17 Febbraio 2021 - Milano - Il Piano nazionale di ripresa e resilienza sarà il principale terreno d’impegno del governo Draghi. La bozza fin qui circolata, e ora soggetta a nuova revisione, dedica molta attenzione, meritoriamente, alla questione delle disuguaglianze, alimentando la speranza che gli aiuti europei non servano a tornare all’assetto sociale pre-pandemico, ma incidano sui nodi irrisolti della società italiana. Sviluppo economico e giustizia sociale non sono valori antitetici, ma possono camminare insieme sostenendosi vicendevolmente.
Stranamente però la bozza del Piano commette una dimenticanza. Tra le disuguaglianze che incombono sul presente e minacciano il futuro, insieme a quelle di genere, generazione e territorio, trascura quelle relative all’origine etnica. Mai citate nel documento. L’immigrazione riscuote molta attenzione quando viene considerata a sé stante, in modo sensazionalistico e perlopiù ansiogeno, mentre scompare dai radar quando si tratta di questioni generali del Paese: dalla ripresa al mercato del lavoro alla famiglia. Sta succedendo anche questa volta.
Le disuguaglianze legate all’origine etnica rappresentano invece una delle maggiori sfide alla coesione sociale che i Paesi occidentali si trovano ad affrontare, come ha ricordato in modo emblematico negli Stati Uniti il movimento Black Lives Matter. È ora che ce ne accorgiamo anche in Italia, prima che la situazione degeneri. Senza tenere conto del lavoro non registrato, secondo l’ultimo rapporto ministeriale sul lavoro degli immigrati (2020), i 2,5 milioni di stranieri occupati regolarmente in Italia (10,7% dell’occupazione complessiva: un occupato su 10) si concentrano per il 77,1% in qualifiche operaie, mentre soltanto, l’1,1% figura come dirigente o quadro. A più di trent’anni dall’ingresso dell’Italia nel novero dei Paesi d’immigrazione, il lavoro degli immigrati è ancora definibile con la formula delle 'cinque P': pesante, pericoloso, precario, poco pagato, penalizzato socialmente. I padri e le madri in genere accettano più o meno di buon grado quanto il mercato offre loro, rinunciando a far valere titoli di studio e competenze acquisite. I figli che si affacciano sul mercato del lavoro in numeri destinati a crescere nei prossimi anni sono invece più esigenti e reattivi. Difficilmente si adatteranno a riprodurre l’esperienza dei loro genitori. Purtroppo però non è scontato che arrivino all’appuntamento con il mondo del lavoro dotati delle credenziali necessarie per accedere a un futuro desiderabile.
Alcuni dati relativi alla scuola lo testimoniano. Vorrei richiamare su questo punto l’attenzione del nuovo ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, di cui è nota la sensibilità alle disuguaglianze educative. Il primo dato si riferisce al ritardo scolastico: intorno al 10% per gli studenti di origine italiana, più del triplo per quelli con cittadinanza straniera. Nella scuola secondaria superiore il problema si aggrava: per i ragazzi italiani il dato sale al 20%, per i figli di immigrati supera il 50%.
Un secondo problema riguarda l’abbandono scolastico al termine dell’età dell’obbligo. All’ultimo triennio delle scuole superiori il tasso d’iscrizione degli alunni 'stranieri' si arresta al 65%, mentre per i ragazzi italiani supera l’80%. L’abbandono precoce della scuola raggiunge il 35% tra i giovani con cittadinanza straniera, contro il 15% per quelli che dispongono della cittadinanza italiana.
Un terzo indicatore problematico riguarda la scelta delle scuole superiori. Gli studenti con cittadinanza italiana frequentano in un caso su due un liceo (49%); per gli studenti stranieri questa scelta riguarda poco più di uno su quattro (27%). Al contrario uno su tre (35%) prosegue gli studi in un istituto professionale, contro uno su cinque tra gli studenti italiani (20%). Avviene in altri termini una canalizzazione precoce che li instrada su percorsi meno promettenti per il loro futuro professionale. Questi dati non significano di per sé che ci ritroveremo tra qualche anno con le periferie in fiamme per delusione ed emarginazione. Per una classe dirigente avveduta rappresentano però un campanello d’allarme. Dovrebbero suscitare la consapevolezza che lasciando indietro la popolazione di origine immigrata, tanto lo sviluppo economico quanto la coesione sociale ne risulteranno danneggiati. Vogliamo sperare che la versione definitiva del Pnrr ne tenga conto. Dopo tutto reca il titolo 'Next Generation', la nostra prossima generazione. (Maurizio Ambrosini – Avvenire)
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Ecco l’Italia degli immigrati oltre forzature e dicerie
22 Ottobre 2020 - Milano - L’immigrazione è forse l’argomento che più si è prestato negli ultimi anni alla diffusione di credenze e leggende lontane dai dati effettivi: in genere drammaticamente enfatiche, ripetute con tale frequenza da finire per essere prese per vere, e risolutamente riottose di fronte alle smentite fornite dalle fonti statistiche disponibili. Queste non sono perfette, ma di certo risultano più affidabili delle dicerie un tempo propagate di bocca in bocca, ora divulgate mediante i social media, e anche cavalcate da chi ha interesse ad accreditarle come veritiere.
Per fortuna ogni tanto arriva qualche studio a presentare i dati reali a chi vuole conoscere un po’ meglio il fenomeno, senza accontentarsi di seguire l’opinione corrente e gridata.
Un esempio è l’ultimo Rapporto immigrazione di Caritas-Migrantes, che reca il significativo sottotitolo 'Conoscere per comprendere'. In un Paese di 60 milioni di abitanti in cui resta così diffusa la paura dell’'invasione', fa impressione leggere per esempio che dal 2018 al 2019 i residenti stranieri sono aumentati soltanto di 47.000 unità, e i permessi di soggiorno di appena 2.500. Come se non bastasse, le nascite da cittadini stranieri (un dato difficile da smentire, o di cui sospettare una sottovalutazione) sono addirittura calate, da 68.000 nel 2017 a 63.000 nel 2019. Nel 2012 sfioravano quota 80.000. In entrambi i casi incidono le acquisizioni di cittadinanza, grazie alle quali i neo-italiani scompaiono dalle statistiche sugli immigrati, ma per sostenere la tesi dell’invasione ci vorrebbe ben altro. Ancora, i motivi del permesso di soggiorno sono da anni eminentemente familiari (quasi la metà del totale: 48,6%). Asilo e protezione internazionale concorrono per un modestissimo 5,7%, ponendo in luce quanto sia lontana dalla realtà l’equivalenza tra immigrati regolari e richiedenti asilo. Bisogna poi aggiungere che 1,5 milioni di cittadini comunitari non hanno bisogno di permessi, e di certo non chiedono asilo. Altri dati interessanti sono stati prodotti dalla Fondazione Leone Moressa, che si occupa periodicamente del rapporto tra i costi e i benefici dell’immigrazione per lo Stato italiano. Qui la notizia saliente, già evidenziata da questo giornale (Avvenire, ndr), riguarda il gettito che l’immigrazione arreca alle casse dello Stato italiano, grazie a imposte e contributi versati dai 2,5 milioni di immigrati regolarmente occupati: 500 milioni di euro nel 2019. A tanto ammonta il saldo tra spese sociali e prelievi fiscali e contributivi a carico dei cittadini stranieri. L’età media ancora giovane comporta un basso numero di pensionati (intorno al 4%) e un’incidenza sulla spesa sanitaria più bassa della media nazionale.
Al conto andrebbero aggiunte tre specificazioni. La prima si riferisce al fatto che alcune voci di spesa comportano a loro volta dei benefici per la collettività: per esempio l’inserimento scolastico di oltre 800.000 alunni stranieri, senza contare i naturalizzati, rappresenta di certo un costo, ma anche un’opportunità d’impiego per migliaia di insegnanti, tutti italiani. Grazie agli alunni di origine straniera inoltre rimangono in vita molte scuole, in quartieri di periferia e borghi spopolati. Stesso discorso per le nascite: costo sanitario, ma investimento sociale. La seconda specificazione rimanda a benefici più difficili da quantificare e riconducibili al ruolo dei 5,3 milioni d’immigrati come consumatori. Con i loro acquisti contribuiscono a far girare l’economia e aumentano il gettito dell’Iva. Se dispongono di un’auto o di una moto, facendo il pieno di carburante pagano altre tasse. Alcuni segmenti di mercato trovano negli immigrati un’importante quota di clienti: gli alloggi dei quartieri popolari, le auto usate, i discount di periferia.
In terzo luogo, non solo gli immigrati finanziano la spesa sociale, ma contribuiscono a contenerla. Più precisamente, le assistenti familiari (come le chiama il contratto di lavoro), dette comunemente badanti, aiutano le famiglie a mantenere gli anziani fragili a casa, abbassando il fabbisogno di strutture protette. Questi benefici però non sono eterni. La Fondazione Moressa rileva che la prevalenza di lavori poco qualificati e la scarsa mobilità sociale nel tempo possono intaccare l’apporto degli immigrati alle casse dello Stato e alla società italiana. Aggiungerei che anche gli immigrati sono destinati col tempo a invecchiare e ad ammalarsi maggiormente, con una progressiva crescita della spesa sociale loro destinata. Perché persista un saldo positivo per le casse dello Stato, occorre l’immissione di nuova immigrazione regolare e regolata, giovane e produttiva. Ma per accoglierla e valorizzarla occorre lungimiranza, e anche coraggio. La stessa lungimiranza e lo stesso coraggio che servono per valorizzare e non spingere a loro volta all’emigrazione le giovani generazioni di italiani. (Maurizio Ambrosini – Avvenire)