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Migrantes Porto Santa Rufina: la ripresa delle celebrazioni delle comunità cattoliche straniere

21 Maggio 2020 - Porto Santa Rufina - In tutto questo tempo di chiusura delle celebrazioni eucaristiche, e di tutte le attività Pastorali, le comunità Migranti Cattoliche della Diocesi di Porto-Santa Rufina si sono adeguate alle nuove necessità e hanno organizzato le celebrazioni eucaristiche in lingua via web, giornalmente. Ora con la fase due di riapertura da domenica 24 maggio, per le condizioni previste dalle norme coronavirus si sono dovute rivedere alcuni orari per poter celebrare in condizioni di sicurezza. La comunità nigeriana riprende la celebrazione sia a Cesano che Ladispoli quasi con lo stesso orario ore 13 a Cesano alle 17,30 a Ladispoli. La comunità Romena ha diviso la celebrazione a Ladispoli; nella Parrocchia del Sacro Cuore alle ore 10 e nella Parrocchia di San Giovanni Battista alle 13; mentre a Cesano ha dovuto anticiparla alle ore 16. La Comunità Polacca di Ladispoli dobbiamo trovare un’altra Chiesa perché nella Chiesa di Santa Chiara non ci sono le condizioni; domenica 24 maggio celebreranno a Santa Severa dai Padri Polacchi e per la prossima stiamo cercando nella Parrocchia di San Francesco a Cerenova (Cerveteri). La Comunità Polacca di Pia del Sole (Ponte Galeria) inizierà di nuovo la celebrazione spostando la messa alle 11,30 per la sanificazione della Chiesa dopo la celebrazione della Comunità italiana delle 10. La Comunità Filippina non può più celebrare nella Chiesa di San Giovanni Calabria per mancanza di spazio e di una doppia uscita: stiamo concordando con il parroco della Parrocchia Santi Pietro e Paolo all’Olgiata per riuscire a celebrare alle ore 12,30 la domenica. Questo è un tempo di riflessione non solo per le comunità cattoliche italiane ma anche di quelle migranti. La fede di tutti, dopo questo stop, è più matura nel ripartire con la consapevolezza di quello che è mancato a tutti: la celebrazione Eucaristica, il rapporto con i fratelli di fede e le feste fatte con tutta la Comunità nella gioia. In questo tempo di stop è cresciuta la fraternità e la condivisione tra la Comunità Diocesana, le Parrocchie e le famiglie in difficoltà, sia italiane che migranti grazie alle iniziative messe in campo a diversi uffici diocesani e la Croce Rossa Italiana che hanno lavorato insieme con i volontari, per la distribuzione di generi alimentari, al pagamento di bollette e alla consegna dei buoni spesa a tutte le famiglie in difficoltà, per la mancanza del lavoro dovuto al blocco totale degli spostamenti. (Enzo Crialesi – Dir. Migrantes Porto-Santa Rufina)

Cei: altri 2 milioni e 400mila euro dell’8X1000 per le strutture sanitarie

20 Aprile 2020 - Roma - Continua l’opera di sostegno della Conferenza Episcopale Italiana alle strutture ospedaliere, molte delle quali stanno radicalmente modificando la propria organizzazione interna per rispondere all’emergenza sanitaria causata dal Covid-19. Ai 6 milioni di euro già stanziati nelle scorse settimane in risposta alle esigenze di 7 presidi sanitari e socio-sanitari cattolici, distribuiti sul territorio nazionale, la CEI mette a disposizione altri 2 milioni e 400mila euro - provenienti dai fondi dell’otto per mille, che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica - a beneficio di altre 5 realtà. Il contributo è destinato al supporto della Fondazione Papa Paolo VI di Pescara, dove la diocesi ha aperte tre case di riposo, per un totale di 150 posti finora preservati dal contagio, un centro per malati quasi terminali con 50 posti e un centro residenziale con 30 posti per diversamente abili; della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia), la cui “area Covid” annovera 123 posti letto e 18 posti letto di terapia intensiva estensibili in caso di necessità; della Provincia Lombardo-Veneta Fatebenefratelli, che ha visto tutte le strutture dell’Ordine Ospedaliero adoperarsi per riorganizzare i reparti e aumentare i posti letto a disposizione dei pazienti Covid-19, oltre che per proteggere e tutelare tutti gli altri ospiti dal rischio del contagio; dell’ Istituto Figlie di San Camillo, nelle cui strutture sanitarie Covid-19 (a Roma, Treviso, Trento, Cremona e Brescia), con 321 posti letto a disposizione, sono operative 89 suore e circa 2 mila dipendenti laici; della Provincia Religiosa Madre della Divina Provvidenza, duramente colpita dall’emergenza, particolarmente nella popolazione fragile delle residenze sanitarie per anziani e per disabili. I vescovi italiani rinnovano in questo modo quella “carezza di consolazione”, che “apre il cuore e ridona speranza”, sottolineata dal recente Consiglio Episcopale Permanente che si è svolto in videoconferenza lo scorso 16 aprile. La Cei ricorda che per sostenere le strutture sanitarie è aperta anche una raccolta fondi. Chi intende contribuire può destinare la sua offerta - che sarà puntualmente rendicontata - al conto corrente bancario: IBAN: IT 11 A 02008 09431 00000 1646515 - intestato a: CEI causale: SOSTEGNO SANITÀ.

Quaresima e Coronavirus: domande a ciascuno di noi

4 Aprile 2020 - Scegliere di vivere da credenti significa farsi interpellare dalla vita, in cui si riconosce una Parola che Dio ci rivolge, ma la vita parla sempre al presente, perché la vita c’è. Il nostro presente è nella crisi del coronavirus e, sebbene siamo avviluppati dalla caligine che rende incerti i contorni del futuro, anche da questa situazione possiamo e dobbiamo farci interpellare, per rispondere in modo sapiente, cioè al passo con i ritmi del Verbo che tiene in mano tutte le cose, anche quelle che non ci piacciono, e tutte conduce all’amore del Padre. Ho deciso di concludere pertanto questo percorso quaresimale, che ci ha portati alle soglie della Settimana Santa, con le domande che il nostro presente pone a me, dopo avere provato a esprimere alcune delle domande che esso pone inevitabilmente alla società civile e alla Chiesa. Ovviamente queste domande non le pone a me soltanto, ma non ho la pretesa che alcuno se ne senta interpellato allo stesso modo, o che le ritrovi tutte dentro di sé. Qual è lo specifico del prete, oggi? Cosa è giusto che la gente si aspetti da lui? Sbarrato l’accesso alle celebrazioni liturgiche, chiusi gli oratori, saltate le agende, i preti anziché incrociare le braccia hanno centuplicato i loro sforzi per predicare, insegnare, tenere corsi di esercizi, organizzare momenti di preghiera, confortare gli afflitti; quasi a ogni ora è possibile trovare (e capita solo ora, nei giorni del coronavirus!) Messe in streaming, appuntamenti di adorazione eucaristica, tutorial sulla liturgia, introduzioni alla preghiera… e la gente sta rispondendo con gratitudine, non sentendosi abbandonata. Per non parlare dei preti (e dei Vescovi, e dei Cardinali) infettati dal virus per la loro fedeltà al ministero, dei preti intubati, dei preti morti. La crisi attuale, spogliando i sacerdoti di tanti doveri di mantenimento dell’abituale, sta facendo brillare in modo luminoso i tre munera del prete pastore del suo gregge, maestro di preghiera, officiante dei divini misteri in rappresentanza di tutto il popolo. Domenica scorsa una mamma, dopo un momento di adorazione organizzato in streaming con i bambini della Prima Comunione, mi ha scritto in un messaggio: “M. [la figlia di 9 anni] mi ha detto che don Alessandro è come Gesù, vuole bene a tutti noi e prega per noi”. C’è altro da aggiungere sulla percezione dei fedeli circa l’essenziale del sacerdozio ministeriale? Se la prima domanda me la sono posta da prete, le altre, più semplicemente, me le pongo da uomo che, come tutti, dovrà affrontare gli incerti giorni a venire un passo alla volta. Spero che possano stimolare qualche riflessione utile almeno per qualcuno. Chi sarà la prima persona che vorrò riabbracciare quando finirà la quarantena? Questo digiuno quaresimale dal contatto ci induce inevitabilmente a esaminare le nostre relazioni, mettendo in evidenza quelle che per noi, alla fin fine, risultano le più vitali. Speriamo di non dimenticarcene, dopo. Qual è la cosa che mi fa davvero più paura di tutta questa vicenda? Questa domanda in un certo senso è la medesima di prima sotto un’angolatura più cupa, quella della paura della perdita. Oppure può stanare altre paure recondite in noi, che pure magari ci diciamo solidamente credenti. Bene, facciamole uscire tutte queste paure, chiamiamole per nome, e decidiamoci ad affrontarle con le armi della fede, della speranza, dell’abbandono nelle mani di Dio. Potremmo vincerle. Ho davvero voglia di tornare alla normalità? Una domanda sorprendente, che un po’ mi fa arrossire di vergogna, soprattutto se penso ai poveri morti, ai medici e agli infermieri in trincea, alla crisi economica che sta per arrivare… eppure, non è un caso che questa sia la domanda che più volte in questi giorni ho sentito formulare anche da altri. La verità è che eravamo troppo abituati allo stress, a vite alienate sempre di corsa, ad affetti familiari visti solo la sera o nel weekend. Come sarebbe bello poter portare con sé gli spazi di novità acquisiti, una volta che avremo superato la crisi! E ora, avviamoci verso la Settimana Santa: studiamo attentamente i testi che la liturgia ci proporrà, contempliamo con gli occhi del cuore le scene che essi dipingeranno in noi… il viola plumbeo del deserto e della serietà necessaria arriverà a circondarci e forse a opprimerci con i toni del pericolo e dell’abbandono; quando per un istante apparirà il bianco candido dell’amore, dell’amicizia e del pane condiviso, fin troppo presto esso annegherà nel rosso silenzioso e tragico della violenza e di una condanna che inchioda e che sembrerà zittire nel buio la speranza… ma il bianco tornerà a sfolgorare, la speranza rifiorirà, vincerà, alla fine, la luce. Se vorremo interpretare la nostra vita come una liturgia, potremo accettare che tutti i colori che la tingono danno gloria a Dio, e rivelano la nostra inalienabile dignità. (Alessandro De Medio – Sir)          

Quaresima e Coronavirus: domande per la Chiesa

3 Aprile 2020 - Ieri abbiamo potuto rinvenire alcuni degli importanti interrogativi che la crisi del coronavirus rivolge alla società civile; a maggior ragione questa situazione interpella la Chiesa, che per sua natura è chiamata all’ascolto obbedienziale di Dio che parla attraverso gli accadimenti, e deve (e può) rispondere sapienzialmente all’enigma del male guardandolo con occhi pasquali, così da far fare all’umanità un passo avanti in più verso il Regno. Anche in questo caso le domande sorte sono in ordine sparso, né pretendono di essere tutte le domande che i drammi di questi giorni sottopongono a pastori e fedeli: sono quelle che il sottoscritto si è visto più volte sbattere in faccia dalla vita strana di queste settimane, scoprendo poi di non essere stato il solo prete a porsele. Confessione al telefono o in videoconferenza: perché no? Tale questione, che pertiene alla teologia sacramentale, non è stata chiusa né definita; d’altronde, è solo oggi (e non certo cinquanta-sessant’anni fa) che si sta comprendendo il significato reale, il vero potenziale, della comunicazione a distanza. Il riferimento all’invalidità per difetto di presenza non regge, perché mentre una lettera scritta non risponde alla natura della comunicazione diretta e auricolare tra due persone, una telefonata o una videoconferenza sì – cose queste che, ovviamente, non si potevano immaginare nel XVI secolo. Né la questione è paragonabile alla burla dell’app per confessarsi senza il prete, vera e propria bufala girata in rete e nata dall’equivoco su un’applicazione ideata per prepararsi alla Confessione. In realtà non esistono argomenti decisivi contro la validità di una Confessione attraverso un mezzo telematico, tramite il quale sia il confessore che il penitente potrebbero comunicare vedendosi, o almeno sentendosi, in tempo reale. Non si parli di segretezza, per favore, soprattutto se pensiamo a certi confessionali che nelle nostre chiese semivuote fanno quasi da cassa di risonanza! Ma poi, pensiamoci bene: se uno mi fa un torto, e mi telefona afflitto chiedendomi perdono, e io gli rivolgo parole di misericordia, lì succede qualcosa di reale o no? E Dio, che è puro e infinto Spirito, dovrebbe invece essere vincolato a uno spazio fisico determinato? E i sacerdoti che alla GMG concelebrano con il Papa da centinaia di metri di distanza, se non chilometri, quando dicono “Questo è il mio Corpo” consacrano validamente? Ogni Sacramento richiede livelli diversi di concretezza fenomenica: altro è un Sacramento che richieda il venire immersi nell’acqua, il venire unti, o il mangiare, altro quello che richiede solo l’ascolto e la parola. Lungi dal voler optare categoricamente per una tesi, e rimanendo fedeli all’attuale divieto, speriamo tuttavia che questa sottolineatura che la Chiesa stessa sta facendo dei benefici (almeno larvati) della partecipazione in streaming alle funzioni durante la quarantena riapra la questione – tanti infermi sicuramente ne gioverebbero! Quale funzione effettiva di vicinanza e consolazione possono esercitare le parrocchie (e i parroci) in questa crisi? Il principio di sussidiarietà, per il quale se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione, è alla base dello Stato di diritto, ed è un’invenzione della Chiesa Cattolica, sancito dalla Rerum novarum di Leone XIII. Da un lato è senz’altro molto positivo vedere una nuova generazione di Vescovi e Cardinali in prima linea, a perenne disposizione per celebrazioni in streaming, predicazioni in rete, Messe, ecc. Questo mostra e conferma una Chiesa in uscita che mantiene uno stile vitale e comunicativo. Speriamo solo che questo imponente dispiegamento di media da parte della gerarchia non scoraggi, ma anzi stimoli, un contributo più specifico, locale, incarnato e “artigianale” da parte delle parrocchie. In qualche modo anche “in streaming” torna la questione decisiva del modo migliore in cui i diversi gradi della gerarchia possano e debbano interagire per custodire la comunione e la specificità di funzione. La formazione spirituale dei fedeli laici va di pari passo con la loro formazione sacramentale? Il fanatismo espresso da non pochi cattolici, di cui alcuni anche piuttosto in vista, che pretenderebbero in piena pandemia di fare come se nulla fosse cambiato, e vorrebbero partecipare alla Messa e ricevere i Sacramenti senza limitazioni, solo in apparenza è fede. Il vero credente obbedisce alla vita, e a Dio tramite la vita, e sa accogliere nella propria esistenza il deserto tanto quanto la Terra promessa, il Sabato santo tanto quanto la Domenica di Pasqua – perché sa che in effetti è attraversando il deserto che si arriva alla Terra promessa, e che è passando per il Sabato che si arriva alla Domenica. In realtà queste pretese, piene di enfatico autocompiacimento, fanno sospettare che ci siano molti cattolici che, se non “fanno” atti religiosi in chiesa, messi a tu per tu con Dio dentro casa loro, molto semplicemente non saprebbero cosa dirGli; persone magari di buone intenzioni, ma del tutto ignare di vita interiore, discernimento, contatto con la Parola, esami di coscienza, ecc. cioè di tutto quello che dovrebbe dare intelligenza autenticamente spirituale della liturgia, che senza di esse può facilmente ridursi a cerimonia esteriore che non coinvolge (se non esteticamente) né compromette. Questa crisi sta mettendo in luce la necessità urgente di una riformulazione della proposta formativa offerta ai fedeli, che non si limiti alla sacramentalizzazione, ma consegni veri e seri strumenti di vita spirituale e di discernimento sin dalla più giovane età, così da radicare nei cristiani la consapevolezza del loro sacerdozio universale derivante dal Battesimo. Queste sono alcune delle domande più urgenti che questa crisi piena di stimoli spirituali e pastorali ha messo nel cuore di tanti di noi poveri preti, che in questi giorni del coronavirus stiamo lottando per essere “frati Cristoforo” e non “don Abbondi”. (Alessandro De Medio – Sir)

Quaresima e Coronavirus: domande per la società civile

2 Aprile 2020 - La storia di Lazzaro, e del Dio-uomo che è sceso nella fossa per salvarlo, ci accompagna alle soglie della Grande Settimana, in cui vedremo che Gesù non si limita a salvare il suo amico, ma andrà ancora più giù, fino agli inferi stessi, e da lì poi tirerà fuori tutti risorgendo. Volge al termine anche il tratto di cammino che abbiamo percorso insieme in questi giorni tanto strani della Quaresima duemilaventi, la Quaresima del coronavirus. Negli ultimi tre contributi che avrò il piacere di condividere con voi prima di congedarmi, vorrei mettere nero su bianco alcune delle domande che questa crisi solleva, spero non solo in me: in fondo, in questi giorni abbiamo tutti molto più tempo per pensare, no? Non pretendo di essere esaustivo, né particolarmente originale: sono semplicemente alcune domande che un povero parroco di un quartiere popolare vuole condividere con chi ha avuto la pazienza di seguirlo fin qui, domande che interpellano varie realtà che nella nostra vita si compenetrano. Oggi in particolare vorrei esprimere alcuni degli interrogativi che la pandemia del coronavirus solleva circa la società civile, quella del nostro Paese e dell’Europa intera – e la prima è proprio sull’Europa. In cosa consiste l’Europa unita? Questa crisi sembra avere messo in ginocchio il mondo intero nel giro di due mesi, e ha svelato una sostanziale mancanza di empatia tra le nazioni, o almeno tra i loro capi. Come su una nave vittima di un virulento incendio, ogni capo di stato ha gridato “Si salvi chi può!”, abbandonando qualunque pretesa di collaborazione. Forse sarebbe il caso di rispolverare un tema all’epoca tanto caro al Papa emerito, e chiedersi in cosa consista davvero un’Europa disossata delle sue radici cristiane, perché sembra che, almeno a livello di umanità e comunione, ne rimanga ben poco. La recessione economica a cui andiamo incontro sarà davvero solo un male? Chi ritiene che, passata la pandemia, si tornerà più o meno come prima non può non strapparci un sorriso di compassione. In realtà la vera crisi sta per iniziare, e ovviamente sarà quella economica. Ma in tutto ciò dobbiamo chiederci se questo non potrebbe portare a un’inevitabile scelta di abbassare il costo della vita, di optare per una forse rassegnata ma salutare devolution a livello planetario (almeno nazionale!). C’è la speranza che la gente si stia abituando ad accontentarsi di qualcosa in meno, che abbia assaporato una maggiore sobrietà; tanti negozianti, mossi dalla solidarietà, stanno facendo a gara nel supporto gratuito con i beni di primaria necessità. Chissà cosa potrà nascere da tutto questo, se avremo un po’ di coraggio. La libertà civicamente intesa può corrispondere all’arbitrio individuale? Capisco la difficoltà di tanti esponenti delle Forze dell’ordine, nel dover arginare gli immaturi e i furbetti che in questo periodo si stanno comportando da veri untori menefreghisti: in un regime totalitario come la Cina uno che non rispetta le regole lo fucili, qui la situazione è un po’ più complessa – per fortuna. Cionondimeno, filmati girati per ogni dove nei social mostrano che non pochi sia tra i giovani che tra i vecchi sembrano avere quasi completamente perso la cognizione del rispetto verso le regole per tutelare il bene comune, e verso chi queste regole prova a farle rispettare. Carabinieri insultati e vigili aggrediti solo perché stanno provando a proteggere noi da noi stessi non possono non interrogarci sulle effettive possibilità che queste persone coraggiose e malpagate hanno di compiere efficacemente il loro lavoro. Un buonismo svirilito e irenista diventa troppo facilmente l’humus dell’arbitrio dei violenti e dei furbi. La scuola funziona? La pandemia fa saltare la routine, e salta la scuola. Il caos più totale. C’è una minoranza di insegnanti composta da veri professionisti della cultura e della didattica, al passo con mezzi e metodi di comunicazione, capaci di trasmettere vita e contenuti anche in situazioni critiche come questa: un esempio tra tutti, lo straordinario Alessandro D’Avenia, che da quando siamo in quarantena tiene ogni giorno un corso tramite i social per i suoi studenti e non solo, oltre che essere uno scrittore di fama internazionale. C’è poi, dall’altro lato, una marea innumerevole di poveri professori semplicemente fuori fase, fuori tempo… forse fuori dalla propria vera vocazione: incapaci di contattare davvero gli altri in una videoconferenza, arretrati circa l’uso della tecnologia, affaticati fino all’apatia dalla burocrazia meta-scolastica. Per non parlare delle strumentazioni obsolete, dei programmi informatici farraginosi e astrusi, del perenne mancato dialogo tra istituzione e famiglie – e per pietà tralascio di sollevare la questione circa i contenuti, evidentemente non correlati al senso della vita e delle scelte che un giovane in crescita è chiamato a compiere. Almeno a livello scolastico, il covid ha gridato che il re è nudo. Le persone sono formate al bene comune? Questa domanda si ricollega alle due precedenti, ma vuole essere più specifica. Chi si sta prendendo la briga di insegnare alle nuove generazioni cosa sia il bene comune, e come vada tutelato da tutti e da ciascuno? La scuola sicuramente no, anche perché se pure esistesse ancora la materia “educazione civica”, l’attuale metodo scolastico la ridurrebbe senz’altro (come fa con tutto il resto) a dati mnemonici e noiose questioni storico-giuridiche. La famiglia? E chi verifica che questa formazione nella famiglia, che è la cellula primaria dello Stato, avvenga davvero, se non le si forniscono i mezzi? Ma poi siamo sicuri che ci si intenda su cosa sia il bene comune? Quali sono le situazioni o i punti di riferimento su cui può convergere la cura dei singoli e dell’insieme, vedendo in essi l’oggetto specifico del bene comune? L’attuale classe politica, al di là degli schieramenti, dà ai cittadini esempio specchiato di perseguire anzitutto e in ogni caso il bene comune? Domande sparse senza pretesa di sistematicità, ispirate dalla speranza che nella crisi potremo riscoprire una condivisa responsabilità per la vita e il benessere di tutti. (Alessandro De Medio – Sir)

Quaresima e Coronavirus: il Dio che ha rispetto più di noi della nostra realtà

1 Aprile 2020 - Dopo la doverosa digressione di affetto e di preghiera di ieri, in cui comunque non ci siamo discostati dal Vangelo di Lazzaro che ci sta guidando in questi giorni, torniamo a meditare su questo brano così importante, affinché esso rischiari ancora gli aspetti più luttuosi di questa Quaresima duemilaventi. Perché di aspetti luttuosi purtroppo ce ne sono, e non pochi, e non per pochi. Come abbiamo asserito più volte, essa ci offre senz’altro spunti fecondi per la conversione e la maturazione, ma questi punti di luce sono tali proprio perché lo sguardo pasquale riconosce le tenebre, e non ha paura di attraversarle con il Risorto. E allora, dopo avere contemplato l’altro ieri il Signore che affida un amico deceduto al Padre, confidando che da Lui lo avrebbe riavuto, oggi vogliamo invece osservare come reagisce la gente dinanzi a questo Dio che piange davanti alla misera sorte dell’uomo fuggito dal suo amore e finito nella tomba. “Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: ‘Guarda come lo amava!’. Ma alcuni di loro dissero: ‘Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?’” (Gv 11, 35-37). Se la prima considerazione ci commuove, perché non finiamo mai di stupirci di un Dio che ci tiene davvero all’uomo, la seconda non ci sorprende. L’uomo polemizza con Dio, lo rimprovera di preferire l’empatia con la povertà dell’uomo all’attestazione della sua onnipotenza. Queste parole ce ne ricordano altre: “Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: ‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!’” (Lc 23, 39). C’è poco da fare: all’uomo di carne interessa più il potere che l’amore. Gli interessa una soluzione, più che la comprensione. Il gioco è molto sottile, e profondamente tentatorio: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane” (Mt 4, 3). Per tutta la sua vita terrena, Gesù sarà aggredito dalla tentazione di rinnegare la sua incarnazione, così da risolvere sbrigativamente il vuoto violando la realtà. Ma chi pensa a questo modo, e vorrebbe che anche Dio pensasse così, non disprezza solo la logica dell’incarnazione: disprezza anche se stesso, e la propria povertà. Non si guarda a Dio che vuole abbracciare e fare propria la nostra miseria, fino a scendere con noi nel sepolcro, non interessa più la nostra effettiva condizione bisognosa d’amore, ma ci si riduce a voler evadere dalla realtà per una situazione idilliaca e problematica. Siccome la croce è scomoda, si cercano in Dio pretesti per scenderne… solo che Lui non ci sta. Perché Lui sa che qui si cela la trappola: se Cristo avesse affrontato le crisi della vita umana, e la sua stessa Croce, a “colpi di bacchetta magica”, l’incarnazione sarebbe stata vanificata, e noi non saremmo stati salvati, e la morte sarebbe ancora il nostro destino finale. Il Dio dei nostri deliri di onnipotenza produrrebbe una stirpe umana sana, smagliante, invincibile – ma in ogni caso destinata un giorno a morire, e lì finire. Perché la carne è carne, e se si punta solo su di essa e sulla sua salute, ci si dimentica che prima o poi essa deve comunque decomporsi. E invece, proprio per il fatto che Cristo ha preferito stare con noi come noi fino in fondo, fino al fondo squallido e tenebroso della tomba, da lì poi ha potuto tirarci fuori risorgendo. Noi vorremmo un Dio che ci riportasse indietro (a quando eravamo sani, giovani, forti) o avanti (a quando potremmo essere tranquilli, ricchi, spumeggianti), ma il Dio vero è il Dio del presente (e infatti è Presenza), e dal presente non vuole semplicemente portarci avanti, tirando a campare – vuole portarci oltre, vuole farci fare Pasqua. Non ci vuole dare qualche annetto in più, vuole darci l’infinito e l’eterno. I miracoli che Cristo compie non sono prodigi problem-solving a costo zero: le guarigioni e i segni che ha compiuto sono stati possibili perché ha dato via la sua, di vita, facendola fluire in noi. Senz’altro, nel Corpo mistico in cui siamo innestati questa vita continua a fluire, e dunque Egli continua al presente a operare guarigioni, liberazioni, resurrezioni… ma tutti questi segni, che servono a confermare la verità del Vangelo, sono solo palliativi temporanei, perché chi è risanato si riammalerà, e chi è stato resuscitato dovrà comunque morire (tant’è che anche il povero Lazzaro sarà ucciso – cfr. Gv 12, 10). Una sola è l’opera decisiva e definitiva del Figlio: la vittoria sulla morte attraverso la Pasqua, anticipata in questa vita, in chi crede, dalla vittoria sulla paura della morte che, finché rimane operativa, sarà la sorgente oscura di tutto ciò che in noi è menzogna, violenza, disperazione. È dalla paura della morte che nascono le nostre pretese e le nostre rimostranze verso di Lui, anche quando ci diciamo credenti. Dio, accompagnandoci passo passo nel nostro cammino, vuole molto semplicemente educarci a non avere paura: a non avere paura della nostra debolezza, e neppure della morte, perché Lui è con noi sempre, e un giorno ci aiuterà a spiccare il grande balzo, e a fare Pasqua nel suo Regno. (Alessandro Di Medio – Sir)  

Quaresima e Coronavirus: “Signore, ecco colui che tu ami è malato”

31 Marzo 2020 - “Signore, ecco colui che tu ami è malato.” Il Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, chiamato con grande affetto e semplicità da clero e laici “don Angelo”, ha iniziato con queste parole domenica 29 marzo la sua omelia sul Vangelo della resurrezione di Lazzaro, che da allora sta accompagnando anche la nostra meditazione quotidiana. E oggi noi tutti, fedeli e sacerdoti della Diocesi di Roma, dobbiamo ripetere dolenti, speranzosi e costernati proprio per lui, per il nostro amato Cardinale, queste stesse parole: “Signore, ecco colui che tu ami è malato”. Il virus cieco e alieno che sta flagellando il mondo ha colpito anche lui. C’era da aspettarselo… ah, don Angelo, dove ti ha portato la radicalità della tua sequela, la tua incuria per te stesso? Proprio un paio di settimane fa gli avevo scritto un messaggio, pregandolo di avere cura di sé, aggiungendo però che secondo me non si stava affatto tutelando. D’altronde, che ci si poteva aspettare da un uomo così libero da se stesso? Tutti quelli che, come il sottoscritto, hanno avuto la fortuna di conoscerlo da prima che fosse “promosso”, hanno tirato un sospiro di sollievo quando, divenuto cardinale, hanno visto che don Angelo è rimasto il don Angelo di sempre (ma lo sapevamo già): un uomo libero, sorridente, paterno, scherzoso, perennemente disponibile – una persona concreta e solida, capace di stare al cento per cento nelle situazioni in cui Dio lo ha messo, tanto al vertice del Vicariato quanto in una cucina in cui prepara con le sue mani la cena (dall’antipasto al dolce) per i suoi figli spirituali innumerevoli volte accolti alla sua mensa – e lì non di rado ripescati dal male. Ascolta, Signore, la nostra preghiera, perché la rivolgiamo a Te per colui che tu ami, per un uomo che, essendo divenuto maestro per molti, è comunque sempre rimasto tuo discepolo. Siamo certi, Signore, che Tu non resterai imperturbato dinanzi alla nostra preghiera. Sappiamo che questa nostra preghiera confluisce nel fiume ininterrotto di analoghe preghiere che stanno in queste settimane salendo a Te da parte di tutti coloro che hanno una persona cara colpita dalla malattia. Non vogliamo corsie preferenziali, come non le vuole senz’altro don Angelo… sappi però, Signore, che anche per noi fedeli della Chiesa di Roma si tratta dello stesso tipo di dolore degli altri: abbiamo una persona cara, abbiamo nostro padre, colpito dalla malattia e ricoverato in ospedale, e noi, come tutti quelli a cui sta capitando una cosa del genere, non possiamo non pregarti solleciti e speranzosi, non possiamo fare finta di non tenerci al tuo intervento salvifico in favore di nostro padre don Angelo. Crediamo anche, Signore, che Tu opererai sempre e comunque ciò che sarà a maggior gloria del Padre e per il nostro maggior bene. Non vogliamo svendere la fede di cui ci hai fatto dono solo perché ora siamo afflitti, né vogliamo ridurre la nostra speranza a una trattativa magica mossa dalla paura che prova l’animale-uomo, l’uomo naturale privo di attese escatologiche. È solo che, Signore, in noi abbandono in Te, e speranza (forse un po’ infantile) che tutto andrà come vorremmo per il nostro amato don Angelo, si intrecciano, e mentre siamo certi che tutto andrà secondo la tua volontà amorosa, la povera carne del nostro cuore trepida, auspicando, forse troppo banalmente, in una guarigione. …mentre la mia mente e il mio cuore si contorcono per arrivare a una conclusione adeguata, mi arrivano, serene e rinfrescanti, le parole con cui don Angelo ha concluso quell’omelia di domenica scorsa: “Noi siamo nella vita, ne siamo certi, e da qui sgorga la fede. Uniamoci a tutti coloro che credettero in Lui. Vogliamo vivere con Lui, immergerci nel suo Spirito, perché chi vive in Lui e crede in Lui non morirà in eterno”. Va bene, don Angelo, ancora una volta voglio fidarmi di te, come quando ero seminarista e tu mi guidavi come un padre; provo ad assumere il tuo sguardo su tutta la vicenda di questi mesi, e sulla tua in particolare e, mentre ci provo, sento che non ho più paura. (Alessandro Di Medio - Sir)  

Quaresima e Coronavirus: ritrovare i nostri cari defunti a tavola con Lui

30 Marzo 2020 - Oggi vogliamo rimanere nell’eco luminosa del Vangelo che ci è stato donato dalla liturgia di ieri, la cosiddetta “domenica di Lazzaro”, in cui Gesù inizia il corpo a corpo con la Nemica sua e di tutto il genere umano, la morte. Desideriamo attingere ancora a qualcuno dei suoi numerosi livelli di profondità, e trarre un po’ di ristoro spirituale mentre continuiamo ad attraversare il deserto della Quaresima duemilaventi. Tra le tante luci che questo Vangelo iniziatico ci offre, qui senz’altro è data un’importante chiave di lettura per rischiarare e lenire il dolore della perdita dei propri cari – tema purtroppo molto attuale in questi giorni di pandemia, più di quanto ci rassicurerebbe pensare. Pertanto, mentre ci avviciniamo alla Pasqua, che sola potrà dischiudere fino in fondo il mistero della morte e convertirlo, per qualche giorno ci soffermeremo a contemplare come il Dio che si mostra nel suo Figlio fatto uomo risponde alla sfida della morte, del morire, e del lutto. Il primo punto che ci viene mostrato è il modo in cui Cristo affida al Padre il suo amico morente: “Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: ‘Signore, ecco, colui che tu ami è malato’. All’udire questo, Gesù disse: ‘Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato’. Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava.” (Gv 11, 3-6). Tu o io ne saremmo stati capaci? Saremmo stati in grado di affidare al Padre una persona amata in pericolo? Gesù, che sa vedere il fine ultimo di tutte le cose (e vuole insegnarci a fare altrettanto), accetta la tensione dell’impotenza, della distanza, dell’ignoto: affida Lazzaro alle mani del Padre. E il Padre Lazzaro glielo restituirà. “Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: ‘Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato’” (Gv 11, 41-42). È il Padre che resuscita Lazzaro; Gesù, come vedremo nei prossimi giorni, gli dà piuttosto la forza di uscire dal sepolcro e di mostrarsi al mondo. Il Padre ridà a Gesù Lazzaro, come aveva ridato Isacco ad Abramo (cfr. Eb 11, 19: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo”). Il Padre ridà a Gesù Lazzaro, perché Gesù glielo aveva affidato, e nessuno può strappare dalle mani del Padre chi gli viene affidato (cfr. Gv 10, 29). Mettiamo nelle mani di Dio i nostri cari che non ci sono più: il Padre ce li donerà di nuovo. In che modo Dio ci restituirà le persone che gli abbiamo affidato per sempre? Facendoci sedere a mensa con loro nel suo Regno. Il capitolo seguente di Giovanni ci mostra una calda scena familiare, un ritrovo conviviale tra persone che si vogliono bene, e tra costoro c’è anche Lazzaro: “Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali” (Gv 12, 1-2). A quella mensa familiare e serena dimenticheremo separazioni e lamenti, e gusteremo la gioia di una comunione che non era finita, ma solo temporaneamente velata. Una gioia semplice e spontanea, come quella dei bei pranzi delle feste in famiglia come solo noi italiani sappiamo viverli (liberati però in quel giorno da ogni traccia di paura e meschinità). Una festa di cui quelle attuali non sono che ombre tenui e allusive. Se quest’anno ci fosse tolta la possibilità di pranzare a Pasqua con i nostri cari, a causa della quarantena o per motivi più dolorosi e drastici, non cessiamo di ricordare pieni di speranza che niente potrà toglierci la gioia di ritrovare un giorno i nostri affetti nel grande pranzo della Pasqua eterna nel Regno. (Alessandro Di Meo – Sir)

Quaresima e Coronavirus: faccia a faccia con il nemico

29 Marzo 2020 - Ancora una volta, come già domenica scorsa, siamo invitati a leggere il male con uno sguardo finalistico, e non causale: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11, 4). Verrà un bene dal male, una luce dall’oscurità – ma questo non significa che ciò sarà semplice, o gratis. Smentendo del tutto quelli che immaginano una divinità pagana che manda strali per punire, oggi vediamo un Dio che, anche se sa che vincerà, sta comunque male per come (e dove) è finito l’uomo, perché “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (Sap 1, 13). “Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: ‘Dove lo avete posto?’. Gli dissero: ‘Signore, vieni a vedere!’. Gesù scoppiò in pianto” (Gv 11, 33-35). Il Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima ci mostra un Dio che piange per l’uomo che muore, perché non avrebbe mai voluto per lui un destino triste e squallido come la fossa, ma anche che piange per quelli che restano, per il loro lutto, per la loro pena, per la loro fatica di andare avanti. L’Incarnazione comporta questo: Dio ha accettato di vivere tutte le dimensioni della fragilità umana. Dio sa, perché ha accettato di assumere in sé tutto questo, cosa si prova a perdere una persona cara, a non averle potuto dire addio, a non aver potuto nemmeno assistere al suo funerale… Dio sa, perché l’ha vissuto, cosa sta provando tanta gente in questi giorni strani e tristi, i giorni del coronavirus. Lo sguardo pasquale, che riconosce il bene nel male, è autentico se prende sul serio il male: questa quarantena non è una vacanza, è l’imposizione dovuta a una situazione calamitosa e per molti mortale. Potremo andare oltre il male e compiere il passaggio pasquale, solo se accettiamo di guardare in faccia il male con serietà – altro che corsette e flash mob dai balconi! Solo se accettiamo di farci carico sul serio di questa situazione potremo contribuire a convertirla con l’amore, un amore che, come quello di Cristo sulla Croce, ci richiede e richiederà sacrifici. Gesù l’ha pagata cara, la salvezza dell’uomo: la morte gli presenterà il conto per quest’uomo che Lui le strappa, e Lui questo conto lo pagherà sulla Croce. Niente facili supereroismi: amare a costo zero non sarebbe stato amare. Teniamolo presente nei prossimi giorni, se dovesse finire la Quaresima ma non la quarantena. Per convertire la morte in vita occorre pagare un conto sulla propria pelle, e questo non ci deve turbare, perché è invece il segno della nostra vera grandezza, la nostra somiglianza con Dio: noi, come Lui e da Lui, abbiamo il potere di dare la vita, nel duplice significato di dare via la nostra perché qualcun altro viva. (Alessandro De Medio – Sir)

Quaresima e Coronavirus: intercessori per un popolo di dura cervice

27 Marzo 2020 - Più volte abbiamo rilevato come in questa Quaresima 2020 liturgia e vita si stiano intrecciando e rispecchiando con un’evidenza e una fecondità ineguagliabili. La Parola e i riti conferiscono a queste nostre giornate un colore profondo e vivido, un significato pieno di speranza, e d’altro canto il tempo della quarantena e della malattia ci sta permettendo di liberare la liturgia dal segmento “religioso” dei nostri schemini, riversandola nella vita concreta, in cui può finalmente incarnarsi. Ogni giorno la Parola che la liturgia ci dona sembra detta per noi, e se questo vale (dovrebbe valere) sempre, è vero più che mai oggi, perché quando le tenebre si fanno più fitte, è lì che luce del Verbo splende più vitalmente. Davvero, ogni giorno le letture che ascoltiamo (forse in streaming) nelle Messe di questa Quaresima sembrano scritte or ora per accompagnarci in questo cammino al contempo penoso e catartico. È il caso, tra i mille, della Parola che abbiamo ricevuto ieri, e che illumina quanto proprio oggi ci accingiamo a vivere come Chiesa, mossi dall’appello del Papa a pregare nuovamente insieme questa sera, dalle 18. Nella prima lettura di ieri, tratta dal libro dell’Esodo (Es 32, 7-14) Dio si mostra a Mosè come esasperato dall’infedeltà del popolo, e si accinge a sterminarlo: “Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori”. Ah, quanto sarebbero azzeccate queste parole, rivolte al popolo italiano di questi giorni, che si sta scoprendo popolo di corridori, di cinofili, di massaie (quasi sempre stranamente uomini di una certa età) che ogni giorno hanno spesa da fare… un popolo che fa tanta fatica a obbedire all’austerità della quarantena, che scalpita, che inveisce contro le Forze dell’ordine, che fa il furbetto – un popolo che, se dipendesse dal suo modo di rispondere alla crisi, meriterebbe il flagello del contagio in tutta la sua forza devastante. Eppure, per nostra fortuna Dio non la vede così. Nel suo dialogo acceso con Mosè, Dio non è arrabbiato, per il semplice fatto che Dio è immutabile nel suo amore. Egli è il Fedele: non è volubile, non subisce variazioni emotive, non è influenzabile e irritabile dalla piccineria dei peccatori. Dio piuttosto provoca Mosè ad assumersi il suo compito, la sua missione di intercessore. Dio pungola Mosè, inducendolo a vedere dove finirebbe il popolo se Dio avesse le stesse strettezze di cuore del popolo, così che Mosè si voti a impetrare misericordia, e in questo atteggiamento di intercessione rimanga per tutta la vita e oltre. Rispetto a quei pagani travestiti da cristiani (e qualche volta anche da preti) che indentificano questa pandemia con una punizione divina, attribuendo così a Dio le caratteristiche delle divinità pagane, appunto, noi siamo chiamati a raccogliere e a metterci addosso i panni di Mosè e, stando tra l’alterità di Dio che è alieno al peccato e le costanti immaturità del popolo che Lui vorrebbe amare anche quando questo non vuole farsi amare, dobbiamo intercedere. Intercedere per tutti gli altri, anche e soprattutto quando gli altri non ne sono minimamente capaci. Dio ci darà la forza di pregare per noi e per tutti gli altri, se accetteremo che questa è la missione che ci deriva dall’essere sin dal Battesimo membra del Corpo dell’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che è la prova vivente e vittoriosa della misericordia di Dio su qualunque presunta giustizia retributiva. Alessandro Di Modio

Quaresima e Coronavirus: l’amore non trova ostacoli

26 Marzo 2020 - La consistenza degli obiettivi che ci diamo nella vita può essere verificata dalla seguente domanda: cosa mi potrebbe impedire di realizzarli? Quello che si può realizzare solo se le condizioni sono ottimali, non vale la pena realizzarlo: gran parte delle nostre energie se ne andrebbe per mantenere ottimali le condizioni; questo è, ad esempio, il problema di chi cerca il potere: poi devi passare la vita a cercare di mantenerlo, e non hai mai pace. Tra le varie cose che questa quarantena, con tutto il suo contorno di delimitazioni e argini, ci può insegnare, c’è senz’altro il fatto che si può sempre continuare ad amare. Niente può ostacolare o impedire l’amore, se questo si accende nel mio cuore e lo scelgo liberamente. Posso essere murato dentro casa mia da solo, eppure posso amare; anzi, forse per qualcuno questi limiti stanno servendo a scoprire che si può amare di più. Naturalmente sto continuando anche in questo periodo i colloqui di direzione spirituale: è cambiata la forma (ora telefonica o video-telefonica), ma non cambia la sostanza, e grazie a essi sto raccogliendo bellissime testimonianze su come si possa amare in quarantena. Una ragazza ha preso a telefonare a vari anziani che conosce, e che prima ovviamente non aveva mai il tempo di sentire; mi ha detto che stando da sola ha capito che forse a loro avrebbe fatto piacere sentire una voce amica in questo tempo di reclusione spaventata. Un altro ragazzo si è offerto di fare la spesa ai vecchietti del suo palazzo: qui l’ho invitato a maggiore prudenza, perché il rischio che li contagi c’è, ma capisco cosa lo anima. Un’altra persona visita in video-chiamata una disabile che prima andava a trovare, e insieme passano un po’ di quel tempo altrimenti troppo lungo e vuoto. Una mia amica è riuscita, mediante un sistema di corrieri attivati per tempo, a far recapitare al suo fidanzato distante, che non vede da settimane, la torta per il giorno del suo compleanno, e poi insieme gli abbiamo fatto una videochiamata al momento delle candeline. Una famigliola di Milano si è messa a fare il pane per tutto il condominio, anche se mi hanno detto costernati che pochi si sono fidati di accettarlo. C’è chi sta ideando corsi e tutorial per intrattenere in modo qualificato; chi canta ai compleanni dai balconi; c’è chi prega per quelli che conosce e per quelli che non conosce. Ci sarebbero tanti esempi da fare, una costellazione di gesti piccoli e grandi d’amore, perché l’amore, quando è vero, è creativo, e si trova sempre una strada: alcuni ostacoli li attraversa, altri li bypassa, altri ancora li trasforma in risorse per amare di più. Per tornare al quesito iniziale, sembra proprio che l’unico obiettivo che valga la pena darsi in questa vita sia amare; l’amore è l’unico vero potere, perché è l’unica cosa che possiamo attuare sempre e comunque se lo vogliamo, “in modo che”, scrive il già citato sant’Ignazio di Loyola, “non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l’onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre di più al fine per cui siamo creati”. Che è amare, appunto. Se non ami, non dare la colpa alla quarantena: le porte che devi aprire non sono quelle di casa tua, ma quelle del tuo cuore. (Alessandro Di Modio – Sir)

Quaresima e Coronavirus: i dettagli dei figli

24 Marzo 2020 - Da ieri stiamo provando a vedere che cosa sta succedendo, che cosa può succedere di bello nelle famiglie in questo periodo di coabitazione costante forzata. “Fare di necessità virtù” è un po’ riduttivo: c’è qui, piuttosto, la possibilità di riscattare una situazione molto pesante facendone il principio di un modo nuovo di stare insieme, e di guardare alla vita. Vorrei partire da quanto una giovane madre mi diceva proprio l’altro giorno, parlandomi della quarantena del suo nucleo familiare. Lei e il marito sono genitori di una bimba nata pochi mesi fa, ed entrambi lavorano nell’esercito. La routine implacabile dei turni di servizio è sospesa, e lei si ritrova a svolgere da casa il lavoro che prima faceva in ufficio; mi ha confidato sorpresa come ora le sia possibile vedere la figlia “nel dettaglio” (ha usato proprio questa espressione): i dettagli della sua crescita, del suo progressivo affacciarsi al mondo; i dettagli di come mangia, e di come dorme, e di come man mano prende coscienza del mondo. Non che prima non fosse attenta o non la osservasse, si capisce, ma ora le è data la possibilità di una continuità ininterrotta dell’esperienza di maternità, in cui accompagnare senza interruzione questa nuova piccola vita mentre sboccia e si evolve. Mi fa strano scrivere queste parole… l’esperienza ovvia, quasi automatica, che in epoche precedenti toccava in sorte a ogni madre, oggi va riconquistata mediante accadimenti che costringono i genitori a ridestarsi dall’automatismo del tram tram, e aprono loro un mondo: il mondo dei dettagli dei loro figli. Il ricordo passa da questa giovane madre sorpresa a un padre di mezza età. Faceva parte di un gruppo di adulti che guidai in un ritiro sui novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso), e quest’uomo, buono e serio, quando ciascuno fu chiamato a condividere con gli altri che forma, che metafora profonda, immaginava per sé della Vita eterna, scoppiando a piangere disse: “Io immagino me che potrò vedere tutte le recite dei miei figli che ho perso a causa del lavoro, mentre crescevano”. La vita è l’insieme degli atti che la compongono, come una costellazione: troppe cose di essa si spengono nel buco nero di un dovere che, visto da vicino, non sempre significa granché, se progressivamente ci sgancia dalle relazioni per cui vale la pena vivere – e non è un caso che uno dei cinque rimpianti più comuni a tutti i moribondi, a detta di Bronnie Ware, un’infermiera dedita alle cure palliative che li ha raccolti negli anni del suo servizio, sia quello di avere lavorato troppo, perdendosi ampi capitoli della propria storia familiare, della vita dei propri affetti. Questa pandemia che ci ha fermati e rinchiusi ci sta dando lezioni severe e importanti sul valore che dobbiamo riscoprire nella frequentazione dei nostri cari, troppo spesso incrociati di sfuggita nella vita ordinaria: la lezione di un figlio che ora puoi vedere nel dettaglio della sua giornata di bambino, anziché delegarlo alle agenzie suppletive di sempre (scuola, sport, parrocchia, ecc.); la lezione di un anziano che muore senza che tu possa nemmeno salutarlo, e che magari non passavi a salutare troppo spesso quando potevi. Lezioni sull’inizio e sulla fine, per non parlare di quelle che riguardano tutto ciò che ci passa in mezzo. Speriamo di imparare qualcosa. (Alessandro Di Medio - Sir)

Quaresima e Coronavirus: scoprirsi in difficoltà dentro le mura di casa

23 Marzo 2020 - In queste settimane stiamo cercando di guardare alla crisi in cui versiamo con uno sguardo pasquale, uno sguardo capace di prendere il negativo e di portarlo oltre, riempirlo della luce della speranza che viene dell’amore di Dio per noi. È quanto il Vangelo della quarta domenica di Quaresima, appena trascorsa, ci invita a fare: aprire gli occhi a partire dall’amore di Dio per noi, per cercare negli eventi che ci troviamo a vivere non le colpe e le cause, ma il fine, per arrivare al fine ultimo, che è la gloria di Dio, la vittoria del suo amore e della sua bellezza nel mondo. Ecco perché, senza voler minimamente dimenticare che questa in cui ci troviamo è una brutta storia, da cristiani possiamo vedere i fiori che spuntano dal letame – d’altronde, la “letizia” è la capacità appunto di vedere del letame (la radice “let-”è la stessa) la fecondità piuttosto che lo schifo, no? Tra i tanti fiori che in questi giorni stiamo raccogliendo, non possiamo ignorare le bellissime alchimie di vita che stanno avvenendo nelle famiglie italiane, dopo già un paio di settimane di quarantena. Ci soffermeremo qualche giorno sulla situazione della famiglia in questi giorni, perché vale la pena cogliere le varie sfaccettature di una situazione anomala, eppure, se ci si pensa, così teoricamente naturale, come il fatto dei membri di una famiglia che stanno sempre insieme. E invece no. I genitori odierni, per lo più costretti abitualmente a situazioni lavorative totalizzanti che non risparmiano più da tempo nemmeno le mamme, generalmente stanno scoprendo di non essere abituati a stare sempre con i propri figli. Sic et simpliciter. Questa scoperta non deve dare la stura a critiche e invettive, quanto piuttosto spingere a domande concrete e intelligenti sulla natura del lavoro oggi, e della progettualità di una famiglia, e di come le due cose (lavoro e famiglia) stanno insieme, o dovrebbero stare insieme. Possibile che ci voglia una pandemia per far sperimentare ai bambini una presenza continuativa nella ferialità dei loro padri? Lo smart working che oggi qui in Italia è una necessità coatta, siamo sicuri di volerlo abbandonare a epidemia finita? Siamo davvero ancora prigionieri di una mentalità lavorativa per cui il padrone deve controllare visivamente e fisicamente i suoi dipendenti per assicurare la produttività? E d’altronde, su tutt’altro fronte: lo smart working, cioè il lavoro da casa tramite computer, visto che è “da casa” ha diritto a prendersi tutto lo spazio possibile della vita privata di una persona, o va disciplinato in confini riscontrabili e dunque rispettabili? Che la scuola si sia trovata impreparata alla crisi è evidente: mi diceva proprio l’altro ieri un mio caro amico psicologo che ogni mattina per “settare” le figlie da casa con la scuola online lui e la moglie richiedono un’oretta circa di operazioni computeristiche a dir poco complesse; possiamo affidare l’educazione a reti wi-fi labili, computer fatiscenti, programmi astrusi che costringono i poveri insegnati a reinventarsi tecnici informatici? Tante domande, e molte altre ce ne sarebbero, che nascono dall’esperienza prevedibile e al contempo inaspettata delle famiglie in difficoltà per il loro trovarsi perennemente riunite in quarantena. Domande che devono scomodarci, e indurci a risposte intelligenti che facciano dell’attuale crisi ben più di una malattia stagionale, ma un vero e proprio passaggio epocale a tempi più lucidi e rispondenti a una vita più umana. (Alessandro Di Medio – Sir)