9 Maggio 2022 - Città del Vaticano - Quarta domenica di Pasqua, giornata in cui nel Santuario di Pompei si celebra la supplica alla immagine della Madonna. Dal Papa preghiera per la pace, a Maria papa Francesco affida “l’ardente desiderio di pace di tante popolazioni che in varie parti del mondo soffrono l’insensata sciagura della guerra. Alla Vergine Santa presento in particolare le sofferenze e le lacrime del popolo ucraino”. Ancora un appello alla pace, ancora una volta il Papa chiede, “di fronte alla pazzia della guerra” di continuare “a pregare ogni giorno il Rosario per la pace. E preghiamo per i responsabili delle Nazioni, perché non perdano ‘il fiuto della gente’, che vuole la pace e sa bene che le armi non la portano, mai”.
Quella di Papa Francesco sembra sempre più la “voce di uno che grida nel deserto”, come Giovanni Battista nei pressi del Giordano; i suoi appelli perché si ponga fine in Ucraina al conflitto sacrilego sono inascoltati, così l’invito al Patriarca di Mosca di non usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù e parlare di pace, come nella dichiarazione congiunta firmata nell’incontro svoltosi a Cuba il 12 febbraio 2016: “esortiamo tutti i cristiani e tutti i credenti in Dio – si legge al punto 11 del testo – a pregare con fervore il provvidente Creatore del mondo perché protegga il suo creato dalla distruzione e non permetta una nuova guerra mondiale. Affinché la pace sia durevole ed affidabile, sono necessari specifici sforzi volti a riscoprire i valori comuni che ci uniscono, fondati sul Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”.
Regina caeli nella Festa della Mamma, “la nostra preghiera, il nostro affetto, il nostro augurio”. Domenica del buon Pastore. Il Vangelo di Giovanni ci riporta, in un certo senso, indietro nel tempo; ci fa vedere Gesù che, nella festa della Dedicazione del Tempio, dialoga, o forse dovremmo dire si scontra con coloro che non credono alla sua parola, con i giudei. È un passo evangelico che si trova prima della morte di Lazzaro e della sua resurrezione, prima dell’ingresso a Gerusalemme. Un “tornare indietro” nel tempo che forse ci aiuta a meglio capire il cammino della Chiesa, del popolo di Dio. Che cosa accade nella Sinagoga? Gesù è attorniato da persone che gli dicono: “fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”. La sua risposta è: voi non credete “perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”.
Ecco i tre verbi che Papa Francesco coniuga nella sua riflessione: ascoltare, conoscere, seguire. Innanzitutto, l’ascolto. “L’iniziativa viene sempre dal Signore e tutto parte dalla sua grazia: è lui che ci chiama alla comunione con lui. Ma questa comunione nasce se noi ci apriamo all’ascolto”. Ascolto significa disponibilità, docilità, dialogo, in un tempo in cui si è travolti dalla fretta e si fa fatica ad ascoltarsi in ogni ambiente: “è il male del nostro tempo” dice il vescovo di Roma. E chiede se “siamo figli dell’ascolto, se troviamo tempo per la Parola di Dio, se diamo spazio e attenzione ai fratelli e alle sorelle”. Chi ascolta gli altri, infatti, ascolta anche il Signore e possiamo sperimentare che “ci ascolta quando preghiamo, quando ci confidiamo con lui, quando lo invochiamo”.
Ascoltare significa anche scoprire che ci conosce. Certo sa molte cose su di noi, ma “conoscere in senso biblico vuol dire amare. Vuol dire che il Signore, mentre ci legge dentro, ci vuole bene, non ci condanna. Se lo ascoltiamo, scopriamo questo, che il Signore ci ama. La via per scoprire l’amore del Signore è ascoltarlo”. Non ci lascia mai soli: “nelle sofferenze, nelle fatiche, nelle crisi che sono il buio lui ci sostiene attraversandole con noi”. Non è un Dio distante, lontano, indifferente; “dopo tante volte in cui ho sperimentato la sua vicinanza, la sua compassione, la sua tenerezza, che idea ho io del Signore?”
Infine, il terzo verbo: seguire. Come le pecore seguono il pastore, così il discepolo segue Cristo, va dove va lui “sulla stessa strada, nella stessa direzione. Va a cercare chi è perduto, si interessa di chi è lontano, prende a cuore la situazione di chi soffre, sa piangere con chi piange, tende la mano al prossimo, se lo carica sulle spalle.” Lasciamoci amare da Gesù è l’invito di Francesco, e “passiamo dall’amarlo all’imitarlo”. (Fabio Zavattaro - SIR)
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Mi ami?
2 Maggio 2022 - Città del Vaticano - Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, ma anche momento per ricordare che ancora oggi ci sono operai che muoiono mentre lavorano, “una tragedia molto diffusa, forse troppo”. Chiede, il Papa, un rinnovato impegno “perché dovunque e per tutti il lavoro sia dignitoso”; e, inoltre, “che dal mondo del lavoro venga la volontà di far crescere un’economia di pace”.
Primo Maggio, inizio del mese dedicato a Maria, e il pensiero del vescovo di Roma va subito alla città ucraina di Mariupol, la ‘città di Maria’, barbaramente bombardata e distrutta, e rinnova “la richiesta che siano predisposti corridoi umanitari sicuri per le persone intrappolate nell’acciaieria di quella città. Soffro e piango, pensando alle sofferenze della popolazione ucraina e in particolare ai più deboli, agli anziani e ai bambini. Giungono persino notizie terribili di bambini espulsi e deportati”.
Per Francesco “si assiste a un macabro regresso di umanità”, e chiede, insieme a tante persone angosciate, “se si stia veramente ricercando la pace; se ci sia la volontà di evitare una continua escalation militare e verbale; se si stia facendo tutto il possibile perché le armi tacciano”. Quello che sembra mancare in questo conflitto è proprio la volontà di mettersi attorno a un tavolo per trovare una soluzione: “non ci si arrenda alla logica della violenza, alla perversa spirale delle armi. Si imbocchi la via del dialogo e della pace”.
Terza domenica di Pasqua, domenica in cui il Vangelo di Giovanni ci narra la terza manifestazione del Signore dopo la resurrezione, presso il lago di Tiberiade. Il lago, la barca, i discepoli soli e il Signore che è presente sulla riva, che si manifesta nella ferialità della vita, in quelle occupazioni quotidiane che scandiscono il tempo e gli impegni di ogni donna e uomo. Tempo e luoghi di ogni giorno in cui è importante annunciare che il Signore si manifesta sempre, anzi è presente nella vita della chiesa e della comunità cristiana.
Ecco come si presenta la scena nel racconto di Giovanni: Simon Pietro, è sfiduciato, il Signore non è con loro, e allora esce per pescare, seguito dai suoi amici Tommaso, Natanaele, i figli di Zebedeo, e da altri due. Chi sono? Giovanni non lo dice, quasi interrogativo che lascia ai lettori. Escono nel mare di Galilea, il luogo della chiamata dei primi discepoli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, ma tornano con le reti vuote. Escono nella notte e il Signore li aspetta, seduto sulla riva; è ancora lui a cercarli. Le reti sono vuote, un po’ come la loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, lasciando tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Una voce domanda loro “figlioli, non avete nulla da mangiare?”, e li invita a “gettate la rete dalla parte destra della barca”. Si fidano dell’uomo seduto sulla riva e prendono il largo: infruttuosa la pesca della notte, ma all’alba del nuovo giorno le reti trattengono una grande quantità di pesci. Allora riconoscono Gesù. “Può succedere anche a noi – commenta il Papa - per stanchezza, delusione, magari per pigrizia, di scordarci del Signore e di trascurare le grandi scelte che abbiamo fatto, per accontentarci di qualcos’altro. Ad esempio, non si dedica tempo a parlarsi in famiglia, preferendo i passatempi personali; si dimentica la preghiera, lasciandosi prendere dai propri bisogni; si trascura la carità, con la scusa delle urgenze quotidiane. Ma, così facendo – ha aggiunto - ci si ritrova delusi, con le reti vuote”.
Quando ci muoviamo con i nostri falsi idoli siamo un po’ come la barca nel buio del lago; quando riconosciamo la voce che ci chiama dalla riva, come Pietro non avremo paura di gettarci in acqua. Come Pietro “anche noi abbiamo bisogno di una scossa”, dice il Papa. Abbiamo bisogno di uno “slancio nuovo”, di “tuffarci nel bene senza la paura di perdere qualcosa, senza calcolare troppo, senza aspettare che comincino gli altri. Perché per andare incontro a Gesù bisogna sbilanciarsi”. Francesco chiede: siamo capaci di “scatti di generosità, oppure freno gli slanci del cuore e mi chiudo nell’abitudine, nella paura?”
E alla fine del racconto Giovanni ricorda la domanda di Gesù, ripetuta tre volte, a Pietro. Mi ami? “Il Risorto lo chiede anche a noi oggi”, dice il Papa, “perché a Pasqua Gesù vuole che anche il nostro cuore risorga; perché la fede non è questione di sapere, ma di amore”. (Fabio Zavattaro - SIR)
Pace a voi
25 Aprile 2022 - Città del Vaticano - Pace a voi. Per tre volte, ci dice nel Vangelo Giovanni, Gesù si rivolge con questo augurio ai discepoli chiusi nel cenacolo. Domenica in Albis, per volere di san Giovanni Paolo II domenica della Divina misericordia; Francesco preside la messa nella basilica di San Pietro e ricorda che per tre volte Gesù augura ai suoi “pace a voi”; un saluto che viene incontro a ogni debolezza e sbaglio umano: vi troveremo altrettante “azioni della Divina misericordia in noi”: anzitutto “dà gioia; poi suscita il perdono; infine consola nella fatica”.
Anche oggi abbiamo davvero bisogno della pace che non sia solo il silenzio delle armi, un intervallo tra due guerre. Domenica di Pasqua per le chiese orientali. In questi giorni sacri per i credenti in Cristo, in Ucraina sono continuati i combattimenti, e lacrime e sangue hanno continuato a scorrere. Nel Regina coeli, il vescovo di Roma fa gli auguri alle diverse comunità che celebrano la Pasqua secondo il calendario giuliano e chiede che sia il Signore risorto a “colmare di speranza le buone attese dei cuori. Sia lui a donare la pace, oltraggiata dalla barbarie della guerra”.
Sono passati sessanta giorni dall’inizio di quella che, con un eufemismo, la Russia chiama operazione speciale, ma la guerra “anziché fermarsi, si è inasprita. È triste che in questi giorni, che sono i più santi e solenni per tutti i cristiani, si senta più il fragore mortale delle armi anziché il suono delle campane che annunciano la risurrezione; ed è triste che le armi stiano sempre più prendendo il posto della parola”. Torna a chiedere Francesco una “tregua pasquale, segno minimo e tangibile di una volontà di pace. Si arresti l’attacco, per venire incontro alle sofferenze della popolazione stremata; ci si fermi, obbedendo alle parole del Risorto, che il giorno di Pasqua ripete ai suoi discepoli: pace a voi”. Chiede il Papa preghiere per la pace e “di avere il coraggio di dire, di manifestare che la pace è possibile”. Ringrazia i partecipanti alla marcia Perugia-Assisi, e invita i leader politici a “ascoltare la voce della gente, che vuole la pace, non una escalation del conflitto”.
Pace a voi. Gesù per due volte saluta così i suoi discepoli la sera della resurrezione, quando si manifesta nel cenacolo dove si trovavano chiusi per “timore dei giudei”, scrive Giovanni. Ma in quel giorno c’è un assente, Tommaso; è presente, invece, otto giorni dopo per la seconda manifestazione del Signore. In un certo senso Dìdimo, Tommaso, è l’immagine della comunità dei credenti, che si raduna ogni otto giorni per fare memoria della Pasqua, che nella sua fragilità, nella sua incertezza, ha bisogno di un segno, di toccare per credere. Il Vangelo, con questo racconto, ci dice che “il Signore non cerca cristiani perfetti. Io vi dico: ho paura quando vedo qualche cristiano, qualche associazione di cristiani che si credono i perfetti”. E aggiunge il Papa: “meglio una fede imperfetta ma umile, che sempre ritorna a Gesù, di una fede forte ma presuntuosa, che rende orgogliosi e arroganti”. Il Signore afferma ancora “non cerca cristiani che non dubitano mai e ostentano sempre una fede sicura. Quando un cristiano è così, c’è qualcosa che non va. No, l’avventura della fede, come per Tommaso, è fatta di luci e di ombre. Se no, che fede sarebbe? Essa conosce tempi di consolazione, di slancio e di entusiasmo, ma anche stanchezze, smarrimenti, dubbi e oscurità”. Il Vangelo narra di Tommaso per dirci che “non dobbiamo temere le crisi della vita e della fede”, che “non sono peccato, sono cammino. Tante volte ci rendono umili, perché ci spogliano dall’idea di essere a posto, di essere migliori degli altri”. Nelle crisi ci riconosciamo bisognosi dell’aiuto di Dio”.
Cristo per due volte incontra i suoi discepoli: è la fedeltà del Signore che supera le assenze. Gesù “non si arrende, non si stanca di noi, non si spaventa delle nostre crisi, delle nostre debolezze”, ricorda Francesco. Ritorna sempre: “quando le porte sono chiuse, quando dubitiamo, quando, come Tommaso, abbiamo bisogno di incontrarlo e di toccarlo più da vicino”. Gesù torna sempre, “bussa alla porta sempre, e non torna con segni potenti che ci farebbero sentire piccoli e inadeguati, anche vergognosi”; torna “mostrandoci le sue piaghe, segni del suo amore che ha sposato le nostre fragilità”. (Fabio Zavattaro - Sir)
Un grido di pace
19 Aprile 2022 -
Città del Vaticano - L’immagine simbolo di questa Pasqua, le quattro mani che sorreggono la croce al Colosseo, prima via Crucis dopo la pandemia; e i volti di Irina, dell’Ucraina, e Albina, della Russia, gli occhi lucidi che si specchiano gli uni negli altri. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”: tredicesima stazione. “La morte intorno. La vita che sembra perdere di valore. Tutto cambia in pochi secondi”, si legge nella riflessione preparata per questa penultima sosta della Via Crucis. Dove sei Signore, scrivono Irina e Albinia: “quale colpa abbiamo commesso? Perché ci hai abbandonato? Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché hai spaccato in questo modo le nostre famiglie? Perché non abbiamo più la voglia di sognare e di vivere? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?”. Le lacrime sono finite. La rabbia ha lasciato il passo alla rassegnazione”. Il Papa lascia al silenzio il commento, il passo che fa memoria della morte di Gesù, alle tre del pomeriggio. Scriveva don Tonino Bello dopo aver letto un cartello – collocazione provvisoria – su un crocifisso in una: “da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio”.
Quello sguardo silenzioso, dolce, di Irina e Albinia sono anche il commento più bello a quelle tre ore sul Golgota: c’è la sofferenza, la morte, ma c’è la certezza che la pietra del sepolcro sarà rotolata via. E sarà una donna, Maria di Magdala – “si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio” leggiamo in Giovanni – la prima a testimoniare la resurrezione del Signore. Sono le donne, la tenerezza delle madri la vera alternativa alla logica scellerata del potere e della guerra, diceva Papa Francesco.
Celebra in piazza san Pietro la Messa di Pasqua, il sagrato abbellito da fiori, la folla arriva fino a metà via della Conciliazione. Subito l’Ucraina: “troppo sangue abbiamo visto, troppa violenza”. I discepoli sono chiusi in casa, pieni di paura, leggiamo nel Vangelo; così i nostri cuori “riempiti di paura e di angoscia, mentre tanti nostri fratelli e sorelle si sono dovuti chiudere dentro per difendersi dalle bombe”, dice Francesco. Ma Cristo è veramente risorto, “non è un’illusione”; oggi “abbiamo bisogno di lui” in questa “Quaresima che sembra non voler finire”. Dopo la pandemia ecco “lo spirito di Caino, che guarda Abele non come un fratello, ma come un rivale, e pensa a come eliminarlo”. Abbiamo bisogno del Risorto allora “per credere nella vittoria dell’amore, per sperare nella riconciliazione”.
Ai discepoli chiusi nel cenacolo, Gesù dice pace a voi. E pace chiede Francesco; Cristo porta “le nostre piaghe” procurate a lui “dai nostri peccati, dalla nostra durezza di cuore, dall’odio fratricida”; sono il segno “della lotta che lui ha combattuto e vinto per noi, con le armi dell’amore, perché noi possiamo avere pace, essere in pace, vivere in pace”. Pace allora per l’Ucraina “duramente provata dalla violenza e dalla distruzione della guerra crudele e insensata in cui è stata trascinata. Si scelga la pace. Si smetta di mostrare i muscoli mentre la gente soffre. Per favore, non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace […] si ascolti il grido di pace della gente”. Per due volte cita le parole di Albert Einstein e Bertrand Russell nel loro manifesto contro la guerra nucleare: “Metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”.
Nel cuore del Papa le numerose vittime ucraine, i milioni di rifugiati e di sfollati interni, le famiglie divise, gli anziani rimasti soli, le vite spezzate e le città rase al suolo; ancora lo sguardo dei bambini rimasti orfani e che fuggono dalla guerra. Guardandoli non possiamo non avvertire il loro grido di dolore, insieme a quello dei tanti altri bambini che soffrono in tutto il mondo”. In questa terza guerra mondiale a pezzi, Francesco ricorda guerre dimenticate e chiede pace in Libano, Siria, Iraq, Yemen, in tutto il Medio Oriente; in Myanmar, Africa, Sahel, Congo, America Latina. (Fabio Zavattaro - Sir)
Alla ricerca degli assenti
4 Aprile 2022 - Ancora una preghiera per la pace, per la tragedia umanitaria della martoriata Ucraina, “sotto i bombardamenti”. Ancora una volta quella parola “sacrilega” per questa guerra scesa come la notte sull’umanità: “non stanchiamoci di pregare e di aiutare chi soffre” dice Papa Francesco nelle parole che pronuncia all’Angelus nel piazzale di granai di Floriana, a Malta. Due giorni nell’isola, scoglio in mezzo al Mediterraneo lungo quella rotta che i migranti compiono, lasciate le coste africane, per raggiungere l’Europa. E proprio a loro dedica l’ultimo incontro prima di rientrare in Vaticano: “l’altro – dice il Papa – non è un virus da cui difendersi, ma una persona da accogliere”.
Ecco i temi del 36mo viaggio: “il vento gelido della guerra che porta solamente distruzione e odio” – come ha detto nel suo discorso al Palazzo del governo – e l’accoglienza di quel popolo che fugge da conflitti e miseria e attraversa il mare nostrum diventato un cimitero liquido. E non è un caso che Francesco citi Giorgio La Pira in un tempo in cui “le seduzioni dell’autocrazia dei nuovi imperialismi, dell’aggressività diffusa, dell’incapacità di gettare ponti e di partire dai più poveri”. Francesco che ai giornalisti, sull’aereo che lo portava a Malta, ha detto che “in agenda” c’è il viaggio a Kiev. Viaggio che non potrà non coinvolgere anche la chiesa ortodossa, e il patriarca di Mosca Kirill, con il quale è possibile, forse già quest’anno, un altro incontro: parola del Metropolita Hilarion.
Pensando ai colloqui del Mediterraneo del Sindaco santo di Firenze, il Papa chiede di tornare “a riunirsi in conferenze mondiali per la pace, dove sia centrale il tema del disarmo” e destinare i fondi per gli armamenti in progetti di sviluppo, salute e cibo. La guerra non è mai la strada, dice il vescovo di Roma mettendo in guardia da chi parla di Dio ma poi lo smentisce nei fatti: “la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù”. E nell’omelia a Floriana, la città che si trova oltre la cinta muraria della Valletta, Francesco commenta il brano del Vangelo: da un lato, la donna accusata di adulterio e dunque condannata alla lapidazione secondo i dettami della legge mosaica; dall’altro scribi e farisei che “pensano di sapere già tutto e di non aver bisogno dell’insegnamento di Gesù”. Negli accusatori dell’adultera, egli scorge quanti fanno della fede “un elemento di facciata, dove ciò che risalta è l’esteriorità solenne, ma manca la povertà interiore”; costoro “si vantano di essere giusti, osservanti della legge di Dio, persone a posto e perbene”. Non riconoscono Gesù e lo vedono “come un nemico da far fuori”, pervasi dal “tarlo dell’ipocrisia” e dal “vizio di puntare il dito”. In ogni tempo e in ogni comunità “c’è sempre il pericolo di fraintendere Gesù, di averne il nome sulle labbra ma di smentirlo nei fatti”. In realtà “chi crede di difendere la fede puntando il dito contro gli altri – afferma – avrà pure una visione religiosa, ma non sposa lo spirito del Vangelo, perché dimentica la misericordia, che è il cuore di Dio”. Ecco le parole di perdono di Gesù: “neanche io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più”. La vita della donna cambia grazie al perdono. Il Signore, dice il Papa, ci chiede di diventare “testimoni instancabili di riconciliazione, di un Dio per il quale non esiste la parola irrecuperabile”. Se imitiamo Gesù “non saremo portati a concentrarci sulla denuncia dei peccati, ma a metterci con amore alla ricerca dei peccatori. Non staremo a contare i presenti, ma andremo in cerca degli assenti. Non torneremo a puntare il dito, ma inizieremo a porci in ascolto. Non scarteremo i disprezzati, ma guarderemo come primi coloro che sono considerati ultimi”.
Un’ultima immagine: Gesù che si china a scrivere con il dito per terra mentre gli accusatori lo interrogano con insistenza. Immagine forte, i Vangeli non ci dicono cosa abbia scritto per terra, per di più è l’unica volta che questo gesto viene raccontato. Di Gesù sappiamo che parlava alle folle, insegnava nella Sinagoga, ma non conosciamo suoi testi scritti; sono gli evangelisti che scrivono di lui e ci fanno conoscere le sue parole. In quel gesto, commentava Benedetto XVI citando sant’Agostino, si manifesta “come il legislatore divino”; Dio infatti “scrisse la legge con il suo dito sulle tavole di pietra”. (Fabio Zavattaro - SIR)
Dio: Padre misericordioso
28 Marzo 2022 - Città del Vaticano - È passato più di un mese dall’inizio di questa “guerra crudele e insensata” in Ucraina, “atto barbaro e sacrilego”, ricorda Papa Francesco nel dopo Angelus, rivolgendosi ai presenti in una piazza san Pietro dove si vedono bandiere ucraine e una lunga bandiera della pace. Ogni guerra “rappresenta una sconfitta per tutti noi; per questo il vescovo di Roma chiede di convertire “lo sdegno di oggi nell’impegno di domani”; di ripudiare “la guerra, luogo di morte dove i padri e le madri seppelliscono i loro figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono”. Che cos’è la guerra? È bestialità; è un bambino su due in Ucraina sfollato, “questo vuol dire distruggere il futuro, provocare traumi drammatici nei più piccoli e innocenti tra di noi”. Non può essere “qualcosa di inevitabile. Non dobbiamo abituarci alla guerra”. Da questa vicenda non possiamo uscire come prima, altrimenti “saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”. La guerra “non devasta solo il presente, ma anche l’avvenire di una società”. Ancora un appello, accorato, sofferto, dopo la preghiera di venerdì, consacrazione a Maria, regina della pace, dell’umanità, dell’Ucraina e della Russia. Preghiera per chiede la fine del conflitto – “ogni giorno di guerra peggiora la situazione per tutti” – e per invitare i responsabili politici a fermare il conflitto: “tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace”.
Appello, preghiera, nella domenica in cui la liturgia ci propone l’invito a lasciarci riconciliare con Dio, a avere fiducia nella sua promessa. Luca ci propone la famosa parabola del figlio prodigo, o forse dovremmo dire del padre misericordioso, e ci rivela così un altro aspetto del volto del nostro cammino in questo tempo dell’anno liturgico. Da un lato c’è il figlio minore che si allontana con la parte del patrimonio che gli spetta e che sperpera; e c’è un padre che ha il coraggio e la forza di non fare niente, non lo va a cercare come il pastore che si mette in cerca della pecora smarrita, ma resta a casa, e ne attende il ritorno: non è rassegnazione o disinteresse, ma attesa sempre vigile. La parabola, inoltre, ci dice che Dio non legge la storia con i nostri occhi, che non vede servi ma figli e che rifiuta di essere trattato da padrone. Rifiuto che è segnato dai gesti che ordina ai servi: portare al figlio l’abito lungo, l’abito della festa, l’abito del signore della casa e non del servo; mettere l’anello al dito del figlio che viene così reinserito nella sua dignità filiale. Infine, i sandali, segno che si tratta di un uomo libero: il servo non indossa calzari nuovi.
C’è poi la figura del figlio maggiore, il quale, dice Francesco, “nel rapporto con il Padre basa tutto sulla pura osservanza dei comandi, sul senso del dovere. Può essere anche il nostro problema con Dio: perdere di vista che è Padre e vivere una religione distante, fatta di divieti e doveri. E la conseguenza di questa distanza è la rigidità verso il prossimo, che non si vede più come fratello”. Siamo un po’ tutti dei figli maggiori nei nostri comportamenti; non ci rendiamo conto che nella festa del ritorno, il padre, Dio, ridà all’uomo, mediante il suo perdono, la dignità perduta, la dignità del figlio. Il padre cerca di far capire al figlio maggiore che “per lui ogni figlio è tutta la sua vita”. Così gli esprime due bisogni “che non sono comandi – dice il Papa – ma necessità del cuore: far festa e rallegrarsi”. Far festa per “aiutare a superare la paura e lo scoraggiamento, che possono venire dal ricordo dei propri peccati, offrire una calda accoglienza, che incoraggi ad andare avanti. Dio non sa perdonare senza fare festa”. E poi rallegrarsi perché “chi ha un cuore sintonizzato con Dio, quando vede il pentimento di una persona, per quanto gravi siano stati i suoi errori, se ne rallegra. Non rimane fermo sugli sbagli, non punta il dito sul male, ma gioisce per il bene, perché il bene dell’altro è anche il mio”.
Una parabola, ricordava Benedetto XVI che “costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio padre pieno di misericordia”. (Fabio Zavattaro- Sir)
La pazienza di Dio
21 Marzo 2022 - Città del Vaticano - Ogni luogo è buono per ascoltare e accogliere la parola di Dio: può essere un luogo un po’ misterioso e ricco di fascino in cui incontrarlo nell’intensità di un dialogo misto a stupore, come accaduto a Mosè sul monte di Dio, l’Oreb, davanti al roveto ardente, è il libro dell’Esodo. Oppure nella quotidianità della nostra vita, segnata anche da ferite e eventi drammatici, come Saulo che lungo la via che porta a Damasco diventa Paolo. L’importante è cogliere un senso, una presenza che interpella e che ci chiama a una reale conversione. “Siamo nel cuore del cammino quaresimale” ricorda Francesco all’Angelus, che dice: “è il peccato che produce la morte; sono i nostri egoismi a lacerare le relazioni; sono le nostre scelte sbagliate e violente a scatenare il male”.
Conversione, dunque, sempre ma soprattutto in questo tempo difficile, tempo in cui gli avvenimenti, terribili e incredibili, alle porte dell’Europa, contengono la parola insistente di un Dio che chiede la pace, che ama la vita. Così Francesco anche in questa domenica rinnova il suo appello per la fine del conflitto; parla di “violenta aggressione”, di “guerra ripugnante” e di “crudeltà disumane e sacrileghe”. Ogni giorno si ripetono “scempi e atrocità” e “non c’è giustificazione per questo”, afferma il Papa, nel consueto appuntamento domenicale. Chiede alla comunità internazionale di impegnarsi per far cessare la guerra. Ricorda, quindi, la sua visita all’ospedale Bambino Gesù, parla di bambini feriti, di missili e bombe che si sono abbattuti su civili, anziani, madri incinte; parla di “milioni di rifugiati ucraini che devono fuggire lasciando indietro tutto e provo un grande dolore per quanti non hanno nemmeno la possibilità di scappare. Tanti nonni, ammalati e poveri, separati dai propri familiari, tanti bambini e persone fragili restano a morire sotto le bombe, senza poter ricevere aiuto e senza trovare sicurezza nemmeno nei rifugi antiaerei. Tutto questo è disumano! Anzi, è anche sacrilego”, va contro la sacralità della vita umana “che va rispettata e protetta, non eliminata, e che viene prima di qualsiasi strategia!”. E in quel “sacrilego” vi è un chiaro riferimento alla citazione del Vangelo di Giovanni fatta da Putin nella manifestazione di venerdì a Mosca.
Parla dell’urgenza dell’accoglienza il Papa, non solo nell’emergenza, perché poi “l’abitudine ci raffredda un po’ il cuore e ci dimentichiamo”. Parla di proteggere donne e bambini dagli “avvoltoi” della società. Infine, invita fedeli e comunità a unirsi in preghiera, venerdì 25 marzo, per il solenne Atto di consacrazione dell’umanità, specialmente della Russia e dell’Ucraina, al Cuore immacolato di Maria, preghiera alla Regina della pace.
Nelle parole che hanno preceduto l’appello per l’Ucraina, Francesco commenta il brano di Luca e si sofferma sul fatto di cronaca riportato, ovvero la repressione romana per volere di Pilato e i morti per il crollo della torre di Siloe, per dire: “quando il male ci opprime rischiamo di perdere lucidità e, per trovare una risposta facile a quanto non riusciamo a spiegarci, finiamo per incolpare Dio”, e quante volte “attribuiamo a lui le nostre disgrazie, attribuiamo le sventure del mondo a lui che, invece, ci lascia sempre liberi e dunque non interviene mai imponendosi, solo proponendosi; a lui che non usa mai violenza e, anzi, soffre per noi e con noi”. Da Dio, afferma il Papa, “non può mai venire il male perché non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia. È lo stile di Dio”.
Ecco il secondo episodio che troviamo nel testo lucano; lo “possiamo leggere nella prospettiva di un tempo donato all’uomo per cambiare, per convertirsi”, è il tempo per Francesco “della pazienza di Dio che sa ascoltare, attendere”. L’albero di fico che non da frutto e che il padrone chiede venga tagliato; “lascialo ancora quest’anno finché gli avrò zappato attorno, vedremo se porterà frutti…” risponde il contadino. Il racconto di Luca finisce qui, ma quello che conta, nel racconto, è la capacità di accogliere la proposta, cioè la possibilità di un tempo ulteriore per portare frutto. Lo sguardo del contadino è lo sguardo del Signore che va oltre il fallimento evidente e concede i tempi supplementari, diremmo con una immagine calcistica. È “il Dio di un’altra possibilità”, per Papa Francesco. (Fabio Zavattaro - Sir)
La luce di Dio
14 Marzo 2022 - Città del Vaticano - “In nome di Dio fermate questo massacro”. Per la terza domenica consecutiva è la parola pace a risuonare con forza in piazza San Pietro. Ma sembra, quella del Papa, la voce di colui che grida nel deserto, voce inascoltata da chi potrebbe mettere fine a questi “fiumi di sangue e di lacrime”. C’è una città che porta il nome di Maria, Mariupol, che “è diventata una città martire della guerra straziante che sta devastando l’Ucraina”. Ancora una volta si alza il grido di Francesco: “davanti alla barbarie dell’uccisione di bambini, di innocenti e di civili inermi non ci sono ragioni strategiche che tengano: c’è solo da cessare l’inaccettabile aggressione armata, prima che riduca le città a cimiteri”.
Seconda domenica di Quaresima; la liturgia ci propone il racconto della Trasfigurazione sul monte Tabor. Così se la prima domenica di quaresima ci parla della prova nel deserto, le tre tentazioni, ciò che dobbiamo lasciare, in un certo senso; questa domenica ci mostra ciò che dobbiamo accogliere, vedere. E quel salire il monte, faticosa prova, altro non è che itinerario necessario nel nostro cammino verso Gerusalemme, verso la Pasqua.
Angelus all’indomani della conclusione degli esercizi spirituali, nel giorno in cui il Pontificato di Francesco entra nel decimo anno. Ma sono ancora le ferite di una guerra che si consuma alle porte dell’Europa, in primo piano. “Col dolore nel cuore – dice il Papa – unisco la mia voce a quella della gente comune, che implora la fine della guerra. In nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi! Si punti veramente e decisamente sul negoziato, e i corridoi umanitari siano effettivi e sicuri. In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro”.
Torniamo al Vangelo. Sul monte Tabor con Gesù ci sono Pietro, Giovanni e Giacomo, e Luca ci dice che i tre “erano oppressi dal sonno”. E, dunque, si addormentano, come accadrà anche nel Getsemani. Afferma Francesco: “stupisce questa sonnolenza in momenti tanto importanti”. Ma questo sonno fuori luogo dice il vescovo di Roma “non somiglia forse a tanti nostri sonni che ci vengono durante momenti che sappiamo essere importanti? Magari alla sera, quando vorremmo pregare, stare un po’ con Gesù dopo una giornata trascorsa tra mille corse e impegni. Oppure quando è ora di scambiare qualche parola in famiglia e non si ha più la forza. Vorremmo essere più svegli, attenti, partecipi, non perdere occasioni preziose, ma non ci riusciamo”.
La Quaresima “è un’opportunità in questo senso. È un periodo in cui Dio vuole svegliarci dal letargo interiore, da questa sonnolenza che non lascia esprimere lo Spirito”. Pietro, Giovanni e Giacomo si svegliano durante la Trasfigurazione: “possiamo pensare – dice il Papa – che fu la luce di Gesù a ridestarli. Come loro, anche noi abbiamo bisogno della luce di Dio, che ci fa vedere le cose in modo diverso; ci attira, ci risveglia, riaccende il desiderio e la forza di pregare, di guardarci dentro, e di dedicare tempo agli altri. Possiamo superare la stanchezza del corpo con la forza dello Spirito di Dio”.
Una nube “li coprì con la sua ombra”, scrive Luca. Ma mentre copre, rivela la gloria di Dio, come avvenne per il popolo pellegrinante nel deserto. Gli occhi non possono più vedere, ma gli orecchi possono udire la voce che esce dalla nube: questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. L’imperativo della sequela è l’ascolto. Il racconto evangelico parla di Gesù solo e Benedetto XVI commentava: “Gesù solo è tutto ciò che è dato ai discepoli e alla Chiesa di ogni tempo: è ciò che deve bastare nel cammino. È lui l’unica voce da ascoltare, l’unico da seguire, lui che salendo verso Gerusalemme donerà la vita e un giorno trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”.
In questo tempo di Quaresima Francesco ci invita alla preghiera, a guardare il crocifisso “e meravigliarci davanti all’amore folle di Dio, che non si stanca mai di noi e ha il potere di trasfigurare le nostre giornate, di dare loro un senso nuovo, una luce diversa, una luce e inattesa”. E chiede di essere aperti all’accoglienza e di pregare per la pace perché “Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome”. (Fabio Zavattaro - Sir)
Con il diavolo non si dialoga
7 Marzo 2022 - Città del Vaticano - “Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria”. Non usa mezzi termini Papa Francesco per condannare l’intervento militare russo in Ucraina: in questa terra “scorrono fiumi di sangue e di lacrime”. Nuovo appello per la pace, perché “si assicurino davvero i corridoi umanitari”; perché sia possibile “l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura”. In questo decimo giorno di guerra “cessino gli attacchi armati e prevalga il negoziato, e prevalga pure il buon senso. E si torni a rispettare il diritto internazionale”. In piazza San Pietro ci sono bandiere dell’Ucraina; il Papa, all’Angelus, le indica chiedendo di pregare, un’Ave Maria, per le tante persone che soffrono, e che sono costrette a lasciare le proprie case: “la guerra è una pazzia. Fermatevi, per favore. Guardate questa crudeltà”. In Ucraina si sono recati due cardinali, l’elemosiniere Krajewski e il prefetto del dicastero per lo sviluppo umano integrale Czerny, ricorda il Papa che ringrazia i giornalisti che “per garantire l’informazione mettono a rischio la propria vita”; e dice: la Santa Sede “è disposta a fare di tutto, a mettersi al servizio per questa pace”.
Prima domenica di Quaresima, tempo di conversione, di preghiera per la pace. Luca, nel Vangelo, ricorda le tre tentazioni, le tre strade che il mondo propone promettendo grandi successi, ma in realtà, ricordava Francesco, sono strade per confonderci: l’avidità di possesso, la gloria umana, ovvero l’inganno del potere, e la strumentalizzazione di Dio. Tentazioni cui si è sottoposto anche Gesù, in quei quaranta giorni nel deserto tentato dal diavolo. Quaranta giorni di digiuno; quaranta come i giorni del diluvio, come il tempo trascorso nel deserto da Mosè con il suo popolo, come il tempo impiegato dal profeta Elia per giungere al monte Oreb.
Cosa c’entra il digiuno, il cibo, con i problemi etici, politici, e religiosi del nostro tempo? Con le difficoltà di un dialogo che, a più livelli, sembra dimenticare l’altro, i suoi diritti, a volte la sua stessa dignità? Con la crisi terribile che si sta consumando alle porte dell’Europa? Una risposta viene dal brano di Luca: “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto”. Non aveva bisogno di altro, confidava totalmente in Dio. Così questi quaranta giorni di preparazione alla Pasqua sono occasione per rileggere la nostra vita, per confidare nella forza della preghiera, anche invocazione urgente per la pace, soprattutto nella martoriata Ucraina, ma non solo. In questo tempo di Quaresima, il Papa chiede di prendere “spazi di silenzio e di preghiera, durante i quali fermarci e guardare ciò che si agita nel nostro cuore. Facciamo chiarezza interiore, mettendoci davanti alla Parola di Dio nella preghiera, perché abbia luogo in noi una benefica lotta contro il male che ci rende schiavi, una lotta per la libertà”.
E poi il deserto – altro segno di questo tempo assieme al digiuno e alla cenere, simbolo della precarietà della vita – luogo del silenzio, ma anche della “lotta contro le seduzioni del male” dice il vescovo di Roma. Il diavolo tenta Gesù con proposte seducenti, ma queste portano “alla schiavitù del cuore”, rendono “ossessionati dalla brama di avere”, e tutto si riduce “al possesso delle cose, del potere, della fama. È il nucleo delle tentazioni. È ’il veleno delle passioni’ in cui si radica il male”. Davanti alle tentazioni seguiamo l’esempio di Gesù che “si oppone in modo vincente alle attrattive del male” e lo fa “rispondendo con la Parola di Dio”. Per il Papa felicità e libertà “non stanno nel possedere, ma nel condividere: non nell’approfittare degli altri, ma nell’amarli; non nell’ossessione del potere, ma nella gioia del servizio”. Le tentazioni ci accompagnano nel cammino della vita, e il diavolo “sa persino travestirsi di motivazioni sacre, apparentemente religiose”; e “se cediamo alle sue lusinghe, finisce che giustifichiamo la nostra falsità, mascherandola di buone intenzioni”.
Gesù non dialoga con il diavolo, mai. Così noi, dice Francesco, non dobbiamo “mai entrare in dialogo con il diavolo: è più astuto di noi”. (Fabio Zavattaro - Sir)
Lo sguardo cieco
28 Febbraio 2022 - Città del Vaticano - Ci sono le bandiere dell’Ucraina in piazza San Pietro, immagine simbolo di questi giorni in cui il rumore della guerra alle porte dell’Europa ci ha fatto dimenticare la pandemia dalla quale, comunque, non siamo ancora usciti. Ha il “cuore straziato” il Papa per le vittime dell’invasione russa, per quelle immagini che hanno portato nelle nostre case volti di uomini e di donne segnati dalle ferite, dal dolore; volti rigati dalle lacrime; volti di bambini che nel loro pianto c’è tutta la tragedia di una ingiusta e inutile guerra. A Firenze, dove Papa Francesco avrebbe dovuto essere questa domenica se non si fosse acuito il dolore al ginocchio, 60 vescovi di 20 paesi e 65 sindaci delle città i cui territori sono bagnati dal mare Mediterraneo, forte si è levata la voce per dire sì alla pace e al dialogo per fermare il conflitto. In piazza San Pietro Francesco ricorda che “Dio sta con gli operatori di pace e non con chi usa la violenza”.
Il vento agita quelle bandiere celesti e gialle; su volti si legge sofferenza, preoccupazione, tristezza, paura. “Siamo stati sconvolti da qualcosa di tragico: la guerra” dice il vescovo di Roma: "più volte abbiamo pregato perché non fosse imboccata questa strada e non smettiamo di supplicare Dio più intensamente”. Appello, quasi preghiera, perché siano messe da parte le armi e si apra la strada del dialogo: “chi fa la guerra dimentica l’umanità – ha proseguito - non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto gli interessi di parte e di potere. Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi che è la più lontana dalla volontà di Dio e si distanzia dalla gente comune che vuole la pace. In ogni conflitto - ha aggiunto - la gente comune è la vera vittima che paga sulla propria pelle le follie della guerra. Penso agli anziani a quanti in queste ore cercano rifugio, alle mamme in fuga con i loro bambini. Sono fratelli e sorelle per i quali è urgente aprire corridoi umanitari e che vanno accolti”.
Angelus che Francesco ha aperto ricordando le parole del Vangelo di questa domenica, il rischio di essere concentrati più sulla pagliuzza nell’occhio del fratello piuttosto che nella trave presente nel nostro occhio. Vangelo che, in un certo senso, conclude la riflessione iniziata due domeniche fa, con le beatitudini e proseguita con l’amore per i nemici.
“Tante volte – ha detto il Papa – ci lamentiamo per le cose che non vanno nella società, nella Chiesa, nel mondo, senza metterci prima in discussione e senza impegnarci a cambiare anzitutto noi stessi”. Così “il nostro sguardo è cieco. E se siamo ciechi non possiamo pretendere di essere guide e maestri per gli altri”.
Gesù ci invita a riflettere, nel brano proposto da Luca, sul nostro sguardo e ci chiede “di guardare dentro di noi per riconoscere le nostre miserie. Perché se non siamo capaci di vedere i nostri difetti, saremo sempre portati a ingigantire quelli altrui. Se invece riconosciamo i nostri sbagli e le nostre miserie, si apre per noi la porta della misericordia”. Ma ci chiede anche di pensare bene alle cose che diciamo, perché le parole che usiamo “dicono la persona che siamo”.
Corrono veloci le parole, dice Francesco: “Troppe veicolano rabbia e aggressività, alimentano notizie false e approfittano delle paure collettive per propagare idee distorte”.
E lo vediamo anche nei nostri giorni: messaggi, fake news, che hanno l’unico obiettivo di criticare e condannare delle affermazioni per il solo motivo di non essere d’accordo. Usiamo le parole “in modo superficiale” dice ancora il vescovo di Roma; “ma le parole hanno un peso: ci permettono di esprimere pensieri e sentimenti, di dare voce alle paure che abbiamo e ai progetti che intendiamo realizzare, di benedire Dio e gli altri”. Ma, nello stesso tempo, “con la lingua possiamo anche alimentare pregiudizi, alzare barriere, aggredire e perfino distruggere; con la lingua possiamo distruggere i fratelli: il pettegolezzo ferisce e la calunnia può essere più tagliente di un coltello”.
Restano le immagini di quelle bandiere che il vento agita. E resta il desiderio di pace che sarà ancora più forte, Mercoledì delle Ceneri, nel digiuno e nella preghiera per l’Ucraina. (Fabio Zavattaro- Sir)
La domenica del Papa: porgi l’altra guancia
21 Febbraio 2022 - Roma - Dopo aver ascoltato il discorso della pianura, discorso di benedizioni e minacce, le beatitudini così come Luca le propone, l’evangelista porta a conclusione le parole che Gesù ha pronunciato davanti la folla che lo ha seguito ai piedi del monte – per Matteo, infatti, è il discorso della montagna – nei pressi del lago di Tiberiade; parole che il Signore rivolge a coloro che hanno già scelto di seguirlo, abbandonando tutto. In questa domenica in primo piano è l’amore per i nemici, la rinuncia alla vendetta e alla violenza: “ma a voi che ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano…” E c’è quella parola che sempre con maggiore difficoltà ascoltiamo nei momenti di difficoltà, di torti e ‘ferite’ subite: perdono. Quante volte sentiamo dalla viva voce di persone che hanno vissuto una ferita lacerante, un lutto: non posso perdonare, deve pagare per quello che ha fatto. Guai a non rispettare quel dolore vissuto, a mettere in secondo piano quella ferita lacerante. Ma la parola perdono non è un impedimento al cammino della giustizia, non cancella la colpa. Gesù arrestato, deriso, schiaffeggiato, ferito e morto sulla croce ci dice che il male, la violenza non si vincono con altro male; l’odio può essere vinto dall’amore.
Il Vangelo oggi ci ricorda: “non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati”. Ecco il comandamento ‘altro’ e ‘alto’ che Gesù propone al credente: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”.
Parole quanto mai importanti in questi giorni in cui soffiano venti di guerra alle porte dell’Europa: “com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi guerra”, dice Papa Francesco all’Angelus.
Proprio nei momenti più difficili il cristiano è chiamato a “non cedere all’istinto e all’odio, ma a andare oltre”. Ecco che torna quel porgere l’altra guancia, spesso così difficile da mettere in pratica. Francesco si domanda: davvero il Signore ci chiede cose impossibili, anzi ingiuste? “Porgere l’altra guancia – dice il Papa – non significa subire in silenzio, cedere all’ingiustizia. Gesù con la sua domanda denuncia ciò che è ingiusto. Però lo fa senza ira né violenza, anzi con gentilezza. Non vuole innescare una discussione, ma disinnescare il rancore: spegnere insieme l’odio e l’ingiustizia, cercando di recuperare il fratello colpevole”. La risposta più forte è la mitezza, e porgere l’altra guancia “non è il ripiego del perdente, ma l’azione di chi ha una forza interiore più grande, che vince il male col bene, che apre una breccia nel cuore del nemico, smascherando l’assurdità del suo odio. Non è dettata dal calcolo, ma dall’amore”.
Certo non è facile amare i propri nemici, ma non mancano uomini che lo hanno fatto, come il cardinale François-Xavier Van Thuàn, che ha trascorso 13 anni nelle carceri vietnamite senza giudizio, e ai carcerieri che gli chiedevano perché li amasse, rispondeva: “Gesù me lo ha insegnato; e se io, come cristiano, non vi amo, non sono degno di portare il nome di cristiano”. O, ancora, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, e Nelson Mandela che hanno fatto della non violenza la loro bandiera.
“Se dipendesse solo da noi”, afferma ancora Papa Francesco all’Angelus, “sarebbe impossibile” amare i propri nemici. Ma “quando il Signore chiede qualcosa, vuole donarla. Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo”. È dunque grazie allo Spirito di Gesù che “possiamo rispondere al male con il bene, amare chi ci fa del male. Così fanno i cristiani”.
Quando ci fanno un torto, qualcosa di male, afferma ancora il vescovo di Roma, “andiamo subito a raccontare agli altri e ci sentiamo vittime”. Invece “preghiamo per quella persona, per chi ci ha fatto del male”. Pregando “viene meno questo sentimento di rancore; pregare per chi ci ha trattato male è la prima cosa per trasformare il male in bene”.
Una preghiera, infine, Francesco la chiede per i tanti medici, infermieri, volontari che stanno vicino, curano e aiutano gli ammalati, a volte subendo anche violenze. Dice: “comportamento eroico nel tempo del Covid, ma questa eroicità rimane tutti i giorni”. (Fabio Zavattaro - SIR)
Con la gioia nel cuore
14 Febbraio 2022 - Città del Vaticano - Somiglianze e differenze tra due evangelisti. Luca, nella pagina del Vangelo di domenica, ci fa riflettere sul discorso che Gesù propone ai suoi discepoli, più che alla folla, giunta da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Siro e di Sidone: è il discorso della pianura, discorso di benedizioni e minacce. Discorso parallelo a quello della montagna, o discorso sul monte, che troviamo in Matteo, il primo dei cinque grandi discorsi sul Regno: le nove beatitudini. In Matteo Gesù si rivolge ai presenti dall’alto di un monte. Anzi “del monte”: non luogo generico, dunque, ma una altura che evoca il Sinai. Nella Bibbia sono molte le ‘vette di Dio’, non solo il Sinai, ma anche il Nebo, dove Mosè vede la terra promessa, senza però raggiungerla. E poi l’Ararat, dove si sarebbe fermata l’arca di Noe; il Moira, il monte della prova di Abramo; il Tabor, l’altura della trasfigurazione, e gli Ulivi.
Luca, invece, fa parlare Gesù “in un luogo pianeggiante”, dopo essere salito sul monte e aver pregato in solitudine tutta la notte; è sul monte che chiama i discepoli e ne sceglie dodici “ai quali diede anche il nome di apostoli”. Dodici come le tribù di Israele. Li sceglie, dunque, e con essi scende per fermarsi “in un luogo pianeggiante”. Papa Francesco, all’Angelus, fa notare che Gesù, pur essendo attorniato da una grande folla, parla rivolgendosi ai suoi discepoli. Le beatitudini, infatti, “definiscono l’identità del discepolo” e “possono suonare strane, quasi incomprensibili” a chi non lo è. Fermandosi a riflettere sulla prima – “beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” – il vescovo di Roma afferma che “sono beati perché poveri”, nel senso che “il discepolo di Gesù non trova la sua gioia nel denaro, nel potere o in altri beni materiali, ma nei doni che riceve ogni giorno da Dio: la vita, il creato, i fratelli e le sorelle”. Anche i beni che possiede “è contento di condividerli, perché vive nella logica di Dio”.
Luca sembra dirci che Gesù scendendo nella pianura in realtà scende, anzi raggiunge ogni uomo; è a lui vicino per consolarlo nei molti luoghi delle nostre povertà, mancanze, afflizioni. In Luca, le beatitudini privilegiano l’interesse per i poveri e gli afflitti. E quello scendere in un luogo pianeggiante è un andare verso l’uomo che, affermava Benedetto XVI, “non ha soltanto bisogno di essere nutrito materialmente o aiutato a superare i momenti di difficoltà, ma ha anche la necessità di sapere chi egli sia e di conoscere la verità su sé stesso, sulla sua dignità”.
I Vangeli ci ricordano che la logica del Signore non è quella dell’uomo, e Luca, afferma il Papa, ci dice che la logica di Dio è la gratuità: “il discepolo ha imparato a vivere nella gratuità. Questa povertà è anche un atteggiamento verso il senso della vita, perché il discepolo di Gesù non pensa di possederlo, di sapere già tutto, ma sa di dover imparare ogni giorno”; di più “è una persona umile, aperta, aliena dai pregiudizi e dalle rigidità”.
Pietro, è il Vangelo di domenica scorsa, “lascia la barca e tutti i suoi beni per seguire il Signore”, si dimostra docile, “e così diventa discepolo. Invece, chi è troppo attaccato alle proprie idee, alle proprie sicurezze, difficilmente segue davvero Gesù”. Lo segue solo “nelle cose in cui è d’accordo con lui e lui è d’accordo con me”. Ma non è un discepolo, è una persona “triste perché i conti non gli tornano, perché la realtà sfugge ai suoi schemi mentali e si trova insoddisfatto. Il discepolo, invece, sa mettersi in discussione, sa cercare Dio umilmente ogni giorno”. Il discepolo “accetta il paradosso delle Beatitudini”.
La logica umana porta a pensare in un altro modo: “è felice chi è ricco, chi è sazio di beni, chi riceve applausi ed è invidiato da molti, chi ha tutte le sicurezze”. È un “pensiero mondano”, dice Francesco: “non è Dio a dover entrare nelle nostre logiche, ma noi nelle sue”. Il discepolo di Gesù “è gioioso” perché “il Signore, liberandoci dalla schiavitù dell’egocentrismo, scardina le nostre chiusure, scioglie la nostra durezza, e ci dischiude la felicità vera, che spesso si trova dove noi non pensiamo”. Lasciamoci “scardinare dentro dal paradosso delle beatitudini” per “uscire dal perimetro delle nostre idee”, ci chiede il Papa, che aggiunge: “il tratto saliente del discepolo è la gioia del cuore”. (Fabio Zavattaro - SIR)
La Domenica del Papa: il volto e la parola
7 Febbraio 2022 - Città del Vaticano - Il volto e la parola. L’evangelista Luca e Isaia, la prima lettura, ci presentano due modi per rispondere alla chiamata di Dio. Il profeta vede il Signore seduto su un alto trono circondato da serafini: quel volto lo cambia, le sue labbra vengono purificate. Luca racconta una storia straordinaria, quella di un giovane che viene da una località di campagna, Nazareth, un posto di contadini e pastori, per di più figlio di un falegname, che dice a un vecchio, esperto pescatore di Cafarnao di gettare le reti in acqua.
Immaginiamo la scena. C’è una grande folla, anonima nel racconto, e tutto sembra occasionale: la gente, le due barche, il desiderio di parlare. Gesù, sulla riva del lago di Galilea, individua un volto, vede Simon Pietro, mentre sta sistemando le reti. Una notte di pesca mancata. Gesù sale sulla sua barca e gli chiede di allontanarsi un po’ da terra perché vuole parlare alla gente da lì. Quindi una nuova richiesta: “prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca”, leggiamo in Luca. La barca, è una bella immagine anche per noi, dice il Papa all’Angelus: “ogni giorno la barca della nostra vita lascia le rive di casa per inoltrarsi nel mare delle attività quotidiane; ogni giorno cerchiamo di ‘pescare al largo’, di coltivare sogni, di portare avanti progetti, di vivere l’amore nelle nostre relazioni. Ma spesso, come Pietro, viviamo la ‘notte delle reti vuote’, la delusione di impegnarci tanto e di non vedere i risultati sperati”.
Pietro sicuramente avrà pensato: non sa nulla di pesca questo giovane; non ha nemmeno preso in considerazione l’inutile fatica notturna, le ceste vuote: “maestro abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Eppure, dalla sua bocca non viene un ‘no’: “sulla tua parola getterò le reti”. Così esce, guadagna il largo, e pesca una quantità enorme di pesci. Interessante notare che Simone, prima di questo segno, si rivolge a Gesù chiamandolo maestro; dopo, lo chiama Signore: “è la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede”, diceva Benedetto XVI.
Torniamo, allora, alla barca. Già perché il Signore, afferma Francesco, ama salire sulla “barca della nostra vita quando non abbiamo nulla da offrirgli; entrare nei nostri vuoti e riempirli con la sua presenza; servirsi della nostra povertà per annunciare la sua ricchezza, delle nostre miserie per proclamare la sua misericordia”. Dio non vuole “una nave da crociera”, gli basta “una povera barca sgangherata, purché lo accogliamo. Ma noi lo facciamo salire sulla barca della nostra vita? Gli mettiamo a disposizione il poco che abbiamo? È il Dio della vicinanza: non cerca perfezionismo, ma accoglienza”.
Il cristiano è il popolo della via, dello stare in mezzo alla gente, del volto da cogliere e della parola da ascoltare, parola che entra nella vita dell’uomo, e con essa inizia un dialogo che diventa chiamata, missione. Con Gesù, dice ancora Francesco, “si naviga nel mare della vita senza paura, senza cedere alla delusione quando non si pesca nulla e senza arrendersi al ‘non c’è più niente da fare’. Sempre, nella vita personale come in quella della Chiesa e della società, c’è qualcosa di bello e di coraggioso che si può fare. Sempre possiamo ricominciare, sempre il Signore ci invita a rimetterci in gioco perché Lui apre nuove possibilità”. Scacciamo “il pessimismo e la sfiducia”, afferma il Papa.
Nella domenica di Francesco, domenica in cui la Chiesa italiana celebra la Giornata per la vita, c’è l’immagine di un popolo, a Tamrout in Marocco, che “si è aggrappato per salvare un bambino”; il piccolo Rayan, purtroppo, non ce l’ha fatta. Ma la mobilitazione di tutti è un esempio di cosa vuol dire custodire ogni vita. Un impegno che “vale per tutti” ha detto Francesco: per gli anziani, i malati, i bambini cui è impedito di nascere. Per le donne schiave dei trafficanti e per le bambine vittime delle mutilazioni genitali “pratica che umilia la dignità della donna”. Infine, un pensiero per una storia di solidarietà: un giovane ghanese, John 25 anni, immigrato ben inserito nel mondo del lavoro nel Monferrato, scopre di essere malato di cancro e l’intero paese si mobilita, e gli paga il viaggio per andare a morire tra le braccia del padre. Per il Papa sono “i santi della porta accanto”. (Fabio Zavattaro - Sir)
La Domenica del Papa: costruire cammini
31 Gennaio 2022 - Città del Vaticano - “Passando in mezzo a loro si mise in cammino”. La Chiesa è immagine di una comunità in cammino, “cantiere aperto”, che prende sul serio l’invito del Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes, di fare posto “nel cuore” alle gioie e speranze, alle tristezze e angosce degli uomini di oggi. Cammino “di fratellanza, di amore, di fiducia”, disse Papa Francesco affacciandosi dalla loggia centrale della basilica di San Pietro il giorno della sua elezione, 13 marzo 2013. Torna spesso, nelle parole del vescovo di Roma, il termine cammino, come a Firenze, al convegno ecclesiale, quando parlò di cambiamento d’epoca, di cammino sinodale, di una chiesa “inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”; una chiesa, una comunità, che non costruisce “mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”; che non ha paura degli ostacoli, perché le sfide diventano occasioni, nella certezza che Deus caritas est, Dio è amore.
Il Vangelo di questa domenica ci porta ancora nella sinagoga di Nazareth, tra le persone che lo hanno conosciuto fin dalla nascita. Gesù ha consegnato il rotolo della legge, dopo aver letto il passo del profeta Isaia, l’annuncio di un anno di grazia, ovvero il lieto messaggio ai poveri, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi. Parole che affascinano e stupiscono, ma anche inquietano, forse spaventano. Questo giovane, il figlio del carpentiere Giuseppe, annuncia una parola difficile da ascoltare per i suoi concittadini. Difficile soprattutto perché viene, come dire, da uno di casa, noto a tutti. All’inizio è la meraviglia: “gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, scrive Luca nel Vangelo; e più avanti: “tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Poi ecco lo sdegno “all’udire queste cose”.
Esito amaro, dice Papa Francesco all’Angelus, “anziché ricevere consensi, Gesù trova incomprensione e anche ostilità. I suoi compaesani, più che una parola di verità, volevano miracoli, segni prodigiosi. Il Signore non ne opera e loro lo rifiutano, perché dicono di conoscerlo già da bambino, è il figlio di Giuseppe. Così Gesù pronuncia una frase diventata proverbiale: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”.
Per le persone presenti nella sinagoga egli doveva essere soprattutto colui che curava le loro infermità e colmava i loro bisogni: “quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria”, leggiamo sempre in Luca. Gli abitanti di Nazareth hanno saputo quanto Gesù ha già compiuto, i segni già operati e ciò che chiedono è appunto altri segni che risolvano i loro problemi, lì dove è la sua casa, la sua gente, la sua patria.
Ma Gesù mette in primo piano l’altro termine, profeta; come per dire di essere pronto a compiere segni e guarigioni ma non per soddisfare solamente alcuni bisogni e richieste, piuttosto per rivelare che la parola, la promessa di Dio ha iniziato ad attuarsi nella storia: “oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito…”
Allora, perché andare incontro a questo esito, quando l’insuccesso “non era del tutto imprevisto”; Gesù “conosceva i suoi, conosceva il cuore dei suoi e sapeva il rischio che correva”. Perché “davanti alle nostre chiusure, non si tira indietro: non mette freni al suo amore. Davanti alle nostre chiusure, lui va avanti”, e oggi, afferma all’Angelus il Papa, “invita anche noi a credere nel bene, a non lasciare nulla di intentato nel fare il bene”.
L’importante è come accogliere: “non lo trova chi cerca miracoli”, dice Francesco, “chi cerca sensazioni nuove, esperienze intime, cose strane; chi cerca una fede fatta di potenza e segni esteriori. No, non lo troverà. Soltanto lo trova, invece, chi accetta le sue vie e le sue sfide, senza lamentele, senza sospetti, senza critiche e musi lunghi”. Il Signore “sempre ci sorprende” e ci chiede “di accoglierlo nella realtà quotidiana che vivi; nella Chiesa di oggi, così com’è; in chi hai vicino ogni giorno; nella concretezza dei bisognosi, nei problemi della tua famiglia, nei genitori, nei figli, nei nonni, accogliere Dio lì”. C’è bisogno di costruire cammini nuovi, “ricucire” i rapporti personali, le relazioni tra gli Stati, dice i Papa ai ragazzi dell’Acr. È la Chiesa del Concilio, popolo di Dio in cammino. (Fabio Zavattaro - Sir)
La Domenica del Papa: Gesù è oggi
24 Gennaio 2022 - Città del Vaticano - Ieri terzo anno per volere di Papa Francesco, dedicata alla Parola di Dio. Parola che svela il vero volto di Dio e nello stesso tempo ci porta all’uomo. Perché “la sacra Scrittura non ci è stata data per intrattenerci, per coccolarci in una spiritualità angelica, ma per uscire incontro agli altri e accostarci alle loro ferite”.
C’è un “oggi” che deve alimentare la nostra presenza in mezzo alle donne e agli uomini del nostro tempo. I testi della liturgia domenicale ci propongono in Neemia – uno scritto di 450 anni prima di Cristo – una descrizione dell’ascolto della Parola, e la benedizione finale che potremmo accostare alle nostre celebrazioni, quasi continuità in un “oggi” che la chiesa, con Luca, ci propone. Avevamo lasciato Gesù a Cana, il primo miracolo; lo troviamo a Nazareth, le sue origini, o meglio le origini della sua famiglia terrena. Rivolgendosi a Teofilo – in greco amico di Dio – l’evangelista spiega che la sua narrazione è vera, racconta fatti normali, azioni che potremmo racchiudere nell’espressione “come al solito”: insegnava nelle Sinagoghe, Gesù, e il sabato, come al solito, era nel tempio a leggere le scritture. Gesti abituali, se vogliamo ripetitivi, ma la novità della prima predica è proprio nel passo di Isaia: “lo spirito del Signore Dio è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”. Un programma niente male, quasi manifesto, diremmo noi oggi, di un possibile impegno di governo. Ma, come sappiamo, il regno che Gesù proclama non è di questa terra, né come gli uomini lo vorrebbero. Ma torniamo a Luca. Riavvolto il rotolo, gli sguardi dei fedeli sono su Gesù; un silenzio carico di tensione rotto da queste parole: “oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato”.
Oggi. La Bibbia, anche oggi, svela a noi chi è davvero Dio, afferma Francesco nell’omelia nella basilica di San Pietro, celebrazione durante la quale ha conferito, per la prima volta, i ministeri di lettori e catechisti a 16 laici, tra cui due donne una pakistana e una coreana. La Bibbia ci dice che Dio “non è un padrone arroccato nei cieli, ma un Padre che segue i nostri passi. Non è un freddo osservatore distaccato e impassibile, un Dio ‘matematico’. È il Dio-con-noi, che si appassiona alla nostra vita e si coinvolge fino a piangere le nostre lacrime”. La sua Parola parla anche oggi a chi sa ascoltare “per riaccendere la speranza dentro le ceneri delle tue paure, per farti ritrovare la gioia nei labirinti delle tue tristezze, per riempire di speranza l’amarezza delle solitudini”. È una parola che nutre e rinnova la fede perché “abbatte i falsi idoli, smaschera le nostre proiezioni, distrugge le rappresentazioni troppo umane di Dio e ci riporta al suo volto vero, alla sua misericordia”.
Gesù ancora una volta pone al centro della sua vita e delle relazioni la Parola di Dio, e ciò che “riempie di senso con la potenza dello Spirito è l’oggi”. Così il Papa, all’Angelus, riflette sulle “nostre prediche e i nostri insegnamenti” che “rimangono generici, astratti, non toccano l’anima e la vita della gente”, perché mancano della forza dell’oggi di Gesù. “Oggi ti sta parlando. Sì, a volte si ascoltano conferenze impeccabili, discorsi ben costruiti, che però non smuovono il cuore e così tutto resta come prima. Anche tante omelie – lo dico con rispetto ma con dolore – sono astratte, e invece di svegliare l’anima l’addormentano”.
Se manca l’oggi di Gesù, afferma il vescovo di Roma, la predicazione “scade nel moralismo o in concetti astratti; presenta il Vangelo con distacco, come se fosse fuori dal tempo, lontano dalla realtà. Questa non è la strada. Ma una parola in cui non pulsa la forza dell’oggi non è degna di Gesù e non aiuta la vita della gente”.
Gesù a Nazareth afferma che “è inviato per andare incontro ai poveri”. E i poveri di oggi sono i migranti che muoiono in mare “perché non li lasciamo sbarcare. E questo alcuni lo fanno in nome di Dio”. Sono, ancora, le donne e gli uomini che in Ucraina vivono il rischio di un conflitto che “mette in discussione la sicurezza in Europa e nel mondo”. Per questo Francesco invita a celebrare, il 26 gennaio, una giornata di preghiera per la pace. (Fabio Zavattaro - Sir)
La Domenica del Papa: la premura di Gesù
17 Gennaio 2022 - Città del Vaticano - “Non è ancora giunta la mia ora”. Il quarto Vangelo ci porta nella cittadina di Cana dove “il terzo giorno ci fu una festa”, scrive Giovanni. Non un giorno qualsiasi ma il terzo giorno, nel quale avviene la terza manifestazione di Gesù, dopo l’epifania, quando l’abbiamo trovato nella mangiatoia visitato dai magi venuti dall’Oriente; dopo il battesimo sulle rive del Giordano, l’inizio dell’attività pubblica del Signore. Siamo a Cana di Galilea, dunque, e durante una festa di nozze si compie il primo miracolo. Curiosità: in primo piano non è tanto un matrimonio, degli sposi non conosciamo i nomi e nel brano di Giovanni una sola volta leggiamo la parola sposo; anche la Madonna non viene mai chiamata per nome, ma solo con la parola madre. Cosa è avvenuto, allora, in quel terzo giorno? Con l’immagine delle nozze Giovanni ci propone il tema dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nel dire che ci troviamo nel terzo giorno, il legame tra Antico e Nuovo Testamento: nell’Esodo, il terzo giorno – il Sinai, “sul far del mattino vi furono tuoni e lampi … era sceso il Signore nel fuoco” – è il giorno in cui Dio sancisce l’alleanza con il popolo di Israele, donando a Mosè le Tavole della Legge. Il terzo giorno è anche la pietra rotolata, le donne giunte al sepolcro vuoto. Cana, in ebraico significa creare, fondare; è un segno, dunque, un simbolo di una nuova fondazione che richiama l’antica alleanza e la rinnova nell’acqua tramutata in vino.
“Donna, che vuoi da me. Non è ancora giunta la mia ora”, dice Gesù alla Madre, prima di compiere quanto gli è stato chiesto. Per questo “nuovo inizio” c’era bisogno dell’intervento, della sollecitudine della Madonna; un atteggiamento che Michelangelo ha efficacemente raffigurato nel Giudizio della Sistina, dove la vediamo accanto al figlio, ma con lo sguardo rivolto verso il basso, là dove ci sono uomini e donne in attesa di conoscere la loro sorte, quasi a voler continuare la sua opera chiedendo misericordia per l’umanità.
Nel racconto di Cana, Giovanni non parla di miracolo, ma di “inizio dei segni compiuti da Gesù”. All’Angelus Papa Francesco spiega che il segno “è un indizio che rivela l’amore di Dio, che non richiama cioè l’attenzione sulla potenza del gesto, ma sull’amore che lo ha provocato. Ci insegna qualcosa dell’amore di Dio, che è sempre vicino, tenero e compassionevole”. E come avviene questo segno? La Madonna si accorge del problema e avvisa il figlio chiedendo ai servi di eseguire ciò che dirà loro; e Gesù lo farà in punta di piedi, senza clamore: “così agisce Dio, con vicinanza, con discrezione”. E i discepoli, dice il Papa, “vedono anche il modo di agire di Gesù, questo suo servire nel nascondimento, così è Gesù: ci aiuta, ci serve nel nascondimento. Così comincia a svilupparsi in loro il germe della fede, cioè credono che in Gesù è presente Dio, l’amore di Dio”. Pagina ricca di simbolismo, questa di Giovanni, che mette in risalto il tema dell’alleanza: invito a guardare alla resurrezione, ma anche a volgere lo sguardo indietro, al Sinai.
Ma c’è un secondo aspetto che Francesco evidenzia, nelle sue parole, all’Angelus: il primo segno di Gesù non è una guarigione, un miracolo, ma un gesto che viene in aiuto a una festa di nozze – anche qui potremmo chiederci: chi è il vero sposo e quale metafora per le nozze – “ma un gesto che viene incontro a un bisogno semplice e concreto di gente comune, un gesto domestico, un miracolo, diciamo così, ‘in punta di piedi’, discreto, silenzioso”. Questo perché Gesù “è pronto ad aiutarci, a risollevarci”. Segni, dunque, attraverso i quali “veniamo conquistati dal suo amore e diventiamo suoi discepoli”.
Poi il vino. La festa si conclude non con un vino meno buono, annacquato, ma con il vino migliore. Simbolicamente questo ci dice, afferma il Papa, “che Dio vuole per noi il meglio, ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi. Nel segno di Gesù non c’è spazio per secondi fini, per pretese verso gli sposi. No, la gioia che Gesù lascia nel cuore è gioia piena e disinteressata. Non è una gioia annacquata!”
Di qui l’invito che fa a noi il Papa di “frugare tra i ricordi alla ricerca dei segni che il Signore ha compiuto” nella vita di ognuno; “segni che ha fatto per mostrarci che ci ama” e “chiediamoci: con quali segni, discreti e premurosi, mi ha fatto sentire la sua tenerezza?” (Fabio Zavattaro - SIR)
La Domenica del Papa: Preghiera, dialogo con Dio
10 Gennaio 2022 - Città del Vaticano - Pochi giorni fa, il Vangelo ci ha raccontato la nascita in quella mangiatoia di Betlemme, dove i primi a arrivare sono stati gli umili, i pastori; poi ecco i tre sapienti dall’Oriente, una lunga strada percorsa con la guida di una stella: uomini in ricerca, potremmo dire con le parole di oggi. Papa Francesco ha parlato, tre giorni fa, della sana inquietudine dei magi che nasce dal desiderio di conoscere, di “accogliere la vita come un mistero che ci supera”; così adorano e si prostrano davanti a quel piccolo, accogliendo “con umiltà colui che si presenta nell’umiltà”, perché “la loro vera ricchezza non consiste nella fama, nel successo, ma nell’umiltà, ma nel loro ritenersi bisognosi di salvezza”.
Trenta anni di silenzio, a parte l’episodio della Sinagoga, dodicenne seduto tra i maestri del tempio a Gerusalemme, e la prima immagine che Luca ci propone è quella di un uomo, confuso tra i peccatori, sulla riva del fiume Giordano, in attesa di essere battezzato da Giovanni. In questa attesa c’è tutto il significato del messaggio che Gesù porta al mondo: è il figlio di Dio – “tu sei il figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” dice la voce che viene dal cielo – eppure sceglie di mettersi in fila in mezzo al suo popolo, per sottoporsi al rito di penitenza e di purificazione. Si manifesta per la prima volta non con gesti di potenza, ma assieme a chi manifesta pubblicamente la propria inadeguatezza.
Dopo gli anni del nascondimento vissuti a Nazareth, afferma Papa Francesco all’Angelus, “Gesù non si presenta con qualche miracolo o salendo in cattedra per insegnare. Si mette in fila con il popolo che andava a ricevere il battesimo da Giovanni”. Nel ricordare le parole dell’inno liturgico – il popolo andava a farsi battezzare con l’anima e i piedi nudi – Gesù, dice il vescovo di Roma, “condivide la sorte di noi peccatori, scende verso di noi: discende nel fiume come nella storia ferita dell’umanità, si immerge nelle nostre acque per risanarle, si immerge con noi, in mezzo a noi. Non sale al di sopra di noi, ma scende verso di noi, con l’anima nuda, con i piedi nudi, come il popolo. Non va da solo, né con un gruppo di eletti privilegiati, no, va con il popolo. Appartiene a quel popolo e va con il popolo a farsi battezzare, con quel popolo umile”.
Il suo, possiamo dire, è un viaggio ‘in discesa’: dalla Galilea, dal nord, scende verso il sud; scende a 400 metri sotto il livello del mare della depressione del fiume Giordano. Salirà poi a Gerusalemme, dove troverà la morte, un’altra discesa, nell’oscurità del sepolcro, per poi salire di nuovo, ben oltre la città terrena, e raggiungere la Gerusalemme celeste. Nel battesimo c’è già tutta la forza e la speranza della resurrezione, di quella Pasqua che vince il buio della morte.
Gesù, ricordava Benedetto XVI, “è l’uomo nuovo che vuole vivere da figlio di Dio, cioè nell’amore; e di fronte al male del mondo, sceglie la via dell’umiltà e della responsabilità, sceglie non di salvare se stesso, ma di offrire la propria vita per la verità e la giustizia”.
Dopo aver battezzato, nella Cappella Sistina, sedici neonati, Francesco, all’Angelus, mette in evidenza i due momenti della vita di Gesù: “da una parte scende verso di noi, nelle acque del Giordano; dall’altra eleva lo sguardo e il cuore pregando il Padre”. È un “grande insegnamento” afferma il Papa, perché “tutti siamo immersi nei problemi della vita e in tante situazioni intricate, chiamati ad affrontare momenti e scelte difficili che ci tirano in basso. Ma, se non vogliamo restare schiacciati, abbiamo bisogno di elevare tutto verso l’alto”. Ecco la preghiera, che “non è una via di fuga, né un rito magico o una ripetizione di cantilene imparate a memoria. No. Pregare è il modo per lasciare agire Dio in noi, per cogliere quello che Lui vuole comunicarci anche nelle situazioni più difficili, pregare per avere la forza di andare avanti”. La preghiera “è dialogare con Dio, è ascoltare la sua parola, è adorare: stare in silenzio affidandogli ciò che viviamo. A volte è anche gridare a lui, come Giobbe, sfogarsi con lui … è padre, ci capisce bene e mai si arrabbia con noi”.
Infine, Francesco torna a parlare del battesimo e chiede di ricordarne la data, perché, diceva sei anni fa, “si riceve una sola volta, ma va testimoniato tutti i giorni”. (Fabio Zavattaro - Sir)
La Domenica del Papa: alzarsi, in fretta
20 Dicembre 2021 - Città del Vaticano - La liturgia di questa quarta domenica di Avvento già ci accompagna nel cuore del mistero di un Dio che non solo visita il suo popolo, ma sceglie di dimorare stabilmente in mezzo ad esso; che opera una sorta di capovolgimento dei criteri e delle attese dell’uomo, di ieri e di oggi. Betlemme è un piccolo borgo della Giudea che ha dato i natali a re Davide che riunirà tutte le tribù di Israele in un’unica realtà politica. È in questa borgo, “così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda”, che vede la luce “colui che deve essere il dominatore di Israele” come leggiamo nel testo del profeta Michea. Natale, allora, “non è una favola per bambini, ma la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca della vera pace”, diceva Benedetto XVI, per il quale c’è “un disegno divino che comprende e spiega i tempi e i luoghi della venuta del figlio di Dio nel mondo”, disegno di pace, come leggiamo in Michea.
La domenica di papa Francesco è incontro con i bambini assistiti al dispensario pediatrico Santa Marta in Vaticano; è messaggio all’università cattolica, inaugurazione dell’anno accademico nel centenario della sua nascita, appello ai giovani a non avere paura di porre domande, di cercare risposte, e combattere così la deriva individualista. È incontro con le ventimila persone in piazza per l’Angelus, invito a imitare Maria che, dopo il suo “sì”, dopo l’annuncio dell’angelo, “si alzò e andò in fretta” da Elisabetta. Due donne in attesa, due bambini non ancora nati, immagini del disegno di Dio che agisce nella storia.
Alzarsi e camminare in fretta, dice papa Francesco, “sono i due movimenti che Maria ha fatto e che invita anche noi a fare in vista del Natale”. Per Maria, ricorda il vescovo di Roma, “si profilava un periodo difficile: la sua gravidanza inattesa la esponeva a incomprensioni e anche a pene severe, anche alla lapidazione, nella cultura di quel tempo. Immaginiamo quanti pensieri e turbamenti aveva. Tuttavia, non si scoraggia, non si abbatte, ma si alza. Non volge lo sguardo in basso, verso i problemi, ma in alto, verso Dio. E non pensa a chi chiedere aiuto, ma a chi portare aiuto”. Anche Dante, nella sua Divina Commedia, esalta questo andare verso l’altro, perché “la sua benignità” non solo viene in aiuto a chi chiede il suo intervento, ma spontaneamente anticipa la domanda, o, come scrive il poeta, “molte fiate liberamente al dimandar precorre”.
Francesco chiede, nelle parole che precedono la preghiera mariana, di imparare da Maria a reagire in questo modo: “alzarci, soprattutto quando le difficoltà rischiano di schiacciarci”. Alzarsi, afferma ancora, “per non rimanere impantanati nei problemi, sprofondando nell’autocommiserazione e in una tristezza che paralizza”. Alzarsi perché “Dio è grande ed è pronto a rialzarci se noi gli tendiamo la mano. Allora gettiamo in lui i pensieri negativi, le paure che bloccano ogni slancio e impediscono di andare avanti”. Di più guardiamoci attorno, dice il Papa, “cerchiamo qualche persona cui possiamo essere di aiuto”, qualche anziano “cui posso fare un po’ di compagnia, un servizio, una gentilezza, una telefonata? Aiutando gli altri, aiuteremo noi stessi a rialzarci dalle difficoltà”.
Poi il secondo movimento: andò in fretta. “Maria si mette in viaggio con generosità, senza lasciarsi intimorire dai disagi del tragitto, rispondendo a un impulso interiore che la chiama a farsi vicina e a dare aiuto. Una lunga strada, chilometri e chilometri, e non c’era un bus che andava: è dovuta andare a piedi. Lei esce per dare aiuto, condividendo la sua gioia”.
Andare in fretta non significa “procedere con agitazione, in modo affannato: si tratta invece di condurre le nostre giornate con passo lieto, guardando avanti con fiducia, senza trascinarci di malavoglia, schiavi delle lamentele, che rovinano la vita, sempre alla ricerca di qualcuno da incolpare”.
Papa Francesco chiede di pensare ai nostri passi, positivi “oppure mi attardo nella malinconia. Vado avanti con speranza o mi fermo per piangermi addosso? Se procediamo con il passo stanco dei brontolii e delle chiacchiere, non porteremo Dio a nessuno. Soltanto porteremo amarezza e cose oscure”. Fa bene, invece, “un sano umorismo”, perché “il primo atto di carità che possiamo fare al prossimo è offrirgli un volto sereno e sorridente”. (Fabio Zavattaro – SIR)
La domenica del Papa: “ruminare” il comandamento dell’amore
1 Novembre 2021 - Città del Vaticano - Mentre si chiude a Roma il G20 che ha registrato un timidissimo impegno sulla transizione ecologica, si apre a Glasgow la 26ma Conferenza sul cambiamento climatico, la COP26, con l’obiettivo, almeno a parole, di mantenere gli impegni presi nel 2015 a Parigi e di ridurre a zero le emissioni di gas serra entro il 2050. In piazza San Pietro, papa Francesco invita a visitare la mostra fotografica Laudato si’ opera di un giovane fotografo originario del Bangladesh. E scrive, nella prefazione al libro Laudato si’ Reader, pubblicata in anteprima dal Corriere della sera, che “il grido della terra e il grido dei poveri, che ho presentato nella Laudato si’ come conseguenza emblematica del nostro fallimento nel prenderci cura della nostra casa comune, è stato amplificato di recente dall’emergenza del Covid 19, che l’umanità sta ancora cercando di contrastare. Perciò una crisi ecologica, rappresentata dal grido della terra, e una crisi sociale, rappresentata dal grido dei poveri, sono state rese letali da una crisi sanitaria: la pandemia del Covid 19”. Così all’Angelus il Papa prega perché “il grido della terra e dei poveri sia ascoltato”, e auspica che l’incontro di Glasgow “possa dare risposte efficaci”.
Custodire il creato e amare il prossimo. C’è anche un po’ di sintonia con quanto leggiamo nel Vangelo di Marco, l’incontro di Gesù con uno scriba – uno solo e non un gruppo, come altre volte abbiamo avuto modo di leggere nei testi degli evangelisti – il quale chiede quale sia il primo dei comandamenti. Domanda che implica, in un certo senso, una gerarchia, un ordine, secondo il quale, osservando il primo della lista si è in sintonia con la parola e la volontà di Dio.
È il comandamento dell’amore in cui l’altro, il prossimo, deve essere amato come fosse la nostra stessa persona; e Dio deve essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza. Lo scriba, scrive Marco, ripete, con parole simili, la risposta ricevuta da Gesù. Ed è questo ripetere che papa Francesco mette in primo piano nel suo discorso prima della preghiera mariana, utilizzando un termine che trae dalla tradizione monastica: ruminare. Per il vescovo di Roma, dunque, la ripetizione è importante, perché “la parola del Signore non può essere ricevuta come una qualsiasi notizia di cronaca: va ripetuta, fatta propria, custodita. La tradizione monastica usa un termine audace ma molto concreto: la Parola di Dio va ‘ruminata’. Possiamo dire che è così nutriente che deve raggiungere ogni ambito della vita”.
Non basta essere abili commentatori, dice il Papa; la parola di Dio occorre farla entrare nella propria vita. Il Signore “cerca cuori docili che, accogliendo la sua parola, si lasciano cambiare dentro. Ecco perché è così importante familiarizzare con il Vangelo”. In questo modo “ognuno di noi può diventare una traduzione vivente, diversa, e originale dell’unica parola di amore che Dio ci dona”.
Il comandamento dell’amore non può rimanere lettera morta, aggiunge ancora Francesco. Come cristiani siamo chiamati a essere testimoni di un modo diverso di essere accanto all’altro, di guardare al creato per rispettarlo e esserne custodi. Per questo Francesco chiede, nella prefazione del libro, di “sviluppare una nuova forma di solidarietà universale che sia fondata sulla fratellanza, sull’amore, sulla comprensione reciproca: una solidarietà che valorizzi le persone più del profitto, che cerchi nuovi modi di intendere sviluppo e progresso”. Peggio di questa crisi, diceva il Papa nel maggio dello scorso anno, c’è solo il rischio di sprecarla.
Oggi ci troviamo a fare i conti con resistenze e interessi che escludono le persone in nome del profitto. Ecco allora che il grido della terra e dei poveri diventa davvero assordante. Già Paolo VI metteva in guardia il mondo, dicendo che i popoli della fame interpellano drammaticamente i popoli dell’opulenza, e questo accadeva nel 1985. Grido inascoltato allora, come inascoltato è l’appello di papa Francesco nella sua Laudato si’, che oggi ci chiede di non uscire da questa crisi “uguali a quando vi siamo entrati”. (Fabio Zavattaro - SIR)
La domenica del Papa: la logica dell’amore umile
13 Settembre 2021 - Città del Vaticano - C’è la storia d’Ungheria nella piazza dove Papa Francesco celebra la conclusione del 52mo Congresso eucaristico internazionale, prima di raggiungere la Slovacchia, trentaquattresimo viaggio internazionale. Il monumento ricorda, nelle statue lungo il colonnato, i sette capi tribù che hanno dato vita alla nazione ungherese, i cinque membri della dinastia degli Asburgo; su quella piazza nel giugno del 1989 si è svolta una cerimonia per commemorare Imre Nagy, ucciso nel 1958 dalla repressione sovietica. Sempre su questa piazza Giovanni Paolo II, al termine della celebrazione per la festa di Santo Stefano patrono d’Ungheria, rivolse un appello per la liberazione del segretario generale del Pcus, Michail Gorbaciov, recluso in una località segreta dopo un tentativo di colpo di stato. Il Papa chiedeva di non fermare il processo iniziato da Gorbaciov.
Su questa piazza papa Francesco parla all’Europa, in un tempo difficile, per il vecchio continente. Parla della croce e, citando l’inno del Congresso eucaristico, si rivolge così agli ungheresi: “per mille anni la croce fu colonna della tua salvezza, anche ora il segno di Cristo sia per te la promessa di un futuro migliore”. La croce come “ponte tra il passato e il futuro”; invito a “radicarci bene”; croce che “innalza ed estende le sue braccia verso tutti: esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; a attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. L’augurio di Francesco: “che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi”. Parole che esprimono accoglienza, attenzione all’altro, nella nazione che ha come primo ministro Viktor Orbàn capofila del sovranismo, fautore di politiche, soprattutto in materia di accoglienza, certo non in sintonia con le idee del Papa, oltre che dell’Europa comunitaria. Ancora, incontrando i rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese – c’è anche il patriarca ortodosso Bartolomeo – delle comunità ebraiche, decimate dall’odio nazista, Francesco evoca “la minaccia dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. È una miccia che va spenta. Ma il miglior modo per disinnescarla è lavorare in positivo insieme, è promuovere la fraternità”.
Angelus davanti a centomila persone, invito a seguire “la logica di Dio” che non è ricerca del successo personale, ma servizio agli altri, è lasciare che Gesù “risani le nostre chiusure e ci apra alla condivisione, ci guarisca dalle rigidità e dal ripiegamento su noi stessi”, è seguire la croce che “estende le sue braccia verso tutti”. Cristo “pane spezzato” che “si lascia spezzare, distribuire, mangiare”. Per salvarci “si fa servo; per darci vita, muore”. Angelus nella domenica in cui il Vangelo ci descrive l’inizio del cammino di Gesù da Cesarea di Filippo, nell’estremo nord del territorio della Palestina, verso Gerusalemme, il luogo del compimento delle scritture; un pellegrinaggio che, per la prima volta, annuncia segnato da sofferenze, morte, rifiuto, il venerdì seguito dalla domenica di resurrezione. Marco ci racconta la reazione di Pietro, tipicamente umana: quando si profila la croce, la prospettiva del dolore, l’uomo si ribella. E Pietro, dopo aver confessato la messianicità di Gesù, si scandalizza delle parole del Maestro e tenta di dissuaderlo dal procedere sulla sua via. La croce non è mai di moda, ma “guarisce dentro”. È davanti al Crocifisso che sperimentiamo una benefica lotta interiore, l’aspro conflitto tra il “pensare secondo Dio” e il “pensare secondo gli uomini”. Da un lato, c’è la logica di Dio, che è quella dell’amore umile. La via di Dio rifugge da ogni imposizione, ostentazione, da ogni trionfalismo, è sempre protesa al bene altrui, fino al sacrificio di sé. Dall’altro lato c’è il “pensare secondo gli uomini”: è la logica del mondo, della mondanità, attaccata all’onore e ai privilegi, rivolta al prestigio e al successo.
La differenza, per Francesco, “non è tra chi è religioso e chi no”, ma “tra il vero Dio e il dio del nostro io. Quanto è distante colui che regna in silenzio sulla croce dal falso dio che vorremmo regnasse con la forza e riducesse al silenzio i nostri nemici! Quanto è diverso Cristo, che si propone solo con amore, dai messia potenti e vincenti adulati dal mondo!”. Gesù scuote le “nostre chiusure”, ci apre “alla condivisione”, guarisce le nostre rigidità. (Fabio Zavattaro - Sir)