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Acqua che rinnova

7 Novembre 2022 - Città del vaticano - Ha terminato il suo lungo viaggio verso Gerusalemme, viaggio che abbiamo seguito di domenica in domenica, attraverso il racconto di Luca. Gesù ha raggiunto, dunque, la sua meta, il luogo di quell’esodo del quale aveva parlato con Mosè e Elia sul monte della Trasfigurazione. Viaggio fatto anche di incomprensioni, incredulità, sconfitte. Le sue parole hanno colpito, convinto, cambiato; ma hanno anche messo in difficoltà le coscienze. Nel suo cammino ha guarito anche di sabato, ha mangiato nelle case dei peccatori. In questa domenica Gesù si trova coinvolto in una polemica tra farisei e sadducei – il partito dei sacerdoti, negano la risurrezione – e condivide le domande dell’uomo sulla vita, la morte. Anche Papa Francesco è al termine del suo viaggio in Bahrain, la prima volta di un Papa in questo arcipelago nel Golfo Persico, tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, Iran e l’Iraq. Paese a maggioranza musulmana, ma aperto alle altre religioni, come ha detto Abdulla Atiya Sayed nell’incontro con i giovani: nella scuola del Sacro Cuore “ho avuto l’opportunità di celebrare non solo l’Eid (la festa della rottura del digiuno che, nel mondo musulmano, segna la fine del Ramadan); ho celebrato il Natale, il Diwali (la festa delle luci nel mondo indiano) e molte altre feste che scaldano il cuore … non c’era discriminazione se uno partecipava alla festa dell’altro”. Proprio l’unità nella diversità è il primo grande messaggio che Papa Francesco ha voluto consegnare in Bahrain, omelia allo stadio nazionale, chiedendo di “non avere nemici, non vedere nell’altro un ostacolo da superare, ma un fratello e una sorella da amare”. Nelle parole pronunciate in questi giorni del suo 39mo viaggio apostolico, Francesco ha utilizzato diverse immagini da lasciare come momento di riflessione in questo paese dove “imponenti grattacieli affiancano i tradizionali mercati orientali, antichità e modernità convergono, storia e progresso si fondano; genti di varie provenienze formano un originale mosaico di vita”. Ecco l’albero della vita – “emblema di vitalità che caratterizza il paese” – una maestosa acacia che si trova in un’area desertica, dove le piogge sono scarso. Il messaggio è nelle radici e in questa pianta; dice il Papa: “pensiamo all’albero della vita e negli aridi deserti della convivenza umana distribuiamo l’acqua della fraternità: non lasciamo evaporare la possibilità dell’incontro tra civiltà, religioni e culture, non permettiamo che si secchino le radici dell’umano”. Così nell’incontro di preghiera svoltosi domenica prima della partenza, Papa Francesco, ricordando il Vangelo di Giovanni, ha parlato “dell’acqua viva che sgorga dal Cristo e dai credenti”, e ha riproposto l’immagine del deserto: “in superficie emerge la nostra umanità, inaridita da tante fragilità, paure, sfide che deve affrontare, mali personali e sociali di vario genere; ma nel sottofondo dell’anima, proprio dentro, nell’intimo del cuore, scorre calma e silenziosa l’acqua dolce dello Spirito, che irriga i nostri deserti, ridona vigore a quanto rischia di seccare, lava ciò che ci abbruttisce, disseta la nostra sete di felicità. E sempre rinnova la vita. È di questa acqua viva che parla Gesù”. La gioia è uno dei doni dello Spirito Santo assieme alla profezia e all’unità, ricorda Francesco. Per questo non può esserci spazio “”per le opere della carne, cioè dell’egoismo: per le divisioni, le liti, le maldicenze, le chiacchiere” che distruggono l’unità. Ancora, “le divisioni del mondo, e anche le differenze etniche, culturali e rituali, non possono ferire o compromettere l’unità dello Spirito”; e quando, a Pentecoste, lo Spirito del risorto “discende sui discepoli, diventa sorgente di unità e di fratellanza contro ogni egoismo”. Da qui scaturisce il messaggio del Papa, e, soprattutto, la preghiera per la fine dei conflitti che insanguinano il mondo. Francesco parla di Etiopia – “si continuino a percorrere le vie del dialogo” – di Libano, della “martoriata Ucraina”, preghiera “perché la guerra finisca”. Il Dio della pace, ha detto parlando ai membri del Muslim Council, “mai conduce alla guerra, mai incita all’odio, mai asseconda la violenza”; l’incontro, le trattative pazienti e il dialogo sono “l’ossigeno della convivenza comune”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Questione di sguardo

31 Ottobre 2022 -

Città del Vaticano - Due sguardi che si cercano: da una parte Zaccheo che cerca il rabbi di Galilea; dall’altra Gesù che cerca il volto di quell’uomo su un albero di sicomoro. Non uno stinco di santo, il pubblicano Zaccheo di Gerico, capo dei pubblicani, degli esattori dei tributi che i giudei dovevano pagare ai romani; non godeva di buona fama nella sua città, tutti lo conoscevano e tutti ne avevano timore. I pubblicani spesso approfittavano della loro posizione per estorcere denaro alla gente e per questo erano considerati pubblici peccatori. Zaccheo si faceva vedere raramente in giro, ma quel giorno non poteva non uscire. La gente di Gerico – città antichissima con i suoi 8 o forse 9 mila anni di storia – si accalcava sulle strade per vedere Gesù, e lui voleva essere tra i primi a incontrarlo. Lui che con i soldi aveva sempre comperato tutto, quel giorno non riesce a conquistare la prima fila. Allora sale su un albero. Si sistema bene tra i rami e guarda, cerca il rabbi di Galilea che tutti vogliono toccare. Ha un posto privilegiato, ancora una volta. Lui vuole vedere, cercare quel volto, ma è Cristo che lo cerca, lo vede e gli dice: “Zaccheo scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua”.

Che sorpresa: lui, un pubblicano, scelto tra tanti, forse, avrà pensato, proprio per il suo ruolo nella comunità. Anche per la gente di Gerico è una sorpresa: Cristo che predica bene ma razzola male, va a casa di un peccatore; parla di povertà e va a mangiare a casa del ricco ladro. Ma Cristo rompe il cerchio e va al di là gli schemi ovvi: d’altra parte, non ha detto che è venuto proprio per i peccatori? “Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, leggiamo in Luca. Nei Vangeli, nella Bibbia si incontrano peccatori: Giacobbe, ad esempio, era un traditore, Pietro un pescatore irascibile; David un adultero, Giona un ateo, Paolo un persecutore dei cristiani. Zaccheo, il pubblicano, sente il bisogno di “cercare un altro sguardo”, dice Papa Francesco all’Angelus, e “aspetta qualcuno che lo liberi della sua condizione, moralmente bassa, che lo faccia uscire dalla palude in cui si trova”. Zaccheo, “piccolo di statura”, è sul sicomoro e Gesù lo cerca, gli dice di scendere, di aprire la sua casa; per vederlo deve alzare lo sguardo. Afferma Francesco: “Dio non ci ha guardato dall’alto per umiliarci e giudicarci; al contrario si è abbassato fino a lavarci i piedi, guardandoci dal basso e restituendoci dignità”. Questo incrocio di sguardi per il vescovo di Roma, riassume “l’intera storia della salvezza: l’umanità con le sue miserie cerca la redenzione, ma anzitutto Dio con misericordia cerca la creatura per salvarla”. Lo sguardo di Dio, afferma il Papa, “non si ferma mai al nostro passato pieno di errori, ma guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare. E se a volte ci sentiamo persone di bassa statura, non all’altezza delle sfide della vita e tanto meno del Vangelo, impantanati nei problemi e nei peccati, Gesù ci guarda sempre con amore; come con Zaccheo ci viene incontro, ci chiama per nome e, se lo accogliamo, viene a casa nostra”. L’invito di Francesco è duplice: da un lato chiede di guardare noi stessi e di cercare l’incontro con Gesù quando ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo; dall’altro, ci chiede quale “sguardo abbiamo verso coloro che hanno sbagliato e faticano a rialzarsi dalla polvere dei loro errori? È uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza, che esclude?”. Per il Papa “è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi. Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione”. Questo è lo sguardo della Chiesa. Angelus nel quale Francesco, dopo la recita della preghiera mariana, ha parole per condannare l’attentato terroristico che a Mogadiscio ha ucciso più di cento persone, tra cui molti bambini: “Dio converta i cuori dei violenti”. Prega ancora, per le centinaia di vittime, soprattutto giovani, mentre, nella notte di Seul, festeggiavano lungo le strade della città. E prega sempre per la “martoriata Ucraina. Preghiamo per la pace, non ci stanchiamo di farlo”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Superbia spirituale

24 Ottobre 2022 - Città del Vaticano - Ci sono tre giovani che si affacciano dalla finestra dello studio accanto a Papa Francesco, dopo la recita della preghiera dell’Angelus. A Lisbona, nel mese di agosto del prossimo anno, ci sarà la Giornata mondiale della gioventù e il Papa e quei ragazzi sono i primi a iscriversi all’evento: “dopo un lungo periodo di lontananza, ritroveremo la gioia dell’abbraccio fraterno tra i popoli e tra le generazioni, di cui abbiamo tanto bisogno”. È la domenica dedicata alla Giornata missionaria; il Papa chiede di “sostenere i missionari con la preghiera e con la solidarietà concreta” affinché possano “proseguire nel mondo intero l’opera di evangelizzazione e di promozione umana”. Missionari che pagano con la vita la loro testimonianza, come la religiosa Suor Marie-Sylvie Kavuke Vakatsuraki uccisa, assieme a altre sei persone tre giorni fa nel villaggio di Maboya nella regione Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Ancora, è la domenica in cui Francesco prega “per l’unità e la pace dell’Italia” nel giorno in cui ha inizio il lavoro del nuovo Governo. E pace chiede per l’Etiopia – “la violenza non risolve le discordie, ma soltanto ne accresce le tragiche conseguenze” – per l’Ucraina “così martoriata”; e lo farà andando al Colosseo, martedì 25, assieme ai leader religiosi nell’incontro dal titolo “Il grido della pace”: “la preghiera è la forza della pace”. La preghiera è anche il tema centrale del brano del Vangelo di Luca, il pubblicano e il fariseo che salgono al tempio per pregare, un religioso e un peccatore ricorda il Papa. Salgono a pregare, ma sono due modi diversi di rivolgersi al Signore, tanto che, afferma Francesco, “soltanto il pubblicano si eleva veramente a Dio, perché con umiltà scende nella verità di sé stesso e si presenta così com’è, senza maschere, con le sue povertà”. Il fariseo, invece, prega come se Dio non ci fosse, è una preghiera incentrata sulla sua persona, si rivolge al Signore dicendo “ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Diceva Madre Teresa di Calcutta: chi giudica non ha il tempo per amare. Il Papa evidenzia i due verbi contenuti nella parabola riportata da Luca: salire e scendere. Il primo movimento, salire, richiama episodi della Bibbia, dice Francesco, “dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza: Abramo sale sul monte per offrire il sacrificio; Mosè sale sul Sinai per ricevere i comandamenti; Gesù sale sul monte, dove viene trasfigurato”. Salire “esprime il bisogno del cuore di staccarsi da una vita piatta per andare incontro al Signore”. Ma per “elevarci a Dio”, afferma ancora il vescovo di Roma, “c’è bisogno del secondo movimento: scendere”, perché per salire “dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore”. Nell’umiltà “diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi. Sarà lui a rialzarci, non noi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto”. Ecco la diversità della preghiera narrata nella parabola: il pubblicano “si ferma a distanza, non si avvicina, ha vergogna, chiede perdono, e il Signore lo rialza”. Invece il fariseo “si esalta, sicuro di sé”. La sua, afferma ancora il Papa, è “superbia spirituale”. Un rischio nel quale tutti possiamo cadere: così, “senza accorgerti, adori il tuo io e cancelli il tuo Dio. È un ruotare intorno a sé stessi. Questa è la preghiera senza umiltà”. L’invito di Francesco è di guardarci dentro, per capire se siamo come il pubblicano o il fariseo, se c’è “l’intima presunzione di essere giusti”, se ci “preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo”. Abbiamo bisogno di umiltà, per riconoscere i nostri limiti, i nostri errori ed omissioni, per poter veramente formare un cuore solo e un’anima sola”, diceva Benedetto XVI. Vigiliamo su narcisismo e esibizionismo, “fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra: io”. Così Papa Francesco ci dice che “dove c’è troppo io, c’è poco Dio”. Questa è la superbia spirituale. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: la preghiera rende forti

17 Ottobre 2022 - Nella pagina del Vangelo di ieri, Luca mette in primo piano un giudice, che non teme Dio e non ha rispetto per nessuno, e una vedova, cioè una persona che, assieme agli orfani e ai poveri, si trova, nella Bibbia, nella condizione di chi è senza difesa, è oppresso, esposto al sopruso, e, dunque, ha maggior bisogno di trovare chi possa prendere le sue difese. Con insistenza prega il giudice di darle giustizia, e questi alla fine cede: “anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. L’evangelista chiude il racconto con una domanda: “il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” È una domanda seria, afferma all’Angelus Papa Francesco. Se il Signore venisse oggi sulla terra “vedrebbe, purtroppo, tante guerre, tanta povertà, tante disuguaglianze, e al tempo stesso grandi conquiste della tecnica, mezzi moderni e gente che va sempre di corsa, senza fermarsi mai; ma troverebbe chi gli dedica tempo e affetto, chi lo mette al primo posto? E soprattutto chiediamoci: che cosa troverebbe in me, se il Signore oggi venisse, che cosa troverebbe in me, nella mia vita, nel mio cuore?” C’è un fil rouge che lega la parabola riportata da Luca e la domanda che conclude la pagina del Vangelo: la preghiera nel tempo dell’attesa. Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare. E se noi possiamo pregare solo grazie a una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera. Il contesto del racconto lucano è sempre il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che ormai è meta vicina. Ma vicino è anche il tempo della prova per lui e per i suoi discepoli. Allora assume un carattere del tutto particolare l’invito alla preghiera. Spesso ci concentriamo su cose urgenti ma non necessarie, dice Francesco ai fedeli in piazza San Pietro, “ci occupiamo e ci preoccupiamo di molte realtà secondarie; e magari, senza accorgerci, trascuriamo quello che più conta e lasciamo che il nostro amore per Dio si raffreddi poco a poco. Oggi Gesù ci offre il rimedio per riscaldare una fede intiepidita: la preghiera”. È “la medicina della fede, il ricostituente dell’anima”, afferma il Papa, ma deve essere costante: “se dobbiamo seguire una cura per stare meglio, è importante osservarla bene, assumere i farmaci nei modi e nei tempi dovuti, con costanza e regolarità”. Pregare per il vescovo di Roma è far entrare Dio “nel nostro tempo, nella nostra storia”. Preghiera che chiede per il “martoriato popolo ucraino e le altre popolazioni che soffrono per la guerra e ogni altra forma di violenza e di miseria”. Così ricorda l’iniziativa, il 18 ottobre, della Fondazione Aiuto alla chiesa che soffre: un milione di bambini che recitano il Rosario per la pace nel mondo. Dalla parabola, inoltre, emerge in modo chiaro che la preghiera rende forte una persona debole. Una vedova, che sembra non avere nemmeno figli, o quantomeno non se ne fa menzione, è in una posizione sociale ed economica non solo irrilevante, ma anche esposta a soprusi, abusi ed egoismi da parte di persone prepotenti. Continua a chiedere giustizia con ostinatezza a un giudice iniquo che non ha alcuna intenzione di perdere tempo con lei finché ottiene ciò che vuole e che è nel suo diritto. Se perfino il giudice disonesto ha fatto giustizia alla donna per la sua insistenza, “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?” leggiamo in Luca. Anche nella prima lettura tratta dall’Esodo, la battaglia contro Amalek e Mosè che alza le sue braccia al cielo, la forza debole della preghiera vince non per la guerra, ma la battaglia per la pace. E ci dice anche che l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro, come fecero Aronne e Cur con Mosè. Per questo Gesù parla “ai suoi discepoli – a tutti, non solo ad alcuni – della necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. Per questo ricorda “una pratica spirituale sapiente, che si è oggi un po’ dimenticata, e che i nostri anziani, soprattutto le nonne, conoscono bene”, le giaculatorie: piccoli “messaggini” per restare “sintonizzati con il Signore”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La guarigione, anche dal peccato, è un cammino

10 Ottobre 2022 - “Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. Dieci lebbrosi, dieci morti viventi. Uomini colpiti da una malattia che per la Bibbia e la cultura dell’epoca equivaleva alla morte. Lo chiamano per nome chiedendo il suo aiuto. Solo in due altre occasioni viene invocato con il suo nome nel Vangelo di Luca: dal cieco di Gerico e dal buon ladrone sulla croce. Tutto avviene ai margini del villaggio, “lungo il cammino verso Gerusalemme”. È la terza volta che l’evangelista ci ricorda che Gesù è in cammino verso la città santa, la sua, e la nostra, meta ultima. La strada lo porta a attraversare la Galilea e la Samaria. Nei pressi del villaggio i dieci uomini con le ferite della lebbra, cioè segnati dal peccato e per questo allontanati, emarginati, si avvicinano e lo chiamano “Gesù, maestro” e chiedono misericordia. Lui, non avvicinandosi, ordina loro di fare ciò che la legge comandava di fare ai lebbrosi, cioè di recarsi dai sacerdoti perché giudicassero lo stato della loro malattia. Non li guarisce subito, come ha fatto in altri casi, non li tocca nemmeno, ma li invia da coloro che devono attestarne la guarigione. I dieci, obbedendo, entrano nel villaggio e si rendono conto, camminando, di essere guariti: “e mentre essi andavano, furono purificati”. La guarigione, anche dal peccato, è un cammino. Proprio la dimensione del camminare insieme e del ringraziare, sono il cuore della riflessione di Papa Francesco, nell’omelia per la canonizzazione del vescovo Giovanni Battista Scalabrini e di Artemide Zatti. All’inizio del brano, Luca ci dice che “non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù”. Sottolinea il Papa: “il samaritano, anche se ritenuto eretico, straniero, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione”. Il numero dieci sta a significare l’intera umanità. Questo vuol dire che siamo tutti malati, peccatori, bisognosi di misericordia, dice Francesco, allora “smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli”. Dobbiamo essere capaci di camminare insieme agli altri, “di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere 'sinodali' - è anche la vocazione della Chiesa”. L’invito di Francesco è di essere comunità “aperte e inclusive verso tutti”. Di più, dice di avere paura “quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare”. Di qui la richiesta di “includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni”. Ricordando la figura e l’opera di Scalabrini, Francesco parla di “scandalosa esclusione dei migranti”; parla del Mediterraneo come “cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale”. L’altro aspetto toccato dal Papa, la capacità di ringraziare: dei lebbrosi guariti, ci dice Luca, nove vanno per la loro strada, torna solo il samaritano, cioè l’eretico per il giudaismo del tempo. È una brutta “malattia spirituale dare tutto per scontato, anche la fede”. Dice “no” il Papa a “cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire grazie”: sono “cristiani all’acqua di rose”. L’altro santo, Artemide Zatti, guarito dalla tubercolosi “dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza”. È una “grande lezione anche per noi che beneficiamo ogni giorno dei doni di Dio, ma spesso ce ne andiamo per la nostra strada dimenticandoci di coltivare una relazione viva, reale con lui”. Nel dopo Angelus, Papa Francesco ricorda i 60 anni dall’apertura del Concilio: anche allora, dice pensando al conflitto nel cuore dell’Europa, vi era il pericolo di una guerra nucleare che minacciava il mondo, “c’erano conflitti e grandi tensioni, ma si scelse la via pacifica”: perché non imparare dalla storia? (Fabio Zavattaro - SIR)

La domenica del Papa: in nome di Dio, tacciano le armi

3 Ottobre 2022 - Città del Vaticano - 221 giorno del conflitto in Ucraina, per la prima volta Papa Francesco si rivolge direttamente ai presidenti Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. L’andamento della guerra, dice, “è diventato talmente grave, devastante e minaccioso, da suscitare grande preoccupazione”, e rischia di trascinare il mondo in un conflitto atomico dalle conseguenze devastanti. Angelus diverso, atipico in piazza San Pietro; non commenta il Vangelo di Luca – dialogo con gli apostoli sul tema della fede – ma guarda direttamente al conflitto nel cuore dell’Europa, e manifesta tutta la sua preoccupazione per una crisi che rischia di allargarsi sempre più, per le conseguenze della guerra iniziata da Mosca. Tra un paio di settimane sono 60 anni dalla crisi dei missili di Cuba e, forse, è questo anniversario a spingere il Papa a rivolgersi direttamente ai due leader, come fece Giovanni XXIII con John Kennedy e Nikita Kruscev. Già il primo settembre 2013 Francesco scelse di dedicare alla guerra in Siria la riflessione che precede la preghiera dell’Angelus, per farsi interprete “del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace”. Così domenica parla di una ferita “terribile e inconcepibile” che “continua a sanguinare sempre più”; di “fiumi di sangue e di lacrime versati in questi mesi”; di migliaia di vittime, di bambini, di distruzioni, di famiglie senza casa minacciate da freddo e fame, di “luoghi di sofferenze e paure indescrivibili”, di assurda minaccia atomica: “certe azioni non possono mai essere giustificate”. Cos’altro deve succedere, si chiede Francesco, “quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio, e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate-il-fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. Soluzioni nel rispetto del valore della vita umana, “della sovranità e integrità di ogni paese”, dei diritti delle minoranze. Preoccupa la situazione, le azioni contrarie ai principi del diritto internazionale, e il “rischio di una escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale”. Nel giorno in cui Luca, nel suo Vangelo, scrive di una fede intensa, forte, che sa sperare contro ogni speranza – è la fede incrollabile di Abramo; è l’audacia di Giorgio La Pira che anima i colloqui di pace nel nord Africa, in Medio Oriente, ma anche nell’Est europeo e in Unione Sovietica, dove ai delegati del Soviet Supremo si rivolge dicendo che centinaia di suore di clausura stanno pregando per questa visita e per voi – Papa Francesco supplica il presidente della Federazione Russa “di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte”; e rivolge “un altrettanto fiducioso appello” al presidente ucraino, “addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita”, al quale chiede di “essere aperto a serie proposte di pace”. La sua sembra la voce di uno che grida nel deserto; voce inascoltata. Da Francesco, appello anche ai responsabili delle Nazioni ai quali chiede “con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo”. Facciamo respirare ai giovani dice il Papa “l’aria sana della pace, non quella inquinata della guerra, che è una pazzia”. In questi sette mesi del conflitto, il vescovo di Roma non ha mai fatto mancare la sua voce per chiede la pace, e mettere fine a violenze e morti. Così questa domenica chiede che si faccia ricorso “a tutti gli strumenti diplomatici” per far finire “questa immane tragedia: la guerra in sé stessa è un errore e un orrore”. Preghiera, dunque, confidando “nella misericordia di Dio, che può cambiare i cuori”, e nell’intercessione di Maria Regina della pace, nel giorno in cui, ricorda Francesco, nel Santuario di Pompei si recita la supplica alla Madonna del Rosario. (Fabio Zavattaro - Sir)

Il Pane eucaristico

26 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Una porta, quasi semplice velo li separa. Fuori, sulla strada, c’è un uomo che tende la mano per fame, per miseria; che si accontenta di raccogliere le briciole che cadono dal tavolo dell’altro uomo “vestito di porpora e di bisso”. Fuori c’è Lazzaro è un mendicante “coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi … perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe”, leggiamo il Luca. Nella casa abita un ricco mercante che l’evangelista indica solo con un aggettivo – “ricco” – perché, afferma il Papa, “ha perduto il suo nome e la sua identità è data solo dai beni che possiede. Com’è triste anche oggi questa realtà, quando confondiamo quello che siamo con quello che abbiamo, quando giudichiamo le persone dalla ricchezza che hanno, dai titoli che esibiscono, dai ruoli che ricoprono o dalla marca del vestito che indossano. È la religione dell’avere e dell’apparire, che spesso domina la scena di questo mondo, ma alla fine ci lascia a mani vuote”. È a Matera, la città del pane, Papa Francesco, chiude il 27° Congresso eucaristico nazionale, e la sua riflessione sul brano di Luca, prende spunto dal Pane eucaristico, che “crea condivisione, rafforza i legami, ha gusto di comunione”. Il ricco della parabola pensa solo al proprio benessere, a soddisfare i suoi bisogni e godersi la vita: “soddisfatto di sé, ubriacato dal denaro, stordito dalla fiera delle vanità, nella sua vita non c’è posto per Dio perché egli adora solo sé stesso”. Non così Lazzaro, il nome significa “Dio aiuta”, il quale “pur nella sua condizione di povertà e di emarginazione, egli può conservare integra la sua dignità perché vive nella relazione con Dio” che è “la speranza incrollabile della sua vita”. Francesco mette in guardia dall’adorare noi stessi, moriremmo “nell’asfissia del nostro piccolo io; se adoriamo le ricchezze di questo mondo, esse si impossessano di noi e ci rendono schiavi; se adoriamo il dio dell’apparenza e ci inebriamo nello spreco, prima o dopo la vita stessa ci chiederà il conto”. Mentre quando adoriamo il Signore Gesù “riceviamo uno sguardo nuovo anche sulla nostra vita”. Il ricco del Vangelo non ascolta il grido silenzioso del povero alla sua porta. Solo alla fine della vita, all’inferno, leggiamo in Luca, vede Lazzaro accanto a Abramo al quale chiede di mandarlo “a intingere nell’acqua la punta del dito per bagnarmi la lingua”. Una goccia d’acqua come le briciole della ricca mensa. Abramo risponde: “tra noi e voi è stato fissato un grande abisso”, un muro invalicabile come la porta che li divideva nella vita. Viene alla mente la notissima poesia di Totò – “a livella” – in cui il nobile marchese di Belluno e Treviso si lamenta perché vicino a lui è stato sepolto l’umile e povero netturbino; Totò fa rispondere il netturbino che dice: le pagliacciate delle differenze, delle distanze le fanno solo i vivi “nuje simmo serie… appartenimmo à morte”. Una parabola – Lazzaro e il ricco epulone – che è ancora storia dei nostri giorni, afferma il vescovo di Roma: “le ingiustizie, le disparità, le risorse della terra distribuite in modo iniquo, i soprusi dei potenti nei confronti dei deboli, l’indifferenza verso il grido dei poveri, l’abisso che ogni giorno scaviamo generando emarginazione, non possono lasciarci indifferenti”. L’Eucaristia “è profezia di un mondo nuovo”, e la presenza di Gesù impegno “perché accada un’effettiva conversione”: dall’indifferenza alla compassione; dallo spreco alla condivisione, dall’egoismo all’amore, dall’individualismo alla fraternità”. Il sogno di Francesco: “una Chiesa eucaristica” capace di essere accanto ai tanti Lazzaro che troviamo lungo le nostre strade, “asciugando le lacrime di chi soffre”. Una chiesa comunità che chiede pace in Ucraina, in Myanmar, da dove è giunto il grido di dolore dei bambini morti in una scuola bombardata – “si vede che è di moda bombardare le scuole oggi”. La guerra, dice il cardinale Matteo Zuppi salutando il Papa, “brucia i campi di grano, toglie il pane e fa morire di fame, trasforma i fratelli in nemici. Quelli che hanno la tavola imbandita e mandano a fare la guerra i poveri”. Una chiesa, afferma ancora Papa Francesco, capace di guardare ai migranti che “vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati”. Una chiesa, quella in Italia, alla quale osa chiede “più nascite, più figli”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: la scaltrezza del bene

19 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Il tema del rapporto con la ricchezza, con il denaro, attraversa questa pagina di Luca. Da leggere bene perché sembra un controsenso rispetto a quanto Gesù va dicendo, nel suo cammino verso la città di Gerusalemme, la meta cui tendere. Una pagina che si inserisce tra il racconto del padre misericordioso che accoglie il figlio tornato dopo aver sperperato la sua parte di eredità, il Vangelo di domenica scorsa, e la parabola del ricco, di cui non conosciamo il nome, e di Lazzaro, la prossima domenica. Anche le letture sono in sintonia con il tema delle ricchezze: il profeta Amos pone in primo piano la giustizia sociale, e in modo particolare nei confronti dei più deboli, e condanna le ingiustizie operate: “voi che calpestate il povero e sterminate gli ultimi”. Nella sua lettera a Timoteo, Paolo invita a pregare per coloro che hanno responsabilità di governo “perché possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”. Brani che, possiamo dire, sottintendono una domanda: ciò che conta e dà sicurezza è il denaro? Eccoci alla pagina dell’amministratore scaltro, e anche un po’ imbroglione, che il padrone licenzia. Leggiamo in Luca, che “per farsi degli amici” condona una parte di quanto i debitori devono al suo datore di lavoro. Compie una frode, in sostanza, ma il padrone, saputo il fatto, si congratula con lui. E qui cominciano i nostri problemi: si può lodare un imbroglione, che “agisce con furbizia, cerca una soluzione, è intraprendente”? Papa Francesco, all’Angelus, spiega che Gesù “prende spunto da questa storia per lanciarci una prima provocazione: i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Capita cioè che, chi si muove nelle tenebre, secondo certi criteri mondani, sa cavarsela anche in mezzo ai guai, sa essere più furbo degli altri; invece, i discepoli di Gesù, cioè noi, a volte siamo addormentati, oppure siamo ingenui “. Come dire, c’è un’astuzia mondana e c’è, contrapposta, l’astuzia cristiana, o almeno dovrebbe. Nei momenti “di crisi personale, sociale, ma anche ecclesiale” dice il Papa, “a volte ci lasciamo vincere dallo scoraggiamento, o cadiamo nella lamentela e nel vittimismo. Invece – dice Gesù – si potrebbe anche essere scaltri secondo il Vangelo, essere svegli e attenti per discernere la realtà, essere creativi per cercare soluzioni buone, per noi e per gli altri”. Ecco l’insegnamento sull’utilizzo dei beni che Francesco sottolinea: “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Le congratulazioni, se così possiamo dire, non sono per l’azione ingiusta, ma per l’atto dell’amministratore di farsi degli amici. Per ereditare la vita eterna, afferma il Papa, “non serve accumulare i beni di questo mondo, ma ciò che conta è la carità che avremo vissuto nelle nostre relazioni fraterne”. Cristo ci chiede di non usare i beni di questo mondo solo per il nostro “egoismo”, ma “servitevene per generare amicizie, per creare relazioni buone, per agire nella carità, per promuovere la fraternità ed esercitare la cura verso i più deboli”. Anche nel mondo di oggi, sottolinea Papa Francesco, vi sono “storie di corruzione come quella che il Vangelo ci racconta; condotte disoneste, politiche inique, egoismi che dominano le scelte dei singoli e delle istituzioni, e tante altre situazioni oscure”. Tuttavia, i cristiani non possono scoraggiarsi o “lasciar correre, restare indifferenti. Al contrario, siamo chiamati – afferma il vescovo di Roma – a essere creativi nel fare il bene, con la prudenza e la scaltrezza del Vangelo, usando i beni di questo mondo - non solo quelli materiali, ma tutti i doni che abbiamo ricevuto dal Signore - non per arricchire noi stessi, ma per generare amore fraterno e amicizia sociale”. Nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana, esprime vicinanza alle famiglie delle vittime dei combattimenti tra l’Azerbaigian e l’Armenia: “la pace è possibile quando tacciono le armi e incomincia il dialogo”. Prega per il “martoriato popolo ucraino e per la pace in ogni terra insanguinata dalla guerra”. E ha un pensiero per le popolazioni delle Marche colpite da una violenta inondazione: “il Signore dia forza a quelle comunità”. (Fabio Zavattaro -Sir)

La Domenica del Papa: alla ricerca di ciò che manca

12 Settembre 2022 - Città del vaticano - La pecora smarrita, il soldo perduto, il figlio prodigo, sono le tre parabole che troviamo nel Vangelo di ieri, domenica 11 settembre, e che hanno degli elementi chiave comuni: la debolezza del cristiano, la misericordia del Padre, e la gioia di un Dio che agisce nella storia dell’uomo: “vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di conversione”, leggiamo in Luca. Peccato e perdono: Mosè, la prima lettura, chiede perdono per il popolo che ha costruito il vitello d’oro; Paolo scrive a Timoteo, seconda lettura, per ricordare che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori; ma è nel Vangelo che Gesù mostra il volto di un Dio che “non esclude nessuno, tutti desidera al suo banchetto, perché tutti ama come figli, nessuno escluso”, afferma il Papa all’Angelus, per il quale le tre parabole “riassumono il cuore del Vangelo: Dio è Padre e ci viene a cercare ogni volta che siamo perduti”. Interessante notare che queste tre parabole Gesù le pronuncia parlando con pubblicani e peccatori, mentre, nello stesso tempo, è oggetto delle “mormorazioni” di scribi e farisei, cioè i maestri della legge, che disapprovano, scandalizzati, la prassi di incontrare persone di cattiva reputazione; “costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Anche scribi e farisei non negano l’accoglienza a chi si è pentito, ma la diversità di Gesù sta proprio nel fatto che egli esprime amicizia, affetto ancora prima del loro pentimento: il primo sentimento non è il giudizio, ma l’accoglienza. Le tre parabole hanno un aspetto comune, dice il Papa, ovvero “l’inquietudine per la mancanza”: della pecora, ma ne ha altre novantanove; della moneta, ma ne ha altre; del figlio partito, ma a casa c’è il fratello maggiore. Invece nel cuore del pastore, della donna, del padre “c’è l’inquietudine per quello che manca: la pecora, la moneta, il figlio che è andato via. Chi ama si preoccupa di chi manca, ha nostalgia di chi è assente, cerca chi è smarrito, attende chi si è allontanato”. Questa è l’inquietudine di Dio, la misericordia di Dio, che arriva là dove non arrivano gli uomini con il loro perdono; arriva ancora prima, perché sa cosa c’è nel cuore di ogni uomo. Forse siamo un po’ come quel figlio maggiore che si sente messo da parte nel momento in cui ritorna il fratello e non siamo capaci di gioire. Come scribi e farisei giudichiamo ingiusto “sederci a tavola con il peccatore”. Dio invece gioisce quando ritrova ciò che era perduto: il pastore riporta nell’ovile la pecora tenendola sulle spalle; la donna spazza tutta la casa per ritrovare la moneta e vuole far festa con le vicine; il padre stravolge la vita della casa per quel figlio che torna. Dio, dice il Papa, “non è tranquillo se ci allontaniamo da lui, è addolorato, freme nell’intimo e si mette in movimento per venirci a cercare […] non calcola le perdite e i rischi, ha un cuore di padre e di madre, e soffre per la mancanza dei figli amati”. Questa stessa inquietudine Francesco chiede anche di farla nostra, quando guardiamo chi si è allontanato dalla vita cristiana. “Chi manca nelle nostre comunità - ha domandato il papa - ci manca davvero? Oppure stiamo bene tra di noi, tranquilli e beati nei nostri gruppi, senza nutrire compassione per chi è lontano?”. Ecco, allora, l’invito a riflettere sulle nostre relazioni: “prego per chi non crede, per chi è lontano? Attiriamo i distanti attraverso lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza? Pensiamo a qualche persona che conosciamo, che sta accanto a noi e che magari non ha mai sentito nessuno che le dica: ‘Sai? Tu sei importante per Dio’”. Angelus alla vigilia del viaggio in Kazakistan, 13 al 15 settembre, per prendere parte al Congresso dei leaders delle religioni mondiali e tradizionali. “Occasione per incontrare tanti rappresentanti religiosi e dialogare da fratelli, animati dal comune desiderio di pace, di cui il nostro mondo è assetato”. Non ci sarà, però, il Patriarca di Mosca Kirill, incontro prima annunciato e poi da lui cancellato a causa del conflitto in Ucraina. Il Papa chiede di pregare, e ricorda la presenza del cardinale Konrad Krajewski, prefetto del dicastero per la carità, visita per “testimoniare concretamente la vicinanza del Papa e della Chiesa”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: Beato il Papa del sorriso

5 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Un pontificato durato 33 giorni, il tempo di un sorriso, come titolò il quotidiano parigino Le Monde. Ieri, domemica 4 settembre, papa Francesco ha proclamato beato Giovanni Paolo I, il Papa che “con il suo sorriso è riuscito a trasmettere la bontà del Signore”. Cerimonia in una piazza San Pietro bagnata dalla pioggia, e gremita di fedeli venuti in gran parte da Belluno, l’Agordino, Vittorio Veneto e Venezia. Sulla facciata della basilica vaticana il ritratto ufficiale del nuovo beato, opera di un artista cinese, Yan Zhang, originario della provincia di Sichuan. L’artista, che ha vissuto in Tibet, spiritualità buddhista, nel ritratto ha voluto mettere in primo piano proprio il tema del sorriso, trasmesso da tutto il corpo di Luciani, omaggio al Papa che, con il suo sorriso, ha mostrato “una Chiesa con il volto lieto, il volto sereno, il volto sorridente, una Chiesa che non chiude mai le porte, che non inasprisce i cuori, che non si lamenta e non cova risentimento, non è arrabbiata, non è insofferente, non si presenta in modo arcigno, non soffre di nostalgie del passato cadendo nell’indietrismo”. La misura dell’amore, per Luciani, è un “amore intramontabile” perché il Signore “ha sempre gli occhi aperti su di noi – diceva Giovanni Paolo I il 10 settembre 1978 – anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre”. Humilitas il motto di Luciani, che si lega bene con la pagina evangelica di questa domenica, dove Luca ci ricorda che lo stile di Dio “non è quello di chi cerca il potere, ma quello di chi ama anche se questo “costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati”. Un Dio che “non ha il culto dei numeri, non cerca il consenso, non è un idolatra del successo personale. Al contrario, sembra preoccuparsi quando la gente lo segue con euforia e facili entusiasmi. Così, invece di lasciarsi attrarre dal fascino della popolarità – perché la popolarità affascina –, chiede a ciascuno di discernere con attenzione le motivazioni per cui lo segue e le conseguenze che ciò comporta”. Ecco quell’umiltà che Luciani ha praticato lungo tutto il suo servizio. Amare, dunque, “anche se costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati”. Se vuoi baciare Gesù crocifisso, diceva Luciani il 27 settembre, ultima udienza del suo Pontificato, “non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore”. Seguirlo, per Francesco, “non significa entrare in una corte o partecipare a un corteo trionfale, e nemmeno ricevere un’assicurazione sulla vita. Al contrario, significa anche “portare la croce: come lui, farsi carico dei pesi propri e dei pesi degli altri, fare della vita un dono, non un possesso, spenderla imitando l’amore generoso e misericordioso che egli ha per noi”. In Luca leggiamo che per essere discepoli di Gesù bisogna essere pronti a lasciare la propria casa, amarlo più del proprio padre, della propria madre, moglie e figli. Andare dietro al Signore, ricorda nell’omelia Papa Francesco, significa non fare scelte “mondane”, non cercare “la mera soddisfazione dei propri bisogni, la ricerca del prestigio personale, il desiderio di avere un ruolo, di tenere le cose sotto controllo, la brama di occupare spazi e di ottenere privilegi, l’aspirazione a ricevere riconoscimenti”. Questo non è lo stile di Gesù, che invece chiede “scelte che impegnano la totalità dell’esistenza”; per questo desidera che il discepolo non anteponga nulla “neanche gli affetti più cari e i beni più grandi”. Umiltà, dunque. Luciani, nella sua prima udienza generale, 6 settembre, ha voluto parlare proprio della grande virtù dell’umiltà, affermando – “a rischio di dire uno sproposito”, dirà – che il Signore “tanto ama l'umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Il posto dell’umile

29 Agosto 2022 - Citta del Vaticano - Diciannove giorni prima, nella notte del 9 aprile 2009, un terremoto di magnitudo 5,8 aveva praticamente raso al suolo la città e ucciso 309 persone. Il 28 aprile a L’Aquila arriva Papa Benedetto XVI e, superando le resistenze degli addetti alla sicurezza, entra nella basilica di Santa Maria di Collemaggio ferita dalla violenza del sisma e avvolta dalle impalcature. Pochi passi per raggiungere la teca con i resti di Papa Celestino V, e poi quel gesto che ancora oggi, dopo la rinuncia del 2013, fa riflettere: si toglie il pallio, e lo pone sul cristallo. Domenica Papa Francesco entra nella basilica di Collemaggio, ancora sotto restauro, e si ferma a pregare davanti la teca di Pietro del Morrone monaco eremita benedettino, eletto Papa nel 1294 con il nome di Celestino V. Per la prima volta un Papa compie il rito dell’apertura della Porta santa della basilica, battendo tre volte sull’anta di sinistra con un ramo d’ulivo del Getsemani: è la 728ma Perdonanza celestiniana. Un tempo di perdono, dice Francesco, che non deve limitarsi a una sola volta l’anno, “ma sempre. È così, infatti, che si costruisce la pace, attraverso il perdono ricevuto e donato”. È il Papa del “gran rifiuto”, come si legge nel terzo canto dell’Inferno della Divina Commedia di Dante. Ma “Celestino V non è stato l’uomo dei ‘no’, è stato l’uomo dei ‘si’” dice Francesco nell’omelia della messa celebrata sul piazzale della basilica. Questo perché, ricorda, “non esiste altro modo di realizzare la volontà di Dio che assumendo la forza degli umili. Proprio perché sono tali, gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà”. È ai miti che Dio rivela i suoi segreti: “nello spirito del mondo, che è dominato dall’orgoglio, la Parola di Dio di oggi ci invita a farci umili e miti. L’umiltà non consiste nella svalutazione di sé stessi, bensì in quel sano realismo che ci fa riconoscere le nostre potenzialità e anche le nostre miserie”. Celestino è stato “testimone coraggioso del Vangelo” e in lui “noi ammiriamo una Chiesa libera dalle logiche mondane e pienamente testimone di quel nome di Dio che è la Misericordia”. Ci ha lasciato “il privilegio di ricordare a tutti che con la misericordia, e solo con essa, la vita di ogni uomo e di ogni donna può essere vissuta con gioia. Misericordia è l’esperienza di sentirci accolti, rimessi in piedi, rafforzati, guariti, incoraggiati”. Omelia nel giorno in cui il Vangelo pone in primo piano la parabola del banchetto nuziale e della scelta del posto da occupare: “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto”. Ovviamente non è una lezione di galateo, né tantomeno una forma di protocollo da rispettare; ciò che Cristo mette in evidenza, nel brano lucano, è l’umiltà: è il messaggio delle beatitudini, della capacità di scegliere una strada diversa da quella che il mondo propone; di non seguire le mode, spesso passeggere, del tempo. Il valore di ognuno non dipende dal posto che occupa in questo mondo. “L’uomo non è il posto che detiene, ma è la libertà di cui è capace e che manifesta pienamente quando occupa l’ultimo posto, o quando gli è riservato un posto sulla Croce”. E il cristiano sa che la sua vita è “una carriera alla maniera di Cristo … Finché non comprenderemo che la rivoluzione del Vangelo sta tutta in questo tipo di libertà, continueremo ad assistere a guerre, violenze e ingiustizie, che altro non sono che il sintomo esterno di una mancanza di libertà interiore. Lì dove non c’è libertà interiore, si fanno strada l’egoismo, l’individualismo, l’interesse, la sopraffazione”. L’Aquila sia davvero “capitale di perdono, di pace e di riconciliazione”; e per l’intercessione di Maria auspica “per il mondo intero il perdono e la pace” Il Papa ha voluto presenti in prima fila i familiari delle vittime del terremoto che hanno realizzato una Cappella della Memoria: “la memoria è la forza di un popolo, e quando questa memoria è illuminata dalla fede, quel popolo non rimane prigioniero del passato, ma cammina e cammina nel presente rivolto al futuro, sempre rimanendo attaccato alle radici e facendo tesoro delle esperienze passate, buone e cattive. E con questo tesoro e queste esperienze va avanti”: Jemo ’nnanzi! (Fabio Zavattaro - Sir)

La porta stretta

22 Agosto 2022 - Città del Vaticano  - “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Ancora una volta una domanda lungo il cammino che lo porterà a vivere la sua Pasqua a Gerusalemme. Ma ciò che salta subito agli occhi, nel brano di Luca di questa domenica, è l’immagine che diventa risposta: la porta stretta attraverso cui passare. La domanda è posta nello stile tipico delle dispute tra scuole di rabbini di diverso orientamento, e viene posta in termini volutamente astratti. Chiedere quanti saranno coloro che si salveranno, nasconde la convinzione di poter stabilire criteri, confini riguardo alla salvezza e al giusto rapporto con Dio. La risposta di Gesù va contro chi pensa in questo modo per poter decidere chi sta dentro e chi è fuori, chi ha torto e chi ha ragione. Gesù non risponde offrendo cifre né elencando regole cui attenersi, ma spiazza l’interlocutore con la logica della misericordia: vi sono ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi. È il messaggio che torna più volte nei racconti degli evangelisti, è quell’andare contro corrente, non cedere alle mode del tempo; messaggio che sintetizza la predicazione delle beatitudini e invita a scoprirsi fratelli nonostante le differenze. La sua risposta è soprattutto in quella porta stretta: “molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno”. La porta è sì stretta, ma non si tratta di “un’immagine che potrebbe spaventarci come se la salvezza fosse destinata solo a pochi eletti o ai perfetti” dice Papa Francesco all’Angelus. Infatti, Luca chiarisce bene il concetto: “verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”. Cosa significa, allora, la porta stretta. Chi è stato al monastero di Santa Caterina sul Sinai – o a Gerusalemme è entrato nel sepolcro di Gesù nella basilica – ha ben presente quella piccola porta attraverso la quale si accede. Voluta così per impedire, ad esempio, che si entrasse a cavallo, con le armi. In sostanza bisognava spogliarsi di tutto ciò che connotava l’identità del cavaliere e del guerriero. La porta stretta è, dunque, invito a spogliarsi delle “armi” dell’orgoglio, è fatica e lotta personale. Ma è porta aperta a tutti. Così Francesco ricorda il Vangelo di Giovanni – Gesù che dice “io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvato” – per affermare che “per entrare nella vita di Dio, nella salvezza, bisogna passare attraverso di lui, non di un altro; accogliere lui e la sua Parola”. Quella del cristiano, afferma ancora Francesco, è una vita “a misura di Cristo, fondata e modellata su di lui”, sul suo Vangelo, “non quello che pensiamo noi, ma quello che ci dice lui. Si tratta di una porta stretta non perché sia destinata a pochi, ma perché essere di Gesù significa seguirlo, impegnare la vita nell’amore, nel servizio e nel dono di sé come ha fatto lui, che è passato per la porta stretta della croce. Entrare nel progetto di vita che Dio ci propone, chiede di restringere lo spazio dell’egoismo, di ridurre la presunzione dell’autosufficienza, di abbassare le alture della superbia e dell’orgoglio e di superare la pigrizia per attraversare il rischio dell’amore, anche quando comporta la croce”. Una vita fatta di gesti concreti, gesti d’amore: “pensiamo ai genitori che si dedicano ai figli facendo sacrifici e rinunciando al tempo per sé stessi; a coloro che si occupano degli altri e non solo dei propri interessi” dice Papa Francesco. “Pensiamo a chi si spende al servizio degli anziani, dei più poveri e dei più fragili; pensiamo a chi va avanti a lavorare con impegno, sopportando disagi e magari incomprensioni; pensiamo a chi soffre a motivo della fede, ma continua a pregare e ad amare”, a coloro che “rispondono al male con il bene, e trovano la forza di perdonare e il coraggio di ricominciare”. Qui il pensiero, nel dopo Angelus, va alla chiesa del Nicaragua dove sono stati arrestati il vescovo di Matagalpa insieme a sacerdoti, seminaristi e laici. Il Papa esprime “preoccupazione e dolore” e auspica “un dialogo aperto e sincero”, attraversi il quale “si possano ancora trovare le basi per una convivenza rispettosa e pacifica”. Senza dimenticare il popolo ucraino che “sta vivendo un’immane crudeltà”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La parte migliore

18 Luglio 2022 - Città del Vaticano - Agire, ascoltare. Sono i due verbi che accompagnano la riflessione di queste due domeniche di luglio: agire, l’agire misericordioso, è il Vangelo di domenica scorsa, appartiene al buon samaritano che si china per aiutare la vittima della violenza abbandonata sul ciglio della strada. Ascoltare – ascolto della parola di Dio – è l’atto che Maria, la sorella di Marta, compie una volta ospitato Gesù nella loro casa di Betania. Potremmo quasi dire che in questa pagina del Vangelo Luca pone in primo piano il tema dell’ospitalità, che significa, certo, condividere la casa e il cibo, ma ancor di più trovare il tempo per ascoltare l’altro, per essere accanto all’ospite accolto. Marta, come il buon samaritano, si spende per l’altro, nel caso per il Signore che è entrato nella sua casa e si ribella all’immobilità della sorella che “seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola”. Luca, in questa pagina del Vangelo, ripropone, in modo diverso, quanto è tramandato dal Talmud, dove si legge che il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto e le opere di misericordia. Per l’evangelista l’ascolto della Parola – “nella capacità dell’ascolto c’è la radice della pace”, dice il Papa – è in mezzo e unisce il fare misericordia e pregare. Perché è proprio nell’ascolto della Parola che troviamo la guida per i nostri gesti verso i fratelli e per comprendere meglio il senso e il valore della preghiera. Marta si lamenta e si rivolge a Gesù chiedendogli di dire a Maria di aiutarla. La risposta ancora una volta sorprende, “ribalta il nostro modo di pensare”, afferma Francesco all’Angelus: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. La risposta di Gesù è da un lato impegno a riconoscere “la generosa premura di Marta”; dall’altro sottolinearle che “c’è un ordine di priorità nuovo, diverso da quello che fino a allora aveva seguito”, c’è una “parte migliore cui va dato il primo posto”, ovvero l’ascolto della parola di Gesù, e tutto il resto, afferma il Papa, “viene dopo, come un corso d’acqua che scaturisce dalla sorgente”. Altra sottolineatura del vescovo di Roma, Maria è seduta ai piedi di Gesù, perché “ha capito che lui non è un ospite come gli altri. A prima vista sembra che sia venuto a ricevere, perché ha bisogno di cibo e di un alloggio, ma in realtà il Maestro è venuto per donarci sé stesso mediante la sua parola”. La “parte migliore” perché la sua, afferma Francesco, non è una parola astratta, “è un insegnamento che tocca e plasma la vita, la cambia, la libera dalle opacità del male, appaga e infonde una gioia che non passa”. Ecco perché Maria si ferma e ascolta: il resto verrà dopo. E quell’ascolto, dice il Papa, “non toglie nulla al valore dell’impegno pratico, però esso non deve precedere, ma sgorgare dall’ascolto della parola di Gesù, dev’essere animato dal suo Spirito. Altrimenti si riduce a un affannarsi e agitarsi per molte cose, si riduce a un attivismo sterile”. Il tempo delle vacanze, per Francesco, può essere anche il tempo dell’ascolto, perché oggi “si fa sempre più fatica a trovare momenti liberi per meditare. Per tante persone i ritmi di lavoro sono frenetici, logoranti. Il periodo estivo può essere prezioso anche per aprire il Vangelo e leggerlo lentamente, senza fretta, un passo ogni giorno, un piccolo passo del Vangelo”. E “lasciamoci interrogare da quelle pagine, domandiamoci come sta andando la nostra vita, se è in linea con ciò che dice Gesù o non tanto”. Domenica nella quale Francesco ricorda il suo prossimo viaggio in Canada, partirà domenica prossima; “pellegrinaggio penitenziale” lo definisce, per contribuire al “cammino di guarigione e riconciliazione” e ricorda che “molti cristiani, compresi alcuni membri di istituti religiosi, hanno contribuito alle politiche di assimilazione culturale che, in passato, hanno gravemente danneggiato, in diversi modi, le comunità native”. Infine, esprime vicinanza e chiede la fine delle violenze e un dialogo per il bene comune in Sri Lanka. Quindi nuovo appello per la martoriata Ucraina: “la guerra crea solo distruzione e morte, allontanando i popoli, uccidendo la verità e il dialogo”. Per questo chiede che riprendano i negoziati, per non “alimentare l’insensatezza della guerra”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Vedere. E avere compassione

11 Luglio 2022 - Città del Vaticano - Su una strada che scende da Gerusalemme due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, anzi mezzo morto, come leggiamo in Luca. L’altro è uno straniero, proveniente dalla regione della Samaria, che non conosce la legge, come il sacerdote e il levita – quel sistema di cinquecento e più comandamenti e divieti che andavano ad aggiungersi ai dieci comandamenti, per gli ebrei dell’antica Alleanza – ma sa vedere la sofferenza di una persona e si ferma a soccorrere. Il brano è molto noto, il buon Samaritano, e giunge dopo due domande che un dottore della legge ha rivolto a Gesù; un dialogo tra lo scriba, l’esperto della Torà, e Gesù in cammino verso Gerusalemme: Cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Chi è il mio prossimo? Domande che hanno una risposta fatta non di parole, ma di azioni, di gesti. “Che cosa sta scritto nella legge? Come leggi?” gli chiede Gesù; e il dottore della legge cita a memoria il Deuteronomio – Sh’ma Israel… Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima… - e il Levitico – “amerai il tuo prossimo come te stesso”. La risposta, gli ricorda Gesù, è nell’ascolto della Parola: “fa questo e vivrai”. Il racconto del Samaritano, che “ebbe compassione” dell’uomo malmenato dai briganti e lasciato sul bordo della strada, e lo ha soccorso, chiede un comportamento da imitare; l’altro, con le sue povertà, le sue difficoltà, è il prossimo che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpella con la sua presenza. Ricorda Papa Francesco, che i primi cristiani erano chiamati “discepoli della via, cioè del cammino”. Il credente somiglia molto al Samaritano, dice all’Angelus: “come lui è in viaggio, è un viandante. Sa di non essere una persona ‘arrivata’, ma vuole imparare ogni giorno, mettendosi al seguito del Signore Gesù”. Il Signore “non è un sedentario, ma sempre in cammino”, così il cristiano: “camminando sulle orme di Cristo, diventa un viandante, e impara – come il Samaritano – a vedere e ad avere compassione”. Lo scriba e il levita “vedono il malcapitato ma è come se non lo vedessero, passano oltre, guardano da un’altra parte”. Francesco ricorda che il Vangelo “ci educa a vedere, guida ognuno di noi a comprendere rettamente la realtà, superando ogni giorno preconcetti e dogmatismi”; ci insegna a seguire Gesù, a “avere compassione, a accorgerci degli altri, soprattutto di chi soffre, di chi ha bisogno”. La parabola evangelica non chiede di “colpevolizzare o colpevolizzarsi”, ma di non andare oltre e fermarsi; “dobbiamo riconoscere quando siamo stati indifferenti e ci siamo giustificati, ma non fermiamoci lì. Lo dobbiamo riconoscere, è uno sbaglio, ma chiediamo al Signore di farci uscire dalla nostra indifferenza egoistica e di metterci sulla Via. Chiediamogli di vedere e avere compassione” di quanti incontriamo “lungo il cammino, soprattutto di chi soffre ed è nel bisogno, per avvicinarci e fare quello che possiamo per dare una mano”, afferma Francesco. Vedere e non andare oltre. Come nel gesto dell’elemosina, già ricordato dal Papa. Compiuto il gesto “tu tocchi la mano della persona alla quale dai la moneta […] guardi gli occhi di quella persona?”. Vedere, dunque, e avere compassione: “se tu dai l’elemosina senza toccare la realtà, senza guardare gli occhi della persona bisognosa, quella elemosina è per te, non per lei. Pensa a questo: io tocco le miserie, anche quelle miserie che aiuto? Io guardo gli occhi delle persone che soffrono, delle persone che aiuto?” Nelle parole pronunciate dopo la preghiera mariana dell’Angelus, Francesco torna a guardare alla guerra in Ucraina – “prego per tutte le famiglie, specialmente per le vittime, i feriti, i malati; prego per gli anziani e per i bambini. Che Dio mostri la strada per porre fine a questa folle guerra” – e rivolge un appello per la pace nello Sri Lanka: “imploro coloro che hanno autorità di non ignorare il grido dei poveri e le necessità della gente”. Infine, rivolge un pensiero speciale al popolo della Libia, che soffre per i gravi problemi sociali e economici, e chiede soluzioni nel dialogo costruttivo e nella riconciliazione nazionale. (Fabio Zavattaro - Sir)

Mangiare, saziare

20 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Mangiare, saziare. Sono i due verbi con i quali Papa Francesco ci parla, all’Angelus, della festa del Corpo e Sangue di Cristo – Corpus Domini – e del Vangelo che narra la famosissima pagina della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci, evento che tutti gli evangelisti propongono, anzi Matteo e Marco lo ricordano due volte. Luca non scrive, come fa Giovanni, che in quei giorni era vicina la Pasqua, non parla nemmeno del ragazzo al quale si rivolge Andrea perché in possesso di cinque pani – pane d’orzo, il pane dei poveri – e due pesci. Ciò che conta in Luca è il dialogo tra Gesù e i suoi apostoli: la folla ha seguito il Maestro fin nel bel mezzo del deserto, ha ascoltato la sua parola e ora è affamata; impossibile dare a tutta la gente cibo a sufficienza, impossibilità acquistarlo per tutti con i soli duecento denari. La soluzione è semplice per gli apostoli: “congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”. Ancora una volta Gesù mette alla prova i suoi: fa una richiesta che sa non essere praticabile: date voi stessi da mangiare. Conosce già la risposta, ma vuole che siano i discepoli a trovare la soluzione, così li chiama all’impegno personale. Anche Papa Francesco, all’Angelus chiama tutti a un impegno personale per non dimenticare “il martoriato popolo ucraino in questo momento, popolo che sta soffrendo”. Ecco allora la domanda che rivolge a coloro che lo ascoltano: “vorrei che rimanga in tutti voi una domanda: cosa faccio io oggi per il popolo ucraino? Prego? Mi do da fare? Cerco di capire? Cosa faccio oggi per il popolo ucraino? Ognuno risponda nel proprio cuore”. Torniamo alla pagina di Luca. Per gli apostoli, che ragionano ancora con la logica del mondo, la soluzione è semplice: che le persone si arrangino, vadano a cercare altrove il cibo. In Gesù c’è la certezza che tutto è possibile a Dio, per questo dice ai suoi: “voi stessi date loro da mangiare” come scrive Luca. Ordina di far sedere la gente, a gruppi di cinquanta, sull’erba. Come dice il Salmo “il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare”. Poi benedice quel poco che gli viene portato, e che diventa il tanto con il quale sfama la folla, e ciò che resta del pasto viene messo in dodici canestri. Allora, ecco i due verbi che Francesco propone nella sua riflessione domenicale: mangiare e saziare, “due fondamentali necessità che nell’eucaristia vengono appagate” Mangiare. Il pane “aumenta passando di mano in mano. E mentre mangia, la folla si rende conto che Gesù si prende cura di tutto”. Il Signore è “presente nell’Eucaristia: ci chiama ad essere cittadini del Cielo, ma, intanto, tiene conto del cammino che dobbiamo affrontare qui in terra”. Non va confinata l’eucaristia “in una dimensione vaga, lontana, magari luminosa e profumata di incenso, ma lontana dalle strettoie del quotidiano”. Il Signore ha a cuore tutti i nostri bisogni, sottolinea Francesco, che aggiunge: “la nostra adorazione eucaristica trova la sua verifica quando ci prendiamo cura del prossimo, come fa Gesù: attorno a noi c’è fame di cibo, ma anche di compagnia, c’è fame di consolazione, di amicizia, di buonumore, c’è fame di attenzione, c’è fame di essere evangelizzati”. Nel pane eucaristico c’è “l’attenzione di Cristo alle nostre necessità, e l’invito a fare altrettanto verso chi ci è accanto”. Con quelle parole Gesù invita i discepoli a fare una conversione: dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione. Secondo verbo, saziare, anzi essere saziati. “La folla si saziò per l’abbondanza di cibo, e anche per la gioia e lo stupore di averlo ricevuto da Gesù”. Abbiamo bisogno di alimentarci, ma anche “di essere saziati”, cioè di sapere che “il nutrimento ci venga dato per amore”. Nell’eucaristia troviamo la presenza di Cristo, “la sua vita donata per ognuno di noi. Non ci dà solo l’aiuto per andare avanti, ma ci dà sé stesso: si fa nostro compagno di viaggio, entra nelle nostre vicende, visita le nostre solitudini, ridando senso ed entusiasmo”. È proprio questo, afferma Papa Francesco, che “ci sazia”, perché il Signore “dà senso alla nostra vita, alle nostre oscurità, ai nostri dubbi”. È questo “senso” che ci dà il Signore che “ci sazia, ci dà quel di più che tutti cerchiamo: cioè la presenza del Signore”. (Fabio Zavattaro - sir)

Con i fatti, prima che con le parole

13 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Il conflitto in Ucraina, il mancato viaggio nella Repubblica del Congo e in Sud Sudan, la piaga del lavoro minorile, nelle parole di Papa Francesco, in questa domenica in cui si celebra la festa della Santissima Trinità, che conclude il tempo pasquale. Per Papa Francesco questa domenica è l’occasione per ricordare la guerra in corso nel cuore dell’Europa, un conflitto che non deve vedere, nonostante il tempo che passa, un raffreddamento “del nostro dolore e della nostra preoccupazione per quella gente martoriata”. Preghiamo e lottiamo per la pace, e “non abituiamoci a questa tragica realtà, abbiamola sempre nel cuore”. Anche il Sud Sudan ha vissuto una guerra civile durata sette anni dopo l’indipendenza ottenuta non senza spargimento di sangue in un lungo conflitto durano cinquant’anni. Era la tappa, insieme alla Repubblica del Congo, del viaggio programmato per i primi di luglio, rimandato per problemi alla gamba: “vi chiedo scusa per questo”, dice il Papa ai popoli dei due paesi. “Preghiamo insieme perché, con l’aiuto di Dio e delle cure mediche, io possa venire tra voi al più presto. Siamo fiduciosi”. Insieme al “no” alla guerra, il vescovo di Roma dice il suo “no” al lavoro minorile: “impegniamoci tutti per eliminare questa piaga, perché nessun bambino o bambina sia privato dei suoi diritti fondamentali e costretto o costretta a lavorare. Quella dei minori sfruttati per il lavoro è una realtà drammatica che ci interpella tutti”. Con questa domenica la liturgia torna al tempo ordinario; abbiamo celebrato la Pentecoste, ci prepariamo a vivere il Corpus Domini, e ci troviamo a mettere in primo piano la festa che celebra la vita di Dio che è comunione nelle tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Una festa per cogliere, nella loro totalità, i fatti accaduti a partire dall’ingresso a Gerusalemme, dalla Pasqua fino appunto alla Pentecoste. Una festa “strana”, perché non fa memoria di un evento della vita di Cristo, ma si richiama a una definizione dei concili di Nicea, del 325, e di Costantinopoli, sessanta anni più avanti: la Trinità appunto, o, come fa qualche teologo, la Tri-unità. È festa che rinnoviamo ogni volta che facciamo il segno della croce: siamo “figli di un Padre che si è donato gratuitamente e da cui siamo creati e a cui apparteniamo; fratelli del figlio di Dio, Gesù, mandato dal Padre per salvarci e talmente vicino a noi da essere pane di vita, abitati dall’amore stesso di Dio, lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, effuso su di noi nella cresima, che assiste e da forza nella difficile nostra vita”, ricordava monsignor Antonio Riboldi. Festeggiare la Santissima Trinità, dice all’Angelus Papa Francesco, “non è tanto un esercizio teologico, ma una rivoluzione del nostro modo di vivere. Dio, nel quale ogni Persona vive per l’altra in continua relazione, in continuo rapporto, non per sé stessa, ci provoca a vivere con gli altri e per gli altri. Aperti” Festa che chiama a riflettere sul “Dio in cui crediamo”. Il Papa chiede: “credo davvero che per vivere ho bisogno degli altri, ho bisogno di donarmi agli altri, ho bisogno di servire gli altri? Lo affermo a parole o lo affermo con la vita?” Ecco la sfida di questa festa, mostrare il Dio uno e trino “con i fatti prima che con le parole. Dio, che è autore della vita, si trasmette meno attraverso i libri e più attraverso la testimonianza di vita”. Non è un Dio spray, diceva Francesco nel 2013, ma è concreto: Dio è amore. Amare vuol dire “non solo volere bene e fare del bene, ma prima ancora, alla radice, accogliere, essere aperto agli altri, fare posto agli altri, dare spazio agli altri. Questo significa amare, alla radice”. Pensiamo alle persone buone, generose e miti che abbiamo incontrato. Pensiamo alle parole che pronunciamo con il segno della croce: “in ciascun nome c’è la presenza dell’altro. Il Padre, ad esempio, non sarebbe tale senza il Figlio, così pure il Figlio non può essere pensato da solo, ma sempre come Figlio del Padre. E lo Spirito Santo, a sua volta, è Spirito del Padre e del Figlio”. La Trinità, ricorda Francesco, “ci insegna che non si può mai stare senza l’altro. Non siamo isole, siamo al mondo per vivere a immagine di Dio: aperti, bisognosi degli altri e bisognosi di aiutare gli altri”. Fabio Zavattaro - Sir)

Le due azioni dello Spirito

6 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Si compiono i cinquanta giorni dalla Pasqua: Pentecoste, la fiamma che arde, lo Spirito Santo che si manifesta come fuoco, vento. Dalla Pasqua gli apostoli si erano sempre ritrovati assieme nel Cenacolo per ascoltare le scritture e pregare. Le porte chiuse per paura. Improvvisamente “un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Negli Atti degli Apostoli leggiamo cosa accadde, mentre calava la sera. Un terremoto il cui fragore è avvertito anche fuori, tanto da richiamare molta gente davanti la porta di quella casa. Potremmo dire che si è trattato di una grande scossa, ma interiore, un processo di cambiamento di coloro che per cinquanta giorni sono rimasti chiusi dentro le mura della casa: la paura lascia spazio al coraggio, l’egoismo all’amore. E quella porta chiusa si apre al mondo, rappresentato, negli Atti, da quell’elenco di popoli che abitavano la città. Il “crollo” avviene dunque dentro le persone. Un vento impetuoso, questo l’auspicio, dovrebbe scuotere le coscienze per cercare di fermare il conflitto nell’Ucraina, giunto ormai a 102 giorni; invece, sull’umanità “è calato nuovamente l’incubo della guerra, che è la negazione del sogno di Dio”. Mai un appello così drammatico. Al Regina caeli si rivolge, il Papa, ai responsabili delle nazioni: “non portate l’umanità alla rovina, per favore, non portate l’umanità alla rovina”. Voce di uno che grida nel deserto: “popoli che si scontrano, popoli che si uccidono, gente che, anziché avvicinarsi, viene allontanata dalle proprie case. E mentre la furia della distruzione e della morte imperversa e le contrapposizioni divampano, alimentando una escalation sempre più pericolosa per tutti”, Francesco ripete con forza il suo appello alla pace: “si mettano in atto veri negoziati, concrete trattative per un cessate il fuoco e per una soluzione sostenibile, Si ascolti il grido disperato della gente che soffre, si abbia rispetto della vita umana e si fermi la macabra distruzione di città e villaggi”. Così rinnova l’invito a pregare e a impegnarsi per la pace “senza stancarci”. In questa domenica Francesco assiste, in sedia a rotelle, alla messa di Pentecoste celebrata dal cardinale Giovanni Battista Re, decano del Sacro collegio. Nell’omelia ricorda che “lo Spirito ci fa vedere tutto in modo nuovo, secondo lo sguardo di Gesù”; nel grande cammino della vita, “egli ci insegna da dove partire, quali vie prendere e come camminare”. Lo Spirito, infatti, in ogni epoca “ribalta i nostri schemi e ci apre alla sua novità, sempre insegna alla Chiesa la necessità vitale di uscire, il bisogno fisiologico di annunciare, di non restare chiusa in sé stessa”. Al Regina caeli il vescovo di Roma indica le due azioni dello Spirito: insegnare e ricordare. Dapprima insegnare. Lo Spirito ci aiuta a “superare un ostacolo che si presenta nell’esperienza della fede: quello della distanza”. Non c’è distanza tra Vangelo e vita di tutti i giorni, non è “superato” il Vangelo, né “inadeguato a parlare al nostro oggi con le sue esigenze e con i suoi problemi”, in questo tempo di internet e della globalizzazione. Lo Spirito Santo “è specialista nel colmare le distanze, ci insegna a superarle” afferma Francesco; è lui “che collega l’insegnamento di Gesù con ogni tempo e ogni persona”. Noi rischiamo di fare della fede “una cosa da museo”; lo Spirito Santo l’attualizza, la mantiene “sempre giovane” e la mette “al passo con i tempi”. Poi l’altra azione: ricordare, che vuol dire “riportare al cuore”. Ecco Pentecoste: con lo Spirito Santo gli apostoli “ricordano e comprendono. Accolgono le sue parole come fatte apposta per loro e passano da una conoscenza esteriore a una conoscenza di memoria, a un rapporto vivo, un rapporto convinto, gioioso nel Signore”; è lo Spirito Santo che ci aiuta “a far passare dal ‘sentito dire’ alla conoscenza personale di Gesù che entra nel cuore”. Senza lo Spirito, il rischio è una “fede smemorata”, un “ricordo senza memoria”. È sempre lo Spirito, ha detto nell’omelia, che “ci libera dall’ossessione delle urgenze e ci invita a camminare su vie antiche e sempre nuove, quelle della testimonianza, della povertà, della missione, per liberarci da noi stessi e inviarci al mondo”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La grazia dell’intercessione

30 Maggio 2022 - Città del Vaticano - Le mani di Cristo sono già oltre la cornice che racchiude l’affresco dell’Ascensione nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinto attribuito a Giotto e alla sua scuola. L’artista ha voluto rappresentare così quel salire al Padre che celebriamo nella liturgia dell'Ascensione di questa domenica: una nuvola ai suoi piedi, due angeli sotto che indicano il cielo guardando Maria in preghiera il viso rivolto al figlio, e gli apostoli inginocchiati. “Quando avete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi o vi offenderanno, intrattenetevi con il cielo, allora la vostra anima troverà la quiete”. Difficile dire se sono più le parole a definire meglio l’immagine dipinta, o se invece è l’immagine che meglio commenta le parole del grande matematico, filosofo, teologo e sacerdote ortodosso russo Pavel Florenskij. Il volto di Maria – per alcuni studiosi forse è l’unica parte eseguita interamente da Giotto – sembra quasi dirci che è passato tanto tempo, quaranta giorni dalla sofferenza vissuta sotto la croce; quaranta giorni dalla gioia della domenica di Pasqua. Ora è lì assieme ai discepoli perché si conclude la presenza umana e terrena di Gesù. Poi sarà il dono promesso dal Padre, lo Spirito Santo, il dono “del Consolatore, di colui che li accompagnerà, li guiderà, li sosterrà nella missione, li difenderà nelle battaglie spirituali”. Gesù, afferma Papa Francesco al Regina caeli, “non sta abbandonando i discepoli. Ascende al Cielo, ma non ci lascia soli”. Domenica nella quale il Papa annuncia un concistoro per la creazione, a fine agosto, di 21 nuovi cardinali, portando così a 133 il numero dei porporati; di questi ben 21 provengono dall’Asia, un chiaro segnale su come la chiesa guarda sempre più al grande continente. Ma è anche la domenica dedicata alla Giornata delle Comunicazioni sociali dal titolo: Ascoltare con l’orecchio del cuore. “Saper ascoltare, oltre che il primo gesto di carità – afferma Francesco – è anche il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione”. Non manca, infine, un pensiero al conflitto in Ucraina giunto al 95mo giorno: domani sarà a Santa Maria Maggiore, rosario in collegamento con i santuari mariani, per chiedere il dono della pace “che il mondo attende”. Torniamo alle parole pronunciate prima del Regina caeli. Francesco sottolinea due azioni di Gesù narrate nel brano di Luca: l’annuncio del dono dello Spirito Santo e la benedizione dei discepoli. È attraverso il dono dello Spirito Santo, afferma il vescovo di Roma, che “si vede l’amore di Gesù per noi: la sua è una presenza che non vuole limitare la nostra libertà. Al contrario, fa spazio a noi, perché il vero amore genera sempre una vicinanza che non schiaccia, ma rende protagonisti”. Salendo al cielo, dice ancora Francesco, “Gesù, anziché rimanere accanto a pochi con il corpo, si fa vicino a tutti con il suo Spirito. Lo Spirito Santo rende presente Gesù in noi, oltre le barriere del tempo e dello spazio, per farci suoi testimoni nel mondo”. La seconda azione, la benedizione degli apostoli, è gesto sacerdotale; Luca nel Vangelo ci dice che Gesù “è il grande sacerdote della nostra vita”; sale al Padre “per intercedere a nostro favore, per presentargli la nostra umanità. Così, davanti agli occhi del Padre, ci sono e ci saranno sempre, con l’umanità di Gesù, le nostre vite, le nostre speranze, le nostre ferite”. Con il suo “esodo” verso il Cielo, “Cristo ci fa strada, va a prepararci un posto e, fin da ora, intercede per noi, perché possiamo essere sempre accompagnati e benedetti dal Padre”. Un dono per “essere testimoni del Vangelo”. Ma lo siamo davvero, chiede il Papa, “siamo capaci di amare gli altri lasciandoli liberi e facendo loro spazio”. Ancora, “sappiamo farci intercessori per gli altri, cioè sappiamo pregare per loro e benedire le loro vite? Oppure ci serviamo degli altri per i nostri interessi?” Ricorda quindi Papa Francesco il valore della preghiera di intercessione: intercedere, cioè, “per le speranze e per le sofferenze del mondo, intercedere per la pace. E benediciamo con lo sguardo e con le parole chi incontriamo ogni giorno”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Vi lascio la Pace

23 Maggio 2022 - Città del Vaticano - In questa domenica le letture ci portano già un anticipo della Pentecoste, ovvero del dono dello Spirito. Gesù è ancora con i suoi nella sala dell’ultima cena e Giovanni, nel suo Vangelo, ricorda le parole con le quali il Signore annuncia un tempo futuro in cui “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremmo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ai dodici dice che non rimarranno soli – “vado e tornerò da voi” – ma anche perché con loro ci sarà sempre lo Spirito Santo, il Paraclito, che li sosterrà: Paraclito, ovvero colui che si pone accanto. La meta cui tendere è Gerusalemme, la città celeste, descritta con grande cura nell’Apocalisse. Un pellegrinare fatto di essenzialità: la parola da osservare e custodire, il dono dello Spirito Santo e la pace donata dal Signore che vince ogni paura. Città con le sue dodici porte aperte a coloro che accoglieranno la parola del Signore, e si lasceranno cambiare dallo Spirito. Proprio la pace – “vi lascio la pace, vi do la mia pace” – è il tema che Francesco pone in evidenza nelle parole che precedono la recita del Regina caeli. Tema centrale insieme a quell’amare “gli uni gli altri come io ho amato voi”; un Dio che si fa mendicante, diceva padre Davide Maria Turoldo, mendicante d’amore. Una pace che è negata in tanti luoghi come in Ucraina, nello Yemen; abbiamo bisogno della pace che non è quella del mondo, ma dono di Dio, sorretta dalla speranza, perché nel nostro pellegrinare non mancano rischi, pericoli, ostilità e scelte coraggiose da assumere. Gesù si rivolge e saluta i suoi discepoli – siamo ancora nei discorsi dell’addio – con parole “di affetto e serenità”, dice Papa Francesco, “in un momento tutt’altro che sereno. Giuda è uscito per tradirlo, Pietro sta per rinnegarlo, e quasi tutti per abbandonarlo: il Signore lo sa, eppure non rimprovera, non usa parole severe, non fa discorsi duri”. “Vi lascio la pace”. Una pace “che viene dal suo cuore mite, abitato dalla fiducia”; una pace che “ha in sé” perché “non si può dare pace se non si è in pace”. Per Gesù la mitezza è possibile anche nel momento più difficile, così il Papa, ai presenti in piazza San Pietro, ma anche a tutti noi, chiede “se, nei luoghi dove viviamo, noi discepoli di Gesù ci comportiamo così: allentiamo le tensioni, spegniamo i conflitti? Siamo anche noi in attrito con qualcuno, sempre pronti a reagire, a esplodere, o sappiamo rispondere con la non violenza, sappiamo rispondere con gesti e parole di pace?”. “Vi do la mia pace”. Non è facile questa mitezza; difficile, faticoso poi disinnescare i conflitti, rispondere “con la non violenza” con “gesti e parole di pace”. Per questo ci serve un aiuto: “la pace, che è impegno nostro, è prima di tutto dono di Dio”, La sua pace “è lo Spirito Santo, lo stesso Spirito di Gesù”, afferma Papa Francesco; “è la presenza di Dio in noi, è la forza di pace di Dio”, che “disarma il cuore e lo riempie di serenità”, che “scioglie le rigidità e spegne le tentazioni di aggredire gli altri”, e ci ricorda che accanto a noi “ci sono fratelli e sorelle, non ostacoli e avversari”. E è sempre lui che “ci dà la forza di perdonare, di ricominciare, di ripartire, perché con le nostre forze non possiamo. È con lui, con lo Spirito Santo, che si diventa uomini e donne di pace”. Non cita il Papa la guerra in Ucraina come ha fatto dall’inizio del conflitto, lo scorso 24 febbraio; ma il suo messaggio è molto più di un appello alla fine del conflitto, è invito a ritrovare la strada del dialogo, del rispetto dell’altro, della pacifica convivenza tra popoli; messaggio che è anche risposta a quanti hanno giustificato l’invasione russa. Così nelle parole conclusive prima della preghiera mariana chiede Francesco di pregare: “Signore dammi la tua pace, dammi lo Spirito Santo”. Chiediamolo, dice, “per chi vive accanto a noi, per chi incontriamo ogni giorno, e per i responsabili delle nazioni”. Nel dopo Regina caeli un pensiero alla Cina “seguo con attenzione e partecipazione la vita e le vicende di fedeli e pastori”; chiede che la chiesa possa vivere “in libertà e tranquillità”, per offrire “un positivo contributo al progresso spirituale e materiale della società. E un saluto ai partecipanti alla manifestazione “Scegliamo la vita”, che è dono di Dio. (Fabio Zavattaro - Sir)

E’ l’amore che salva

16 Maggio 2022 - Città del Vaticano - “Vidi un cielo nuovo e una terra nuova”. L’Apocalisse ci aiuta, anzi ci introduce e ci fa comprendere meglio il Vangelo di questa domenica, incentrato sul tema dell’amore, su quel “comandamento nuovo” che Gesù dice ai suoi discepoli nel Cenacolo. È un passo indietro rispetto alle pagine che abbiamo letto nelle domeniche precedenti, e il momento in cui il Signore sta consegnando il suo testamento – “come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”, leggiamo in Giovanni – “il criterio fondamentale per discernere se siamo veramente suoi discepoli oppure no”, commenta Papa Francesco nell’omelia pronunciata durante la celebrazione per la canonizzazione di dieci beati, tra i quali Titus Brandsma e Charles de Foucauld, alla quale ha partecipato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Papa Francesco lo saluta al Regina caeli, prima di rinnovare il suo appello per la pace in Ucraina: “mentre tristemente nel mondo crescono le distanze e aumentano le tensioni e le guerre, i nuovi Santi ispirino soluzioni di insieme, vie di dialogo, specialmente nei cuori e nelle menti di quanti ricoprono incarichi di grande responsabilità e sono chiamati a essere protagonisti di pace e non di guerra”. Ma torniamo alla celebrazione per i nuovi santi. Il Vangelo, nella parte omessa, ci dice che Giuda, presente con gli altri discepoli, dopo aver ricevuto il cibo dalle mani di Gesù lascia la sala – “era notte” scrive Giovanni – per “inoltrarsi nella notte del tradimento. Notte di “emozione e preoccupazione”, afferma il Papa, perché il Maestro sta lasciando i suoi, sa che lo aspetta il tradimento da parte di uno di loro, e la morte sul Calvario. “Proprio nell’ora del tradimento – afferma il vescovo di Roma – Gesù conferma l’amore per i suoi, perché nelle tenebre e nelle tempeste della vita questo è l’essenziale: Dio ci ama”. La notte del rifiuto è scesa su Giuda che, lasciando la sala, esce anche dallo spazio di quell’amore che tutto avvolge e tutto illumina. Proprio l’amore traccia il “profilo della santità cui ogni cristiano è chiamato. Al centro – afferma Francesco – non ci sono la nostra bravura, i nostri meriti, ma l’amore incondizionato e gratuito di Dio, che non abbiamo meritato”. Il mondo, afferma ancora, “vuole spesso convincerci che abbiamo valore solo se produciamo dei risultati, il Vangelo ci ricorda la verità della vita: siamo amati. E questo è il nostro valore: siamo amati”. Di più, il Signore ci ha amati per primo e continua a amarci; una verità, afferma Francesco, che cambia l’idea che spesso abbiamo della santità: “insistendo troppo sul nostro sforzo di compiere opere buone, abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio. È una visione a volte troppo pelagiana della vita, della santità. Così abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni invece che cercarla e abbracciarla nella quotidianità, nella polvere della strada, nei travagli della vita concreta, e, come diceva Teresa d’Avila alle consorelle, tra le pentole della cucina”. Ha parlato di amore dopo aver lavato i piedi ai discepoli e, quindi, si è consegnato per la crocifissione. Amare, afferma il vescovo di Roma, significa “servire e dare la vita”, significa “non anteporre i propri interessi; disintossicarsi dai veleni dell’avidità e della competizione; combattere il cancro dell’indifferenza e il tarlo dell’autoreferenzialità, condividere i carismi e i doni che Dio ci ha donato”. Concretamente significa chiedersi “cosa faccio per gli altri?”. Questo è amare: “vivere le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente”. Il segreto, per il Papa, è proprio questo, dare la vita, offrirla “senza tornaconto, senza ricercare alcuna gloria mondana”, perché la santità “non è fatta di pochi gesti eroici, ma di tanto amore quotidiano”. Ognuno di noi è chiamato alla santità, afferma ancora; la santità è “unica e irripetibile […] non c’è una santità in fotocopia” e il Signore “ha un progetto di amore per ciascuno, ha un sogno per la tua vita, per la mia vita, per la vita di ognuno di noi”. (Fabio Zavattaro - Sir)