli a risolvere situazioni più grandi di loro. Non vi sembra di leggere in tralice storie di ordinaria vita quotidiana, vicende dei nostri giorni, in cui la giustizia umana stenta a trovare le ragioni degli uni e degli altri e affida a tribunali limitati perché troppo umani ferite che solo grandi slanci d’amore possono lenire?
Abramo ancora una volta è in balia di sentimenti contrastanti, lo ritroviamo continuamente in bilico fra la dimensione dell’ascolto incondizionato e quella del timore, dell’incomprensione, del dubbio. Abbandonare Agar e Ismaele nel deserto gli pare gesto violento, spietato, apparentemente senza senso, quel figlio nato così rocambolescamente è pur sempre suo… eppure non sembra quello che Dio suggerisce, come se da questo momento si prendesse Lui direttamente cura di quella donna e di quel ragazzo indifeso che darà vita ad un’altra grande nazione (Gen 21, 8-21). Abramo, l’uomo che contratta alla pari con Dio per la salvezza dei giusti nella città di Sodoma, (Gen 18, 17-33) è ormai sazio di anni e forte di quella discendenza insperata che vede fiorire in Isacco. Pare di vedere questa famiglia ricomposta dopo tanto patire, rendere lode al Signore, sentirsi appagati e nel giusto. Finalmente possono assaporare una serenità che a lungo hanno solo potuto desiderare Eppure non sarà questo l’epilogo dell’epopea di Abramo. Prima di comprare il terreno per erigere il sepolcro di Sara, compagna di una vita, sempre al fianco in ognuna delle loro peripezie, nel viaggio impervio di una fede vacillante ma mai spenta, ancora una volta il Signore interpellerà quest’uomo centenario, che siamo tutti noi, chiedendogli una nuova ed irrevocabile conversione. (Giovanni M. Capetta – Sir)
In Famiglia: Abramo e Sara, una coppia di sposi
13 Luglio 2021 - Leggere nella sua continuità la storia di Abram e Sarai riempie il cuore di gratitudine perché è davvero una vicenda “patriarcale” in cui affondano le radici della nostra umanità e della nostra fede. Abram e Sarai (questi i loro nomi prima che il Signore li cambi in virtù della loro elezione), sono prima di tutto una coppia di sposi. Una coppia ricca di consapevolezza e di amore, una coppia che si parla, che dialoga, si confronta. Certo bisogna leggerlo fra le righe ma altrimenti non si spiegherebbe perché – in un contesto come quello biblico del tempo – si nomini così spesso la presenza di una moglie. Dunque se Abram è il nostro padre nella fede perché parte, lascia tutto, fidandosi di una Parola, fidandosi di un Dio nuovo, che parla un linguaggio diverso dagli idoli pagani della città in cui si trova, credo di poter dire che ha il coraggio di fare questo perché al suo fianco c’è una donna altrettanto coraggiosa che lo asseconda e lo consiglia. Abram si dice che aveva 75 anni: che coraggio! Ricominciare da capo, partire per una terra sconosciuta, affidandosi ad una benedizione tanto grande quanto misteriosa (Gen 12, 1-9). Fino a questo momento il nostro ci pare un eroe, un uomo benedetto da Dio e intrepido, ma le difficoltà sono appena iniziate. Giunto in Egitto, a causa della carestia in terra di Canaan, ecco comparire la paura anche in lui e la tentazione di confidare solo sulle sue forze: lo stratagemma di dire al faraone che l’avvenente moglie Sarai è sua sorella rischia di scatenare un flagello drammatico. Concedere la moglie al faraone per veder salva la vita, è una scorciatoia che il Signore non può assecondare, lui garante della indissolubilità sacra del matrimonio fin dall’allora. Subito Abram ci sembra meno sul piedistallo: è un uomo che sbaglia, la cui fede talvolta vacilla, che è portato allo slancio di fiducia in un Dio che non lo tradisce, ma poi cerca anche di cavarsela malamente da solo e rischia di farsi molto male (Gn 12, 10-20). Abram è un giusto, accetta di dividere la terra promessagli con suo nipote Lot, dimostra grande magnanimità e il Signore, in un continuo rapporto davvero da padre a figlio, gli rinnova il suo sostegno e il suo favore (Gen 13). Passano guerre e peripezie ma il patriarca supera tutte le prove e riceve la benedizione particolare anche di un sacerdote straniero: Melchisedek (Gen 14, 17-20). Non ha confini la capacità di Abram di incontrare le persone, egli è fondamentalmente un uomo votato alla pace, soprattutto in virtù degli anni che passano e che lo rendono sempre più saggio e avveduto. C’è qualcosa che non può comprendere, però: perché il Signore continua a promettergli una discendenza grande come le stelle del cielo mentre il suo rapporto con Sarai risulta sterile e il suo erede un servo straniero? Qui possiamo immaginare le lunghe notti insonni, coricati fianco a fianco, a sognare, pregare, a domandarsi il perché di questo lacerante divario fra promessa e realtà. Quante coppie possono immedesimarsi in questa prova: figli desiderati come il dono più grande, figli cercati con purezza di cuore e generosità infinita che pure non arrivano? (Gen 15). Il Signore ascolta questo grido, rinnova la sua alleanza e continua a promettere una fecondità da scoprire, ma questa volta è Sarai a non accettare la sfida e a escogitare un’altra scorciatoia: concedere al marito di unirsi con la schiava Agar perché questa gli dia un figlio. Lecito agli occhi degli uomini, ma fuori dal disegno di Dio. Si potrebbe osar dire che sia stato il primo caso di “utero in affitto”, ma bisogna anche constatare come questa particolare situazione, che sfugge completamente di mano ai nostri coniugi, viene agguantata dall’alto e fatta oggetto di un piano provvidenziale che non poteva essere immaginato. Nasce Ismaele, figlio di Agar e la schiava monta in superbia, Abram ha forse più attenzioni per lei, madre del figlio finalmente nato, che per l’anziana moglie. Sarai la vessa e la fa allontanare, ma non è ancora il tempo dell’abbandono (Gen 16), molto ancora attende i nostri protagonisti nel loro tortuoso percorso nell’ascolto del Signore… (Giovanni M. Capetta – SIR)
In Famiglia: in principio erano Adamo ed Eva
22 Giugno 2021 - Con questa nota l’intenzione è quella di compiere un nuovo viaggio fra i rapporti di famiglia all’interno della Bibbia. Il grande codice biblico, infatti, è in qualche modo leggibile come il racconto di una relazione infinita fra Dio e il suo popolo e delle relazioni reciproche dei protagonisti della storia della salvezza. L’auspicio, quindi, sarebbe quello di riuscire a leggere le pagine bibliche come delle fonti, degli archetipi dei rapporti che da sempre si instaurano fra gli uomini e le donne, che da sempre hanno formato famiglie, dai tempi di Adamo fino ai nostri giorni. Nessuna pretesa di esegesi scientifica o per addetti ai lavori, ma piuttosto una lettura attualizzante che ci aiuti a sentirci parte di una grande catena umana, che – a differenza della teoria dei corsi e ricorsi storici – in realtà cammina verso una evoluzione che si concretizza nella quotidiana, silenziosa ma costante costruzione del Regno di Dio. In questa prospettiva come non porre al centro della nostra attenzione, in questo esordio, le figure di Adamo ed Eva, i progenitori del genere umano, gli iniziatori della storia umana, la prima famiglia secondo il disegno divino. È chiaro che il lettore non possa aspettarsi qui un trattato su un argomento di portata così rilevante come la creazione dell’uomo da parte del Dio biblico. Ogni grande religione ha il suo mito fondativo, ma nessuna è così centrata sull’atto creativo del primo uomo come è descritto nel libro della Genesi. Non meraviglia che su tale argomento la tradizione religiosa prima ebraica e poi cristiana abbia speso le massime energie intellettuali e spirituali per decodificarne tutto il valore e il significato, Nei mesi scorsi su questa rubrica abbiamo potuto verificare come il magistero petrino, soprattutto quello storicamente recente di Giovanni Paolo II, abbia dedicato a questo tema una riflessione ponderosa sia in termini di profondità sia di estensione nel tempo e nell’occasioni. Ma a noi oggi cosa dicono le figure di Adamo ed Eva e la relazione fra loro? Credo che la prima grande conquista ermeneutica e spirituale che l’uomo religioso e non solo dei nostri tempi possa fare è la dimensione della reciprocità che nella Genesi maschio e femmina sono chiamati a vivere sotto gli occhi del loro Creatore. Non solo Eva è carne della carne di Adamo perché creata – secondo il racconto genesiaco – dalla costola dell’uomo e quindi i due sono della stessa sostanza, ma essi sono perfettamente complementari. Solo affiancando il volto femminile di Eva al volto maschile di Adamo si ricrea l’immagine di Dio. Dio, in questo senso e maschio è femmina – si ricordi come fece scalpore la dichiarazione di Giovanni Paolo I in merito – e la gloria dell’uomo vivente è fondata sulla duplicità dei sessi di cui l’umanità si compone. A mio avviso basta questa semplice eppure profonda consapevolezza per equilibrare quelle scuole di pensiero che, forse in modo eccessivo, enfatizzano, con un’espressione tratta dal titolo di un long seller americano, che “gli uomini vengono da Marte e le donne vengono da Venere. È vero, cioè, che i mondi maschili e femminili sono ancestralmente diversi e necessitano di una propensione a colmare la distanza che esiste fra loro da sempre e che sempre esisterà. Forme di pensiero, di desiderio, di linguaggio… tutto è diverso fra un uomo e una donna, eppure è necessario saper anche valorizzare quanto essi siano fatti davvero l’uno per l’altro, quanto l’amore sponsale sia nel progetto di Dio fin dal principio e sia probabilmente l’apice, il capolavoro della creazione. C’è da sfatare il mito dell’autosufficienza, della comodità della dimensione di single che oggi pare prendere piede e che vede diminuire in modo esponenziale non solo i matrimoni, ma anche le convivenze stabili rispetto ad una promiscuità diffusa e a quello che Bauman chiamerebbe “amore liquido”. Adamo ed Eva stanno lì a dirci che “non è bene che l’uomo sia solo” e allora il pensiero corre a quello che stiamo facendo come comunità civile ed ecclesiale nei confronti dei nostri giovani. Che attenzione è data all’educazione affettiva e sessuale? Quali messaggi vengono trasmessi? Si induce nei giovani quel germe di speranza che fa nascere il desiderio di incontrare l’altro in pienezza, il desiderio di fare famiglia? Non c’è solo bisogno di perpetuare la specie e vincere i dati nefasti dei demografi che parlano di crescita zero, c’è anche da dare senso alla vita. Fare unità, fra uomo e donna, generare vita, fisicamente e spiritualmente è il fondamento del nostro essere nel mondo, perché siamo nati per amare, saremo giudicati su questo e ogni relazione d’amore che non viene vissuta all’insegna della pazienza fedele e della volontà è un’occasione persa. A rischio di fantasia illecita, vorrei immaginare che Adamo ed Eva, anche dopo la caduta del peccato, la fatica del lavoro, il dolore del parto, siano rimasti uniti e nella vecchiaia dei loro giorni e siano morti, sazi di giorni, solcando senza saperlo la prima grande storia della umanità coniugata. (Giovanni M. Capetta - SIR)
In Famiglia: questione di volontà
15 Giugno 2021 - Serge Razafinbony e Fara Andrianombonana (Coppia di fidanzati dal Madagascar): Parlando di matrimonio, Santità, c'è una parola che più d'ogni altra ci attrae e allo stesso tempo ci spaventa: il «per sempre» ...
Benedetto XVI: [...] Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: «Sei innamorato?», ma «Vuoi», «Sei deciso». Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: «Sì, questa è la mia vita». Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente «secondo vino» è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare. E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici. (Benedetto XVI, Visita Pastorale all’Arcidiocesi di Milano in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Festa delle Testimonianze, Bresso 2 giugno 2012)
Abbiamo scelto questo passaggio, come ultimo intervento dedicato da papa Ratzinger al tema della famiglia, perché ci pare molto significativo il metodo che il pontefice ha adottato per confrontarsi con tutta la Chiesa in occasione di quella VII giornata mondiale. Un approccio non ex cathedra ma a partire dall’ascolto, dal basso, dalle domande delle persone, delle comunità, delle realtà concretamente inserite nel cammino della storia umana ed ecclesiale che ogni popolo vive. Una disposizione al dialogo, che si è dimostrata feconda e aperta alle sollecitazioni dello Spirito. Il tema dell’Incontro era “La Famiglia, il lavoro e la festa” e le domande si sono distribuite su queste tre aree tematiche, ma significativa è stata la risposta del pontefice a questa coppia di fidanzati del Madagascar. Un ritorno importante a ribadire come l’elemento costitutivo del sacramento del matrimonio sia l’amore e non l’innamoramento, la volontà e non il sentimento. Papa Ratzinger lo esprime con chiarezza, con un linguaggio molto colloquiale, ma che non lascia spazio ad ambiguità. Se da un lato, come è giusto che sia, diminuiscono fino a sparire (almeno in ambito occidentale) i matrimoni “forzati”, che nascono combinati dalle famiglie di origine o che si accontentano di un contratto e di una convenzione, anche fra i matrimoni per scelta, è importante che i giovani facciano un cammino di fidanzamento, un cammino di conoscenza e di consapevolezza. La dimensione, per esempio, del lavoro – che era parte integrante dei temi della giornata mondiale – è un campo in cui i futuri sposi devono saper camminare con le idee chiare rispetto al ruolo che esso può e deve occupare in una vita di coppia. Da studenti e poi nei primi anni di lavoro, spesso ci si dedica a questo con tutto se stessi, poi le cose cambiano ed è giusto che sia così, anche prima che arrivino i figli. Vi sono delle priorità che gli sposi sono chiamati a custodire per far sì che il lavoro non diventi un idolo, ma uno strumento al servizio dell’amore che la coppia vive. Riguardo ad una domanda su questo tema di una coppia greca duramente colpita dalla crisi economica di quegli anni, il Papa non ha proposto ricette facili, ma ha invitato la comunità ecclesiale ad una grande solidarietà, anche sotto la forma di gemellaggi non solo fra nazioni e città, ma fra famiglie stesse. Una comunione che aiuti a cogliere i segni della Provvidenza anche nelle crisi più profonde e dia un contributo a superare le difficoltà economiche riuscendo a collocarle nella giusta prospettiva rispetto alla complessità del vivere. Anche riguardo al tema della festa, Benedetto XVI ha avuto modo di perorare una vita ecclesiale che abbia al centro la festa, appunto, il giorno della domenica, non solo il giorno dell’Eucarestia e quindi del ringraziamento, ma anche il giorno della libertà. Queste le sue parole rivolte ad una coppia statunitense: mi sembra molto importante la domenica, giorno del Signore e, proprio in quanto tale, anche “giorno dell’uomo”, perché siamo liberi. Questa era, nel racconto della Creazione, l’intenzione originale del Creatore: che un giorno tutti siano liberi. In questa libertà dell’uno per l’altro, per se stessi, si è liberi per Dio. E così penso che difendiamo la libertà dell’uomo, difendendo la domenica e le feste come giorni di Dio e così giorni per l’uomo. Le parole del Papa hanno aperto in quell’occasione interessanti cammini di approfondimento sui temi a cui abbiamo accennato e ciò nonostante, a distanza di anni, ci si accorge che il ritmo e le sollecitazioni a cui il sistema sociale sottopone le famiglie del mondo dei paesi ricchi è quasi sempre in contrasto con una piena umanizzazione della famiglia in quanto tale; nel frattempo nel mondo tante famiglie faticano a sostentarsi e fisicamente solo “sopravvivono”: anche, o forse soprattutto questo, dovrebbe interpellare le Nazioni costantemente sollecitate da una Chiesa che sta sempre dalla parte dei poveri. Il magistero di papa Francesco si muove in questa direzione, a noi, famiglie cristiane del mondo, il compito di non venir mai meno alle nostre responsabilità di popolo di battezzati chiamati a manifestare che la gloria di Dio è l’uomo e - potremmo chiosare – la famiglia vivente. (Giovanni M. Capetta - Sir)
Una dimensione relazionale
8 Giugno 2021 - La famiglia è un'istituzione intermedia tra l'individuo e la società, e niente può supplirla totalmente. Essa stessa si fonda soprattutto su una profonda relazione interpersonale tra il marito e la moglie, sostenuta dall'affetto e dalla mutua comprensione. Per ciò riceve l'abbondante aiuto di Dio nel sacramento del matrimonio che comporta una vera vocazione alla santità. Possano i figli sperimentare più i momenti di armonia e di affetto dei genitori che non quelli di discordia o indifferenza, perché l'amore tra il padre e la madre offre ai figli una grande sicurezza ed insegna loro la bellezza dell'amore fedele e duraturo. (Benedetto XVI, Discorso durante il V^ Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, 8 luglio 2006)
Il Quinto Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, verteva sul tema della trasmissione della fede nella famiglia. A questo proposito il Papa ha evidente la volontà di riprendere il dettato conciliare e del suo predecessore e chiama la famiglia “chiesa e santuario della vita”. È chiaro come da questa definizione derivi il ribadimento che è proprio nella famiglia che si radica quella consuetudine, diremmo quasi, quell’allenamento alla preghiera che la rende una dimensione dialogica costante nel rapporto con il Signore. Ma quello che in questo discorso Benedetto XVI vuole anche mettere fortemente in evidenza è la dimensione relazionale della famiglia che la rende – come dice – una istituzione intermedia insostituibile fra individuo e società. Questa verità antropologica trova le sue ricadute sia sul piano ecclesiale, sia su quello sociale. La “profonda relazione interpersonale” fra i genitori è la brace che alimenta la vita di preghiera dei cristiani, ma anche la vita sociale di tutte le famiglie anche quelle non credenti e così il rapporto con i figli si nutre del rapporto dei genitori fra loro e beneficia di tutte le occasioni in cui si manifestano atti di reciprocità e di dedizione oblativa. In sostanza la famiglia si caratterizza non solo come il luogo della relazione per eccellenza, ma anche il luogo della gratuità. I rapporti non sono, o meglio non dovrebbero essere rapporti di forza, ma ispirati ad una dimensione di amore, per quanto sempre perfettibile. Dove se non in famiglia si può essere accolti nelle proprie fragilità? Dove si può trovare il sicuro approdo di fronte ad un fallimento? Dove il rigenerante abbraccio del perdono? Tutto questo può avvenire perché in famiglia non si vive per se stessi, ma si vive per e con gli altri. Quel sì che viene pronunciato il giorno delle nozze, quel consenso che viene scambiato in ambito istituzionale sono entrambe volontà che convergono verso una direzione che è quella dell’essere per dell’essere in relazione. Questo è ciò che umanizza il cammino dell’uomo e della donna, a fronte di un pensiero dominante che tenderebbe a riconoscere in modo assolutistico il valore dell’individuo. Che questa sia la preoccupazione precipua del Pontefice lo si desume anche dalle parole da lui espresse nell’omelia tenuta il giorno successivo, sempre a Valencia, in occasione delle stesse giornate dell’incontro mondiale delle famiglie: “Nella cultura attuale si esalta molto spesso la libertà dell'individuo inteso come soggetto autonomo, come se egli si facesse da solo e bastasse a sé stesso, al di fuori della sua relazione con gli altri come anche della sua responsabilità nei confronti degli altri. Si cerca di organizzare la vita sociale solo a partire da desideri soggettivi e mutevoli, senza riferimento alcuno ad una verità oggettiva previa come sono la dignità di ogni essere umano e i suoi doveri e diritti inalienabili al cui servizio deve mettersi ogni gruppo sociale”. Questo è il pericolo a cui tutte le famiglie, nessuna esclusa, sono esposte, ma questa è la tendenza che si può e si deve contrastare. All’interno del nucleo famigliare non sono più solo individuo maschio o individuo femmina, sono piuttosto marito o moglie, padre o madre, ovvero sempre in relazione all’altro e pensato per l’altro. Se questo è valido per tutte le famiglie del mondo, trova nelle famiglie cristiane un fondamento nella dimensione relazionale dell’amore fra il Padre, il Figlio e lo Spirito ed è proprio quest’ultimo che possiamo accogliere come grazia sempre nuovamente elargita ai nostri propositi di unità e convergenza. Siamo un popolo di “salvati” e anche le famiglie possono vivere in questa certezza quanto più si aprono alla speranza di un Dio che ci vuole fratelli gli uni per gli altri. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In famiglia: una dimensione relazionale
1 Giugno 2021 - La famiglia è un'istituzione intermedia tra l'individuo e la società, e niente può supplirla totalmente. Essa stessa si fonda soprattutto su una profonda relazione interpersonale tra il marito e la moglie, sostenuta dall'affetto e dalla mutua comprensione. Per ciò riceve l'abbondante aiuto di Dio nel sacramento del matrimonio che comporta una vera vocazione alla santità. Possano i figli sperimentare più i momenti di armonia e di affetto dei genitori che non quelli di discordia o indifferenza, perché l'amore tra il padre e la madre offre ai figli una grande sicurezza ed insegna loro la bellezza dell'amore fedele e duraturo. (Benedetto XVI, Discorso durante il V^ Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, 8 luglio 2006)
Il Quinto Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, verteva sul tema della trasmissione della fede nella famiglia. A questo proposito il Papa ha evidente la volontà di riprendere il dettato conciliare e del suo predecessore e chiama la famiglia “chiesa e santuario della vita”. È chiaro come da questa definizione derivi il ribadimento che è proprio nella famiglia che si radica quella consuetudine, diremmo quasi, quell’allenamento alla preghiera che la rende una dimensione dialogica costante nel rapporto con il Signore. Ma quello che in questo discorso Benedetto XVI vuole anche mettere fortemente in evidenza è la dimensione relazionale della famiglia che la rende – come dice – una istituzione intermedia insostituibile fra individuo e società. Questa verità antropologica trova le sue ricadute sia sul piano ecclesiale, sia su quello sociale. La “profonda relazione interpersonale” fra i genitori è la brace che alimenta la vita di preghiera dei cristiani, ma anche la vita sociale di tutte le famiglie anche quelle non credenti e così il rapporto con i figli si nutre del rapporto dei genitori fra loro e beneficia di tutte le occasioni in cui si manifestano atti di reciprocità e di dedizione oblativa. In sostanza la famiglia si caratterizza non solo come il luogo della relazione per eccellenza, ma anche il luogo della gratuità. I rapporti non sono, o meglio non dovrebbero essere rapporti di forza, ma ispirati ad una dimensione di amore, per quanto sempre perfettibile. Dove se non in famiglia si può essere accolti nelle proprie fragilità? Dove si può trovare il sicuro approdo di fronte ad un fallimento? Dove il rigenerante abbraccio del perdono? Tutto questo può avvenire perché in famiglia non si vive per se stessi, ma si vive per e con gli altri. Quel sì che viene pronunciato il giorno delle nozze, quel consenso che viene scambiato in ambito istituzionale sono entrambe volontà che convergono verso una direzione che è quella dell’ essere per dell’essere in relazione. Questo è ciò che umanizza il cammino dell’uomo e della donna, a fronte di un pensiero dominante che tenderebbe a riconoscere in modo assolutistico il valore dell’individuo. Che questa sia la preoccupazione precipua del Pontefice lo si desume anche dalle parole da lui espresse nell’omelia tenuta il giorno successivo, sempre a Valencia, in occasione delle stesse giornate dell’incontro mondiale delle famiglie: “Nella cultura attuale si esalta molto spesso la libertà dell'individuo inteso come soggetto autonomo, come se egli si facesse da solo e bastasse a sé stesso, al di fuori della sua relazione con gli altri come anche della sua responsabilità nei confronti degli altri. Si cerca di organizzare la vita sociale solo a partire da desideri soggettivi e mutevoli, senza riferimento alcuno ad una verità oggettiva previa come sono la dignità di ogni essere umano e i suoi doveri e diritti inalienabili al cui servizio deve mettersi ogni gruppo sociale”. Questo è il pericolo a cui tutte le famiglie, nessuna esclusa, sono esposte, ma questa è la tendenza che si può e si deve contrastare. All’interno del nucleo famigliare non sono più solo individuo maschio o individuo femmina, sono piuttosto marito o moglie, padre o madre, ovvero sempre in relazione all’altro e pensato per l’altro. Se questo è valido per tutte le famiglie del mondo, trova nelle famiglie cristiane un fondamento nella dimensione relazionale dell’amore fra il Padre, il Figlio e lo Spirito ed è proprio quest’ultimo che possiamo accogliere come grazia sempre nuovamente elargita ai nostri propositi di unità e convergenza. Siamo un popolo di “salvati” e anche le famiglie possono vivere in questa certezza quanto più si aprono alla speranza di un Dio che ci vuole fratelli gli uni per gli altri. (Giovanni M. Capetta Sir)
In Famiglia, Papa Ratzinger e la verità dell’umano
26 Maggio 2021 - L'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. […] Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. (Benedetto XVI, Deus Caritas est, dai nn. 2 e 5 – 25 dicembre 2005)
Nel lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II avremmo potuto rintracciare ancora molti altri pronunciamenti esplicitamente dedicati alla famiglia (per esempio le numerose Allocuzioni rivolte alla Rota Romana in occasione della consueta inaugurazione dell’anno giudiziario) ma del resto il tema venne lateralmente sviluppato dal pontefice polacco anche in altri due importanti documenti come la Mulieris Dignitatem sul ruolo della donna e la Christifideles Laici, entrambe Lettere Apostoliche post sinodali già del 1988. C’era in papa Wojtyla una naturale consonanza con la realtà famigliare che gli derivava probabilmente soprattutto dai suoi anni di giovane sacerdote e vescovo. Diversa sicuramente l’esperienza di papa Benedetto XVI, che negli anni della formazione deve aver piuttosto frequentato ambienti ecclesiastici ed accademici e ha forse avuto meno occasioni di confrontarsi direttamente con ambienti famigliari.
Di fatto nei suoi otto anni di pontificato il Papa emerito non ha mai dedicato documenti espliciti sulla famiglia, sebbene all’interno delle due encicliche Deus caritas est del 2005 e Caritas in Veritate del 2009 abbia modo di riferirsi all’istituto famigliare come alla “cellula vitale”, al “pilastro della società”. L’impressione è che la strategia pastorale di papa Ratzinger non sia quella di ribadire la convinzione della intrinseca bontà della famiglia, quanto piuttosto di riuscire a metterne in luce gli elementi di verità, di libertà, in una parola di amore che si contrappongono alla dittatura del relativismo da lui così strenuamente combattuta. Nella citazione sopra riportata papa Benedetto, con la sua capacità di scandagliare la profondità dei concetti espressi, offre alla comprensione dei fedeli e inevitabilmente delle coppie credenti, una verità fondamentale: non si ama solo con il corpo, né si può amare solo con lo spirito. Ribadire il concetto secondo cui il corpo umano è fatto anche di spirito e lo spirito umano è uno spirito incarnato è una verità dirompente per il pensiero relativista dell’areopago sociale a cui il Papa si rivolge. Sembra proprio sentire Paolo che annuncia un Dio ignoto ai Greci: ad amare è la persona, nella sua dimensione unitaria, appunto, di anima e corpo. Quella che può sembrare una dissertazione solo filosofica, si rivela una verità antropologica dalle conseguenze rilevanti sul piano della prassi quotidiana. È difficile tenere uniti eros e agape e gli sposi ne fanno esperienza quotidiana. Eros è desiderio dell’altro che, se non controllato, può diventare in ogni momento una volontà soffocante di possesso e agape ha bisogno di segni, parole, concretezza per manifestarsi in modo unico ed irripetibile senza rimanere nella sfera delle elucubrazioni psicologiche o delle sole intenzioni. Ancora Eros si trasforma, quasi si potrebbe dire “si lima” ogni giorno per passare dal desiderio della gratificazione immediata al desiderio del bene dell’altro; Agape può divenire sorgente di gioie anche attraverso le sofferenze vissute all’insegna della pazienza e della fedeltà. Un discorso arduo, non tanto nella sua comprensibilità, quanto nella sua attuazione, ma il Papa non ha dubbi e avrà modo di dire anche in altra sede che “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa” (Discorso dell’11 maggio 2006 in occasione del XXV anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia).
Che l’amore umano sia immagine dell’amore di Dio e viceversa è una sfida mozzafiato nel contesto di sgretolamento di ogni valore che si fondi sui principi di fedeltà e stabilità, così dominante nei primi anni duemila. A papa Ratzinger va la gratitudine di tutta la comunità ecclesiale per aver saputo non arretrare di fronte al dilagante pessimismo sulle possibilità di amare dell’uomo. Non aver mai giocato al ribasso, essersi sempre confrontato con grande coraggio con la pervasività del pensiero debole dominante nei suoi anni. Benedetto XVI, fin dalla sua prima enciclica, ha incoraggiato tutti gli uomini e le donne di buona volontà a vivere secondo il Vangelo, attraverso un pensiero non solo proverbialmente alto e argomentato, ma in ultima istanza, profondamente innamorato di Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: l’insuperata forza della preghiera
18 Maggio 2021 - Questa Lettera alle Famiglie vuole essere innanzitutto una supplica rivolta a Cristo perché resti in ogni famiglia umana; un invito a Lui, attraverso la piccola famiglia dei genitori e dei figli, ad abitare nella grande famiglia delle nazioni, affinché tutti, insieme con Lui, possiamo dire in verità: “Padre nostro”! Bisogna che la preghiera diventi l’elemento dominante dell’Anno della Famiglia nella Chiesa: preghiera della famiglia, preghiera per la famiglia, preghiera con la famiglia. (Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, n.4, 2 febbraio 1994)
La volta scorsa, abbiamo aperto la lettera di Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, ed essa ci dà ancora l’opportunità di sottolineare quanto sia fondamentale per Giovanni Paolo II la dimensione della preghiera, Egli chiama la lettera addirittura una “supplica”, ovvero una via, una strada ineludibile per invitare Cristo ad essere presente in ogni singola famiglia perché “senza di Lui non possiamo fare niente”. Questa consapevolezza è un dono dello Spirito che gli sposi ricevono il giorno delle loro nozze e che non dovrebbero mai lasciare spegnere, o inerte, ma ravvivare ogni giorno con il contributo della loro volontà e libertà. Lo Sposo è con loro, è in mezzo ai coniugi ed essi si possono rivolgere a Lui in un dialogo fecondo, fatto di ascolto della Parola, di ogni ispirazione dello Spirito, attraverso un discernimento individuale e di coppia che non ha paragoni nel panorama della preghiera della Chiesa. Questa preghiera è alimento delle giornate, sostegno nelle fatiche, consolazione nelle prove – anche le più dure – ed è uno strumento che non può essere considerato un optional nella vita degli sposi, ma una vera e propria colonna del loro vivere insieme la promessa che si sono reciprocamente offerti nel Signore. Ciò che è interessante e deve interpellare il nostro spirito missionario è che il Papa non sembra tracciare una linea netta di demarcazione fra credenti e no, ma anzi invita i singoli nuclei famigliari di genitori e figli ad “aprire” la loro preghiera perché Dio abiti anche nella famiglia delle nazioni e questa abbia la possibilità di chiamarlo “Padre Nostro”. La preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato è per eccellenza una preghiera plurale, che contempla una comunione. Questo vale nell’intimo del talamo nuziale, dove – come nella Bibbia Tobia e Sara – gli sposi possono rivolgersi davvero insieme, ad una sola voce, al Signore, Padre di entrambi; ma vale anche nella globalità della famiglia umana in cui tutte le famiglie possono alzare le mani al Padre comune e a Lui chiedere il bene, il pane, il perdono ed ogni dono che Egli sempre elargisce. Ai cristiani è chiesto di essere testimoni di questa paternità, saperla mostrare agli occhi delle famiglie del mondo, attraverso l’unione, la gioia, la solidarietà. Chiedendo che la preghiera diventi l’elemento dominante dell’Anno della Famiglia, il Papa ci dà ancora delle indicazioni su come possa essere questa costante linfa alimentare delle famiglie e dei popoli. Essa sia una preghiera “della” famiglia e questo apre alla fantasia dell’uomo e della donna che insieme ai loro figli possono esperire infinti modi di rivolgersi al Padre. La preghiera è richiesta di intercessione, è dialogo, è confronto ed ascolto condiviso della Parola. Penso, però anche alla mai superata pratica del Rosario: l’esperienza insegna che questa esperienza litanica superi spesso le barriere delle difficoltà di comunicazione fra grandi e piccoli, dei figli fra loro e unisce tutti in una contemplazione in cui le parole rivolte alla Vergine varcano la soglia del silenzio, fanno condividere lo spazio e il tempo – si pensi ai viaggi in auto, come già scritto altre volte – in un modo umile e intraprendente allo stesso tempo. Giovanni Paolo II, poi, però, dice anche che la preghiera dev’essere “per” la famiglia e questo è un invito rivolto a tutta la Chiesa. Il Papa chiede che la comunità ecclesiale sappia impetrare al Padre tutte le grazie di cui le famiglie del mondo hanno bisogno. Non un riferimento formale all’importanza che la cellula fondamentale della società ha per il nostro sviluppo, ma qualcosa di più. Si tratta di sapersi commuovere, di saper sciogliere il cuore di fronte al miracolo di ogni singola famiglia che cammina nel mondo e saperla accompagnare non in astratto ma con un coinvolgimento profondo e grato per il dono che essa è per tutti. Infine la preghiera è “con” la famiglia e ciò comporta saper vivere uno spirito di comunione che non è affatto da dare per scontato, ma che è bene innervi tutte le componenti ecclesiali, senza fermarsi o dividersi in compartimenti stagni costituiti dai diversi ambiti che compongono la Chiesa stessa. Dunque la famiglia ha da offrire la sua particolare ed originale preghiera di “chiesa domestica”, necessita di ricevere la preghiera della comunità ecclesiale che la accoglie ed è chiamata a non sentirsi parte estranea ma elemento vivente che prega insieme agli altri in una coralità di voci in cui i diversi stati di vita esprimono la poliedrica via alla santità a cui tutti siamo destinati. (Giovanni M. Capetta – Sir)
Umanità, famiglia di famiglie
12 Maggio 2021 - Carissime Famiglie! La celebrazione dell'Anno della Famiglia mi offre la gradita occasione di bussare alla porta della vostra casa, desideroso di salutarvi con grande affetto e di intrattenermi con voi. Lo faccio con questa lettera, prendendo l'avvio dalle parole dell'Enciclica Redemptor hominis, che ho pubblicato nei primi giorni del mio ministero petrino. Scrivevo allora: l'uomo è la via della Chiesa. (Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, n.1, 2 febbraio 1994)
Dopo la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, il 22 novembre 1981, papa Giovanni Paolo II ha proseguito fino al novembre del 1984 le sue udienze del mercoledì che sono poi andate a confluire in quel poderoso patrimonio di sapienza teologica comunemente chiamate “catechesi sull’amore umano”. Solo per questo sforzo di approfondimento Karol Woytjla può a buon ragione essere chiamato il “Papa della famiglia”, ma le occasioni in cui egli è tornato a parlare della famiglia e per la famiglia sono state anche altre nel suo lungo e intenso pontificato. C’è un documento che merita un’attenzione maggiore di quella che forse negli anni gli è stata attribuita: si tratta della Gravissimam sane. Questo testo si presenta con caratteristiche diverse rispetto agli altri che abbiamo poc’anzi ricordato perché si presenta sotto forma di lettera, una lettera che il Papa desidera indirizzare a tutte le famiglie del mondo in occasione della celebrazione, nel 1994, dell’Anno della Famiglia, un’iniziativa internazionale dell’ONU. La contingenza di questa occasione laica e – come detto – la scelta di rivolgersi direttamente alle famiglie e non alle gerarchie ecclesiastiche o ai pastori rende il dire del Papa molto accorato, affettuoso e forse, nello stesso tempo, anche più semplice. La lettera mette in evidenza fin dal titolo della sua prima parte un’espressione – che già era stata usata da Paolo VI – “la civiltà dell’amore”. Essa racchiude in sé un convincimento che il Papa sviluppa riprendendo i capisaldi del suo magistero, ovvero che c’è una civiltà, non in senso solo politico, ma più profondamente umanistico che va edificata a partire proprio dalla verità che l’uomo e la donna sono da sempre pensati per creare quella comunione di persone che alimenta e perpetua il mondo. L’uomo e la donna chiamati a realizzare il bene comune del matrimonio e della famiglia attraverso il dono di sé e la consapevole volontà di essere padri e madri responsabili, coprotagonisti del mistero d’amore che origina la vita. “La civiltà – scrive il Papa – appartiene alla storia dell’uomo, perché corrisponde alle sue esigenze spirituali e morali: creato ad immagine e somiglianza di Dio, egli ha ricevuto il mondo dalle mani del Creatore con l’impegno di plasmarlo a propria immagine e somiglianza. Proprio dall’adempimento di questo compito scaturisce la civiltà, che altro non è, in definitiva, se non l’umanizzazione del mondo (n. 10). Questa umanizzazione ha bisogno di tutte le energie positive provenienti dagli uomini e le donne di buona volontà e il Papa richiama le occasioni in cui pressante è stato il suo invito alle nazioni perché convergessero su una piattaforma condivisa dei diritti della persona prima e della famiglia di conseguenza. L’umanità vive ancora profonde disparità fra Paese e Paese e vi sono luoghi nel mondo in cui non si raggiungono quei principi di dignità che permettono alle creature di essere chiamate tali. La valorizzazione della famiglia quale risorsa imprescindibile per lo sviluppo umano è un impegno che deve coinvolgere tutti, ma a cui la Chiesa invita soprattutto gli sposi cristiani presenti in tutto il mondo quali “naturali” missionari di quella civiltà dell’amore che attende di essere pienamente realizzata. Per questo motivo la seconda parte della lettera è intitolata “Lo sposo è con voi”, perché il Papa sprona i credenti a rinvigorire la fede nella presenza viva e feconda del Signore nel cammino della storia. Gesù è presente, agisce, interviene, proprio come fece a Cana di Galilea. Maria, sua madre ha detto allora e ripete ogni giorno “fate quello che Lui vi dirà”. Le famiglie non si sentano sole nel percorrere la via delle Beatitudini perché essa è ardua, ma sempre attuale e possibile. Di certo Giovanni Paolo II si affiancherebbe oggi al fervore con cui papa Francesco ci invita a pregare la Madre del Signore per invocare la fine della pandemia e dal cielo crediamo interceda perché le famiglie del mondo, pur nelle grandi prove a cui siamo chiamati, possano alimentare la speranza che l’umanità sarà sempre più una famiglia di famiglie. (Giovanni M. Capetta - Sir)