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In Cristo la vita vince sempre

8 Aprile 2024 -
Città del Vaticano - Ancora un invito a pregare per la pace in questa seconda domenica di Pasqua. Pace, dunque, “giusta e duratura, in particolare per la martoriata Ucraina e per la Palestina e Israele” chiede Papa Francesco nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana del Regina coeli. Come già nel messaggio Urbi et Orbi di Pasqua e mercoledì scorso all’udienza generale in cui chiedeva di evitare ogni “irresponsabile tentativo” di allargare il conflitto. Pace nello Spirito del Signore perché “illumini e sostenga quanti lavorano per diminuire la tensione e favorire gesti che rendano possibili i negoziati. Che il Signore dia ai dirigenti la capacità di fermarsi un po’ per trattare, per negoziare”. Pace è anche la prima parola che Gesù pronuncia quando incontra gli apostoli chiusi nel Cenacolo, “per timore dei giudei” come leggiamo nel Vangelo di Giovanni. Le porte chiuse per timore di essere indicati come seguaci del Cristo. Paura, le porte chiuse, incapaci di comprendere e vivere quell’evento che ha sconvolto le loro persone. Manca Tommaso in quel primo incontro, e così Gesù torna ancora in quella sala dalle porte chiuse. Torna proprio per l’apostolo che Giovanni chiama anche Didimo e che si era manifestato incredulo quando gli hanno raccontato l’incontro con Gesù: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, non credo”. Tommaso è un po’ tutti noi con le nostre difficoltà e i nostri problemi nel credere, con quel bisogno di un passo in più per essere ancora più vicini al Signore. Così Tommaso vuole toccare per credere, e Gesù lo invita a toccare, a mettere le mani sulle sue ferite: “non essere incredulo, ma credente”. Questa seconda domenica di Pasqua è anche la festa della Divina Misericordia, per volere di Giovanni Paolo II che accolse il messaggio di santa Faustina Kowalska a unire la Chiesa e a fare dell’umanità una famiglia sola, una unità nuova “perché fondata non sulle risorse umane, ma sulla Divina misericordia”. Mi piace ricordare come il termine misericordia lo troviamo già nelle parole che Giovanni XXIII pronuncia aprendo i lavori del Concilio: la Chiesa “preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”. E torna, prima di Papa Francesco, con le parole di Paolo VI che nel Credo del popolo di Dio, solenne professione di fede, alla quale lavorò l’amico filosofo Jacques Maritain, troviamo l’invito a riscoprire le parole antiche e sempre nuove, come misericordia: “andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’amore e alla misericordia di Dio…”. Come non ricordare che Giovanni Paolo II alla misericordia dedicherà, due anni dopo la sua elezione, l’enciclica Dives in misericordia. Benedetto XVI, infine, parlando a Erfurt nell’ex convento agostiniano di Martin Lutero, ripropone l’interrogativo che non dava pace all’iniziatore della Riforma: “come posso avere un Dio misericordioso”. Domanda che sembra non preoccupare i cristiani, affermava. Ma torniamo al brano del Vangelo. Papa Francesco si sofferma sulle parole avere la vita, e spiega che diverse sono le vie per ottenerla: “c’è chi riduce l’esistenza a una corsa frenetica per godere e possedere tante cose: mangiare e bere, divertirsi, accumulare soldi e roba”. Ma è una strada che “non sazia il cuore”, perché “seguendo le strade del piacere e del potere non si trova la felicità” e non abbiamo risposte a altri aspetti quali “l’amore, le esperienze inevitabili del dolore, del limite e della morte”. La “pienezza di vita”, ci dice il Vangelo, “si realizza in Gesù”. Gli apostoli erano “spaventati e scoraggiati”, dice il Papa, e incontrano Gesù nel “momento di vita più tragico” chiusi nel Cenacolo per paura. Il Signore “per prima cosa mostra le sue piaghe: erano i segni della sofferenza e del dolore, potevano suscitare sensi di colpa, eppure con Gesù diventano i canali della misericordia e del perdono”. In lui, dice il Papa, “la vita vince, sempre, la morte e il peccato sono sconfitti”, basta “lasciarsi toccare dalla sua grazia e guidare dal suo esempio, e sperimentare la gioia di amare come Lui”. (Fabio Zavattaro)

Una Chiesa che accoglie, ama, serve, perdona

30 Ottobre 2023 - Citta del Vaticano - “È un’ora buia” aveva detto venerdì, giornata di digiuno e di preghiera per la pace. La famiglia umana “ha smarrito la via della pace” preferendo Caino a Abele, affermava il Papa; un mondo incapace di “ripudiare la follia della guerra che semina morte e cancella il futuro”. Due giorni dopo, all’Angelus, rinnova l’appello alla pace: “cessate il fuoco. Fermatevi, fratelli e sorelle. La guerra sempre è una sconfitta, sempre”. Chiede di pregare per l’Ucraina, per la “grave situazione in Palestina e in Israele e per le altre regioni in guerra”; chiede aiuti umanitari per Gaza, e la liberazione – “subito” – degli ostaggi. Il Vangelo di questa domenica vede Gesù messo alla prova da una domanda insidiosa dei sadducei, corrente spirituale che dava peso solo alla parola scritta che veniva da Dio: “Maestro, nella legge, qual è il grande comandamento?”. Con assoluta semplicità, Gesù risponde: “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento”. Poi ne aggiunge un secondo che “è simile” scrive Matteo: “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non cade nella trappola Gesù, anzi li prende in contropiede mettendo in primo piano la professione di fede che ogni credente ebreo pronuncia almeno due volte al giorno, quel Shema Israel che chiede di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la mente”. Duplice comandamento dell’amore, anche della pace potremmo dire, che diventa sintesi di tutte le norme e di tutti i precetti, come leggiamo nel primo Vangelo. Come dire, la legge, se vogliamo la nostra esistenza, il nostro rapportarsi a Dio e ai fratelli, è un camminare sui binari dell’amore. Anche la lettura tratta dal libro dell’Esodo ci parla di amore: “non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano…”. L’amore a Dio non può essere scisso dall’amore al prossimo, ricordava Papa Benedetto: “dichiarando che il secondo comandamento è simile al primo, Gesù lascia intendere che la carità verso il prossimo è importante quanto l’amore a Dio. Infatti, il segno visibile che il cristiano può mostrare per testimoniare al mondo l’amore di Dio è l’amore dei fratelli”. Così Papa Francesco, che spiega: “amando i fratelli, noi riflettiamo, come specchi, l’amore del Padre. Riflettere l’amore di Dio, ecco il punto; amare lui, che non vediamo, attraverso il fratello che vediamo”. Domenica nella quale il vescovo di Roma ha presieduto la Messa conclusiva del Sinodo sulla sinodalità, soffermandosi, nell’omelia, su due verbi: adorare e servire. Il cuore di tutto, dice Francesco, è amare Dio e il prossimo “non le nostre strategie, non i calcoli umani, non le mode del mondo”. Amare è adorare, aggiunge, significa “riconoscere nella fede che solo Dio è il Signore e che dalla tenerezza del suo amore dipendono le nostre vite, il cammino della chiesa, le sorti dell’umanità”. Il Papa chiede di rifiutare gli idoli, di “lottare contro le idolatrie, quelle mondane, che spesso derivano dalla vanagloria personale, come la brama del successo, l’affermazione di sé ad ogni costo, l’avidità di denaro – il diavolo entra dalle tasche –, il fascino del carrierismo”; ma anche le idolatrie camuffate di spiritualità: “le mie idee religiose, la mia bravura pastorale”. Poi il secondo verbo: servire. “Non esiste un’esperienza religiosa che sia sorda al grido del mondo”. È l’immagine della Chiesa di Francesco che si china a lavare “i piedi dell’umanità ferita; accompagna il cammino dei fragili, dei deboli e degli scartati; va con tenerezza incontro ai più poveri”. È la Chiesa che guarda alle “vittime delle atrocità della guerra; alle sofferenze dei migranti, al dolore nascosto di chi si trova da solo e in condizioni di povertà; a chi è schiacciato dai pesi della vita; a chi non ha più lacrime, a chi non ha voce”. Spesso dietro belle parole e suadenti promesse, dice il Papa, si nascondono “forme di sfruttamento o non si fa nulla per impedirle". Il sogno di Francesco, “una Chiesa serva di tutti, serva degli ultimi. Una Chiesa che non esige mai una pagella di ‘buona condotta’, ma accoglie, serve, ama, perdona. Una Chiesa dalle porte aperte che sia porto di misericordia”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La moneta, Cesare e Dio

23 Ottobre 2023 -
Città del vaticano - Per la Chiesa ieri, domenica, è stat la Giornata missionaria mondiale, memoria liturgica di san Giovanni Paolo II e anniversario dell’inizio del Pontificato di Papa Wojtyla, 22 ottobre di 45 anni fa. Domenica in cui Papa Francesco esprime preoccupazione per quanto sta accadendo in Israele e Palestina, e rinnova la sua richiesta perché si arrivi alla pace: “la guerra sempre è una sconfitta. È una distruzione della fraternità umana. Fratelli fermatevi”. Prega il Papa per coloro che soffrono e manifesta vicinanza “agli ostaggi, ai feriti, alle vittime e ai loro familiari”. A Gaza è “grave la situazione umanitaria”, dice prima di ricordare, con dolore, quanto accaduto alla parrocchia greco-ortodossa di San Porfirio, colpita da diversi missili, e all’ospedale Al-Ahli: “rinnovo il mio appello affinché si aprano gli spazi, si continuino a fare arrivare gli aiuti umanitari, e si liberino gli ostaggi”. Ma non dimentica Francesco l’Ucraina: “la guerra, ogni guerra che è nel mondo è una sconfitta”. Tornano alla mente le parole, quanto mai attuali oggi, che venti anni fa san Giovanni Paolo II pronunciava mentre il mondo era in ansia per il possibile intervento della coalizione internazionale, poi avvenuto, in Iraq: “Mai potremo essere felici gli uni contro gli altri, mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra”. Domenica che Matteo, nel suo Vangelo, ci porta a Gerusalemme dove Gesù è messo alla prova da discepoli dei farisei e da erodiani: filogovernativi e collaborazionisti, questi ultimi, una popolazione a sud del Mar Morto sotto la Giudea; contrari all’occupazione romana, i primi. L’evangelista, nel suo racconto, ci propone tre elementi: la moneta, il sottile inganno e la risposta spiazzante. La moneta con il volto di Cesare è il census coniata appositamente da Roma per il tributo dovuto all’impero dal popolo della Giudea, esclusi anziani e bambini. Aveva il valore di una giornata di lavoro ed era uno dei segni più odiosi per far sentire il peso della schiavitù. Il sottile inganno è la domanda sulla legittimità del tributo a Cesare e una risposta positiva poteva costare l’accusa di idolatria, una negativa, l’accusa di essere un sobillatore politico. Ma Gesù non si lascia ingannare: li chiama “ipocriti”, e pone loro una domanda: questa immagine e questa iscrizione di chi sono? Risponde con un sorprendente realismo politico: “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Il tributo va pagato “ma l’uomo porta in sé un’altra immagine quella di Dio” commentava Benedetto XVI: “l’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità”. Quante volte abbiamo ripetuto, e non sempre in modo appropriato, la frase del Vangelo di Matteo. “Parole diventate di uso comune, dice Papa Francesco, ma a volte utilizzate in modo sbagliato – o almeno riduttivo – per parlare dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra cristiani e politica”. Altra lettura sbagliata, per il vescovo di Roma, la divisione tra Cesare e Dio: è una “schizofrenia” separare la realtà terrena e quella spirituale, “come se la fede non avesse nulla a che fare con la vita concreta, con le sfide della società, con la giustizia sociale, con la politica e così via”. A Cesare, afferma Francesco, “cioè alla politica, alle istituzioni civili, ai processi sociali ed economici, appartiene la cura dell’ordine terreno”, e noi siamo chiamati a dare alla società il nostro contributo “promuovendo il diritto e la giustizia nel mondo del lavoro, pagando onestamente le tasse, impegnandoci per il bene comune”. A Dio “appartiene l’uomo, tutto l’uomo e ogni essere umano. E ciò significa che noi non apparteniamo a nessuna realtà terrena, a nessun ‘Cesare’ di turno. Siamo del Signore e non dobbiamo essere schiavi di nessun potere mondano”. Gesù ci ricorda “che nella nostra vita è impressa l’immagine di Dio, che niente e nessuno può oscurare”. È quanto affermava l’anonimo estensore della lettera A Diogneto il quale scriveva, a metà del secondo secolo, che i cristiani hanno la loro cittadinanza in cielo: “abitano ognuno nella propria patria, ma come se fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri di cittadini e si sobbarcano gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Ciò che ci disseta è l’Amore

4 Settembre 2023 -
È pomeriggio inoltrato a Ulan Bator, capitale della Mongolia dove Papa Fran0cesco si trova da venerdì primo settembre, 43mo viaggio internazionale. In Italia sono da poco passate le undici del mattino quando, al termine della messa, celebrata nel moderno Palazzo del ghiaccio, il vescovo di Roma rivolge un messaggio alla Cina, tenendo per mano l’arcivescovo emerito di Hong Kong, cardinale John Tong Hon, e il successore Stephen Chow Sauyan, che riceverà la porpora nel concistoro del 30 settembre 2023: “vorrei approfittare della loro presenza per inviare un caloroso saluto al nobile popolo cinese. A tutto il popolo auguro il meglio, e andare avanti, progredire sempre! E ai cattolici cinesi chiedo di essere buoni cristiani e buoni cittadini”. Due ore di aereo separano la capitale della Mongolia da Pechino; qualcosa in più da Mosca. Ma è evidente il valore di queste parole che Francesco pronuncia con a fianco i due presuli cinesi. Parole che anticipano l’annunciata visita a Pechino dell’inviato del Papa per il processo di pace in Ucraina, il cardinale Matteo Zuppi. Parole da leggere in controluce con quelle pronunciate, poco prima della celebrazione, nell’incontro interreligioso nel quale ha detto: “continuiamo a crescere insieme nella fraternità, come semi di pace in un mondo tristemente funestato da troppe guerre e conflitti”. Come esponenti di diverse religioni dobbiamo promuovere uno “stare insieme armonioso e aperto al trascendente, in cui l’impegno per la giustizia e la pace trovano ispirazione e fondamento nel rapporto con il divino”. Domenica in cui il Vangelo di Matteo ci propone il dialogo tra Pietro e Gesù, il quale parla di cosa accadrà a Gerusalemme: patire e soffrire a causa della cecità e dell’arroganza di anziani, sacerdoti e scribi, e venire ucciso per poi risorgere. Pietro non accetta queste parole, ragiona con logica umana, è convinto che Dio non lascerà morire suo figlio sulla croce. Ma Gesù sa che senza la croce non ci sarà resurrezione e non saranno sconfitti il peccato e la morte. Così dice a Pietro “va dietro di me, Satana, tu mi sei di scandalo”. Domenica scorsa abbiamo letto nel Vangelo che il Signore ha cambiato il nome di Simone in Cefa, ovvero in Pietro, la roccia sulla quale edificherà la sua chiesa; e questa domenica lo chiama Satana. Pietro si ribella, rifiuta il destino annunciato da Gesù lo considera un fallimento e così diventa da pietra solida a pietra d’inciampo nel cammino del Signore. Nell’omelia pronunciata nel Palazzo del ghiaccio cita le parole del Salmo, e si sofferma su due aspetti: la sete che ci abita e l’amore che ci disseta. Alla sinistra del Papa c’è la statua di legno della Vergine ritrovata da una donna nella spazzatura, alle spalle il grande crocifisso: chi vuole seguire Gesù percorre un cammino che passa attraverso l’esperienza del rifiuto, della contraddizione: “se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Rinnegare è dire no all’egoismo che ci fa ragionare con il metro della convenienza e non quello dell’affidamento totale. Siamo “nomadi di Dio” dice il Papa, “pellegrini alla ricerca della felicità, di “un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività”. La fede cristiana afferma il vescovo di Roma “risponde a questa sete, la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati. Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi”. Ciò che ci disseta è l’amore, ricorda Francesco: “a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità”. Successo, potere e cose materiali non dissetano le arsure della nostra vita, “questa è una mentalità mondana, che non porta a nulla di buono e ci lascia più aridi di prima”. Gesù, dice Francesco, ci indica la via: se vogliamo essere suoi discepoli dobbiamo prendere la sua croce e seguirlo. Solo l’amore ci disseta il cuore, guarisce le nostre ferite e ci dà la vera gioia. (Fabio Zavattaro - Sir)

Continuiamo a seminare

17 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - Le braccia spalancate di Papa Pio XII, quasi abbraccio alla folla del quartiere romano di San Lorenzo, dopo il bombardamento: 19 luglio del 1943. È l’immagine evocata da Papa Francesco con le sue parole, nel dopo angelus di domenica, quando parla di tragedie che si ripetono, come oggi in Ucraina, preghiera per un popolo che soffre tanto: “com’è possibile? Abbiamo perso la memoria? Il Signore abbia pietà di noi e liberi la famiglia umana dal flagello della guerra”.
Angelus nel giorno in cui il Vangelo di Matteo ci propone la parabola del seminatore, Gesù come un agricoltore che semina prima ancora di raccoglierei frutti e “bruciare la paglia con un fuoco inestinguibile” come diceva Giovanni Battista. Con una lettura superficiale si potrebbe dire che non tiene conto del terreno in cui cade il seme, un contadino distratto. Ma lui, il Signore, continua a seminare potremmo dire con pazienza e speranza; certo conosce i terreni, e sa che i primi tre, la strada, il terreno sassosi e i rovi, non porteranno alcun frutto, ma continua a seminare con tenacia e fiducia: sono “i sassi della nostra incostanza e le spine dei nostri vizi che possono soffocare la parola, eppure spera – dice Papa Francesco – spera sempre che noi possiamo portare frutto abbondante”. Poi ecco il quarto terreno, il terreno buono che darà frutto anche al di là delle aspettative. Nel linguaggio di Gesù la parabola aveva la funzione di far comprendere facilmente, attraverso immagini e esempi di vita quotidiana, il senso del suo discorso; il suo non era un linguaggio complicato come usavano i dottori della legge del tempo. E la semina – “immagine molto bella” dice il Papa – è utilizzata da Gesù per “descrivere il dono della sua parola”: il seme è piccolo ma “fa crescere piante che portano frutti”. Il Vangelo è “un piccolo libro semplice e alla portata di tutti che produce vita nuova in chi lo accoglie”. Matteo pone in primo piano il seminatore e il seme perché noi siamo il terreno e dipende da noi l’efficacia della semina. Con Isaia, la prima lettura, il legame tra Antico e Nuovo testamento, sappiamo che la pioggia e la neve non ritornano al cielo senza aver irrigato e fatto germogliare la terra, così la parola pronunciata dal Signore non tornerà da lui senza aver prodotto frutti. Anche noi siamo chiamati a seminare continuamente senza stancarci, afferma Francesco. Così, per spiegare meglio il senso delle sue parole, propone alcuni esempi, innanzitutto i genitori: “seminano il bene e la fede nei figli, e sono chiamati a farlo senza scoraggiarsi se a volte questi sembrano non capirli e non apprezzare i loro insegnamenti, o se la mentalità del mondo rema contro”. Il seme buono resta e “attecchirà a tempo opportuno”, per questo non bisogna cedere alla sfiducia e lasciare “i figli in balia delle mode e del cellulare, senza dedicare loro tempo e senza educarli”, altrimenti “il terreno fertile si riempirà di erbacce”. Poi i giovani che “possono seminare il Vangelo nei solchi della quotidianità”, con la preghiera “piccolo seme che non si vede” e che Gesù può far maturare. Ancora il tempo da dedicare agli altri, a chi ha bisogno: “può sembrare perso – ha affermato – e invece è tempo santo, mentre le soddisfazioni apparenti del consumismo e dell’edonismo lasciano le mani vuote”. Infine, lo studio: “è faticoso e non subito appagante, come quando si semina, ma è essenziale per costruire un futuro migliore per tutti”. Una parola, infine, per i “seminatori del Vangelo”, sacerdoti, religiosi e laici impegnati nell’annuncio che “vivono e predicano la Parola di Dio spesso senza registrare successi immediati”. Francesco li ha esortati a non dimenticare che “anche dove sembra non succeda nulla, in realtà lo Spirito Santo è all’opera e il regno di Dio sta già crescendo, attraverso e oltre i nostri sforzi”. Così invita tutti a fare memoria a quando è iniziata la fede in ognuno di noi, forse anni dopo l’incontro un testimone che ha posto la parola di Dio nella nostra vita. Angelus che termina con alcune domande: “getto qualche seme di Vangelo nella vita di tutti i giorni: studio, lavoro, tempo libero? Mi scoraggio o, come Gesù, continuo a seminare, anche se non vedo risultati immediati?”. (Fabio Zavattiaro - Sir)

La nostra vita è piena di miracoli

10 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - La sorpresa dell’Angelus di domenica, XIV del tempo ordinario, è nell’annuncio del prossimo Concistoro che Papa Francesco presiederà il 30 settembre. Saranno creati 21 i nuovi cardinali, tre ultraottantenni, portando così a 136 il numero dei porporati in un possibile Conclave, 16 votanti in più rispetto al tetto fissato da Paolo VI e confermato da Giovanni Paolo II. Tra i nomi alcune sorprese: monsignor Víctor Manuel Fernández, appena nominato prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, monsignor Stephen Chow Sau-Yan, Vescovo di Hong Kong, nomina importante, ponte con le autorità di Pechino, e monsignor Stephan Ameyu Martin Mulla arcivescovo di Juba, Sud Sudan, paese visitato lo scorso febbraio, dove la pace, disse il Papa il 4 febbraio, “è un cammino tortuoso ma non più rimandabile”. Due gli italiani: monsignor Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le chiese orientali e monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, il primo a ricevere la berretta porpora in una terra dove continuano le violenze, come ricorda Francesco nel dopo Angelus, auspicando tra israeliani e palestinesi la ripresa di un “dialogo diretto al fine di porre termine alla spirale di violenze e aprire strade di riconciliazione e di pace”. Angelus nella domenica in cui leggiamo, in Matteo, che Gesù prega il Padre e lo ringrazia “perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Quanto è diversa dalla nostra la logica di Dio che chiama beati i “poveri di spirito”, i sofferenti, i perseguitati, gli operatori di pace. Nell’Antico Testamento è il profeta Zaccaria – è la prima lettura – che annuncia la salvezza messianica operata da un re “giusto e vittorioso, umile”, che cavalca un asino. L’immagine di Gesù che entra in Gerusalemme su un umile asino. Ma cosa sono le cose per cui Gesù loda il Padre, e chi sono i piccoli che le accolgono. Innanzitutto, il Signore ricorda le opere, ovvero i ciechi che riacquistano la vista, i lebbrosi purificati, i poveri ai quali è annunciato il Vangelo. Dice Francesco: “Dio si rivela liberando e risanando l’uomo, e lo fa con un amore gratuito, un amore che salva”. Per questo Gesù loda il Padre, perché “la sua grandezza consiste nell’amore e non agisce mai al di fuori dell’amore”. Grandezza che “non è compresa da chi presume di essere grande e si fabbrica un dio a propria immagine: potente, inflessibile, vendicativo. In altre parole, questi presuntuosi non riescono ad accogliere Dio come Padre; chi è pieno di sé, orgoglioso, preoccupato solo dei propri interessi convinto di non aver bisogno di nessuno”. Corazìn, Betsàida e Cafarnao sono tre città dove Gesù ha compiuto molte guarigioni. Lo ricorda il Papa per dire che gli abitanti “sono rimasti indifferenti alla sua predicazione”, per loro i miracoli sono stati “eventi spettacolari” ma “esaurito l’interesse passeggero, li hanno archiviati, magari per occuparsi di qualche altra novità del momento. Non hanno saputo accogliere le grandi cose di Dio”. Non così i piccoli e Gesù loda il Padre “per i semplici che hanno il cuore libero dalla presunzione e dall’amor proprio”. I piccoli ricorda Papa Francesco sono come i bambini “si sentono bisognosi e non autosufficienti, sono aperti a Dio e si lasciano stupire dalle sue opere”. I piccoli, afferma ancora il Papa, “sanno leggere i suoi segni, meravigliarsi per i miracoli del suo amore”. La nostra vita ricorda il vescovo di Roma “è piena di miracoli, è piena di gesti d’amore”, ma un “cuore chiuso, un cuore blindato” non ha la capacità di stupirsi; dobbiamo lasciarci impressionare come “la pellicola di un fotografo”. L’atteggiamento del giusto “davanti alle opere di Dio: fotografarle nella mente le sue opere perché si imprimano nel cuore, per poi svilupparle nella vita, attraverso tanti gesti di bene”. Così chiede: “mi lascio meravigliare come un bambino dal bene […] oppure ho perso la capacità di meravigliarmi?”. Non è mancata, nel dopo l’Angelus, la preghiera per l’Ucraina e la gratitudine per quanti operano “per il salvataggio di migranti in mare”; parole all’indomani della lettera a dieci anni dal viaggio a Lampedusa: “la morte di innocenti, principalmente bambini … è un grido doloroso e assordante che non può lasciarci indifferenti. È la vergogna di una società”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Ascoltare gli altri per evitare i conflitti

3 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - Mai stancarsi di pregare per la pace, anche in questo tempo che ha il sapore delle vacanze. “La preghiera è la forza mite che protegge e sostiene il mondo” dice papa Francesco all’Angelus, rinnovando il suo appello per la pace, “in modo speciale per il popolo ucraino tanto provato”. Pace in Ucraina, certo, ma ci sono tante altre guerre “dimenticate, numerosi conflitti e scontri che insanguinano molti luoghi della terra; tante guerre ci sono oggi… Interessiamoci di quello che accade, aiutiamo chi soffre e preghiamo”. In questa domenica il Vangelo di Matteo ci propone parole forti, esigenti, contenute nell’ultima parte del discorso missionario di Gesù. Parla ai discepoli, ma parla a tutti noi, per indicare la strada di quell’andare nel mondo, per essere testimoni della novità cristiana. Certo ci sono fatiche e sofferenze, dice sempre Matteo, ma chi compie questa scelta “non perderà la sua ricompensa”. La nostra vita è fatta di tanti fili sottili che ci legano, come il voler bene a una persona, l’affetto e la stima degli altri, il timore di non essere “qualcuno”, paure e insicurezze che ci impediscono di essere accoglienti, di guardare l’altro come un fratello e non un nemico, e di chiuderci nelle nostre pseudo sicurezze. Di qui l’invito fatto da Giovanni Paolo II, all’inizio del suo Pontificato, a non aver paura, a “aprire, anzi spalancare le porte a Cristo”. Le parole che leggiamo in Matteo sono sì parole esigenti: “chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”; così chi ama di più il proprio figlio o non prende con se la propria croce. Ma non leggiamole come un assoluto, pretesa davvero inaudita – tutto l’insegnamento di Gesù è un invito ad amare l’altro, anche il nemico – ma cerchiamo di comprenderne la verità profonda. Non si tratta, cioè, di non amare padre, madre – come la mettiamo con il quarto comandamento? – o di non amare i figli. Gesù non esige un amore totalitario, ma chiede quel “morso del più”, direbbe don Ciotti, richiama l’amore che deve essere dato al Signore, e chiede che i cristiani siano testimoni di Gesù capaci di fare scelte serie, altrimenti, diceva Francesco, si è cristiani “da pasticceria”, oppure “cristiani da salotto”, più attenti alla forma che alla sostanza. Nella sua riflessione il Papa si sofferma sul termine profeta che in Matteo è ripetuto tre volte: “c’è chi lo immagina come una sorta di mago che predice il futuro; questa è un’idea superstiziosa e il cristiano non crede alle superstizioni, come la magia, le carte, gli oroscopi o cose simili”, ha commentato. Altri “dipingono il profeta come un personaggio del passato, esistito prima di Cristo per preannunciare la sua venuta”. Ma Francesco ci dice che profeti siamo tutti noi quando, in forza del battesimo, aiutiamo gli altri “a leggere il presente sotto l’azione dello Spirito Santo, a comprendere i progetti di Dio e corrispondervi. In altre parole, è colui che indica agli altri Gesù, che lo testimonia, che aiuta a vivere l’oggi e a costruire il domani secondo i suoi disegni”. Il profeta “è un segno vivo che indica Dio agli altri”, per il vescovo di Roma, “è un riflesso della luce di Cristo sulla strada dei fratelli”. Di qui l’invito a un esame di coscienza: “sono stato eletto profeta nel Battesimo, parlo e, soprattutto, vivo come testimone di Gesù? Porto un po’ della sua luce nella vita di qualcuno?”. La pagina dell’evangelista contiene anche un invito a accogliere i profeti. Per Francesco è importante “accoglierci a vicenda come tali, come portatori di un messaggio di Dio, ciascuno secondo il suo stato e la sua vocazione, e farlo lì dove viviamo: in famiglia, in parrocchia, nelle comunità religiose, negli altri ambiti della Chiesa e della società”. Assieme all’accoglienza c’è anche l’ascolto perché “lo Spirito ha distribuito doni di profezia nel santo Popolo di Dio”. È bene, dunque, ascoltare tutti, dice il Papa, “quando c’è da prendere una decisione importante”: pregare, ascoltare e dialogare, perché “anche il più piccolo, ha qualcosa di importante da dire, un dono profetico da condividere”. Così si ricerca la verità: “pensiamo – dice il Papa – a quanti conflitti si potrebbero evitare e risolvere così, mettendosi in ascolto degli altri con il sincero desiderio di comprendersi”. (Fabio Zavattaro)

Lo Spirito che unisce

29 Maggio 2023 -
Città del Vaticamo - Ancora una volta sono nel Cenacolo, le porte chiuse per paura. La morte di Gesù “li aveva sconvolti, i loro sogni erano andati in frantumi, le loro speranze svanite”, dice papa Francesco al Regina caeli. Certo, Gesù aveva detto loro che non li avrebbe lasciati orfani, e avrebbe mandato un altro consolatore; ma in quel momento al Cenacolo erano soli, timorosi di fronte al grande compito che avevano di fronte: nell’orto degli ulivi non avevano lasciato solo Gesù; Giuda non aveva tradito; e Pietro non aveva forse rinnegato il maestro tre volte. Paura, dunque: “vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Vi perseguiteranno”, aveva detto loro Gesù. Poi ecco il giorno di Pentecoste. Al Cenacolo, come nel tempo di Pasqua. Pentecoste. Festa che Benedetto XVI aveva definito il “battesimo della chiesa”. Festa che conclude il tempo liturgico della Pasqua. Nell’ebraismo è la festa che ricorda la rivelazione, il dono di Dio al popolo ebraico della legge, sul monte Sinai. Per il cristianesimo è la discesa dello Spirito Santo sui discepoli, riuniti con Maria. Per l’Islam lo Spirito è sorgente ispiratrice di angeli e profeti. Con il dono dello Spirito “Gesù desidera liberare i discepoli dalla paura, questa paura che li tiene rinchiusi in casa, e li libera perché siano capaci di uscire e diventino testimoni e annunciatori del Vangelo”. Non più chiusi, non solo nella stanza ma anche nel cuore. Anche noi ci chiudiamo, afferma il Papa prima della preghiera mariana, “per qualche situazione difficile, per qualche problema personale o familiare, per la sofferenza che ci segna o per il male che respiriamo attorno a noi, rischiamo di scivolare lentamente nella perdita della speranza e ci manca il coraggio di andare avanti”. Questo accade quando “permettiamo alla paura di prendere il sopravvento”, e crediamo di essere soli e pensiamo di non farcela: “la paura blocca, la paura paralizza. E anche isola: pensiamo alla paura dell’altro, di chi è straniero, di chi è diverso, di chi la pensa in un altro modo. E ci può essere persino la paura di Dio: che mi punisca, che ce l’abbia con me”. Dove c’è paura c’è chiusura, dice Francesco; il rimedio: lo Spirito Santo che “libera dalle prigioni della paura”. Nell’omelia che pronuncia nella basilica Vaticana il Papa afferma inoltre che lo Spirito Santo “è Colui che, al principio e in ogni tempo, fa passare le realtà create dal disordine all’ordine, dalla dispersione alla coesione, dalla confusione all’armonia”. E oggi nel mondo c’è tanta discordia, afferma il vescovo di Roma, tanta divisione; “siamo tutti collegati eppure ci troviamo scollegati tra di noi, anestetizzati dall’indifferenza e oppressi dalla solitudine. Tante guerre, tanti conflitti: sembra incredibile il male che l’uomo può compiere”. Ostilità e divisione sono alimentate dal diavolo, il “divisore”. Per questo, “al culmine della Pasqua, al culmine della salvezza”, il Signore “riversa sul mondo creato il suo Spirito buono, lo Spirito Santo, che si oppone allo spirito divisore perché è armonia, Spirito di unità che porta la pace”. Scende sugli apostoli e “ognuno riceve grazie particolari e carismi differenti”. Una pluralità che non genera confusione “ma lo Spirito, come nella creazione, proprio a partire dalla pluralità ama creare armonia. Non è un ordine imposto e omologato”, ricorda il Papa, “non crea una lingua uguale per tutti, non cancella le differenze, le culture, ma armonizza tutto senza omologare, senza uniformare”. Senza lo Spirito “la Chiesa è inerte, la fede è solo una dottrina, la morale solo un dovere, la pastorale solo un lavoro”. Di qui l’invito a essere “docili all’armonia dello Spirito”. Così il cammino del Sinodo – “che non è un parlamento per reclamare diritti e bisogni secondo l’agenda del mondo, non l’occasione per andare dove porta il vento” – deve cogliere l’opportunità di “essere docili al soffio dello Spirito”. Nel dopo Regina caeli la preghiera per le popolazioni al confine tra Myanmar e Bangladesh, per i Rohingya; per la “martoriata Ucraina”. Francesco ricorda anche Alessandro Manzoni che “è stato cantore delle vittime e degli ultimi: essi sono sempre sotto la mano protettrice della Provvidenza divina che atterra e suscita, affanna e consola”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Pasqua è un affrettarsi incontro al Signore

11 Aprile 2023 -
Città del Vaticano - Giovanni nel suo Vangelo scrive che a notare per prima che la pesante pietra del sepolcro non è più al suo posto è una donna, Maria di Magdala, giunta al luogo della sepoltura che era ancora notte. Gli uomini, gli apostoli, si erano dileguati e vivevano chiusi nella stanza del Cenacolo per paura. In un tempo come quello che viviamo in cui la comunicazione spesso è falsata da fake news, da interessi non sempre coincidenti con la verità dei fatti, Giovanni dà una lezione a noi giornalisti e ci dice quanto sia importante la testimonianza diretta, la fonte attendibile che ci consente di interpretare correttamente gli avvenimenti accaduti. Nessuno degli evangelisti narra il momento esatto della resurrezione, ma attraverso i testimoni diretti, si raccontano quei momenti così difficili da capire. Giovanni fa muovere nel racconto e sulla scena, come un abile cronista, o, se volete, un regista cinematografico, i personaggi: Maria rimane fuori dal sepolcro e, probabilmente, piange perché “hanno portato via il Signore dal sepolcro”. Informati da Maria che è corsa da loro, Pietro e Giovanni corrono verso il sepolcro, entrano, era ancora buio, e vedono i teli posati, il sudario piegato in un luogo a parte. E cosa pensano? Che qualcuno ha profanato il sepolcro, perché dalla morte non si torna indietro, e una nuova cattiveria è stata inflitta a quell’uomo giusto e innocente. Eppure, sapevano, dovevano ricordare le parole pronunciate da Gesù alla sorella di Lazzaro, Maria: “io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore, vivrà”. La sera di Pasqua, poi, due discepoli sulla via di Emmaus incontrano il risorto e subito “partirono senza indugio” per annunciare la gioia di quel momento; infine, Pietro, che si trovava sul lago di Galilea, si tuffa per andare incontro a Gesù risorto appena lo ha visto. La resurrezione di Cristo, ricordava Benedetto XVI, “non è il frutto di una speculazione, di un’esperienza mistica: è un avvenimento, che certamente oltrepassa la storia, ma che avviene in un momento preciso della storia e lascia in essa un’impronta indelebile”. La Pasqua del Signore, ha affermato Papa Francesco nell’omelia della notte in basilica, ci spinge a andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia”. Pasqua “invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia”, e “ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura”. Quel correre del Vangelo di Giovanni torna nel Messaggio Urbi et Orbi che Francesco pronuncia dalla loggia centrale della basilica vaticana. Pasqua è un affrettarsi incontro al Signore, afferma; “affrettarsi in un cammino di fiducia reciproca, fiducia tra le persone, tra i popoli e le nazioni. Lasciamoci sorprendere dal lieto annuncio della Pasqua, dalla luce che illumina le tenebre e le oscurità in cui troppe volte il mondo si trova avvolto”. Affrettiamoci, afferma ancora il vescovo di Roma, “a superare i conflitti e le divisioni e a aprire i nostri cuori a chi ha più bisogno. Affrettiamoci a percorrere sentieri di pace e fraternità”. Il pensiero di Francesco va ai tanti luoghi del mondo dove guerre e violenze minacciano la vita delle persone. È un lungo elenco che inizia dall’Ucraina: al Signore chiede aiuto per “l’amato popolo ucraino nel cammino verso la pace e effondi la luce pasquale sul popolo russo”. Quindi invoca conforto per i feriti e per coloro che hanno perso i propri cari in battaglia; per i rifugiati, i deportati, i prigionieri politici, e “tutti coloro che soffrono la fame, la povertà, e i nefasti effetti del narcotraffico, della tratta delle persone e di ogni forma di schiavitù”. Poi ancora Libano, Siria, Haiti, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Gerusalemme. Ai responsabili delle nazioni chiede di non discriminare nessun uomo o donna, né calpestare la loro dignità; di ricercare il bene comune nel rispetto dei diritti umani e della democrazia per costruire dialogo e convivenza pacifica. Pasqua, aggiunge, significa passaggio e “in Gesù si è compiuto il passaggio decisivo dell’umanità: dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, dalla paura alla fiducia, dalla desolazione alla comunione”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Togliete la pietra!

27 Marzo 2023 - Città del Vaticano - Da una parte, la guerra che continua con il suo corollario di vite recise e di distruzioni, cui si aggiunge l’annuncio, da parte di Mosca, di inviare armi nucleari in Bielorussia; dall’altra un Papa che ancora una volta invita a pregare, all’Angelus, per il martoriato popolo ucraino – ma anche per il Perù, per i terremotati della Turchia e della Siria e per le popolazioni del Mississippi – preghiera per dire basta al conflitto che dura da oltre 395 giorni. Così Francesco, nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana, ricorda che “nella solennità dell’Annunciazione, abbiamo rinnovato la consacrazione al cuore immacolato di Maria, nella certezza che solo la conversione dei cuori può aprire la strada che conduce alla pace”. Già lo scorso anno Francesco aveva compiuto questo atto affidando a Maria, in “questa ora buia”, l’umanità intera e in particolare Russia e Ucraina. Parole nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della resurrezione di Lazzaro, messaggio di speranza di fronte a una sorta di muro, la morte, oltre il quale non siamo capaci di andare. Che Dio abbia il potere di vincere la morte è certezza anche per l’Antico Testamento come leggiamo nel libro di Ezechiele, che si rivolge al popolo ebraico, lontano dalla terra di Israele, affermando che il Signore aprirà le tombe: “vi farò uscire dai vostri sepolcri” e “vi farò riposare nella vostra terra”. Così il racconto di Giovanni ci dice che nei cuori di Maria e Marta la speranza si riaccende alla vista di Gesù: “pur nel dolore – afferma il Papa – si aggrappano a questa luce, a questa piccola speranza. E Gesù le invita ad avere fede e chiede di aprire il sepolcro”. Giovanni, nel suo Vangelo, ci ha fatto percorrere, in queste tre domeniche, un cammino, narrando l’incontro con la samaritana al pozzo di Siloe e il cieco che riacquista la vista, la cui sintesi la troviamo in questa domenica: Gesù disseta l’uomo in ricerca e gli mostra una luce nuova, che gli permette di scoprire l’ultimo dei segni prima della passione, ovvero “io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muove, vivrà”. Il messaggio è chiaro, dice Francesco: “Gesù dà la vita anche quando sembra non esserci più speranza”. Capita a volte, afferma il Papa di “sentirsi senza speranza” o “incontrare persone che hanno smesso di sperare, amareggiate perché hanno vissuto cose brutte, il cuore ferito non può sperare”. Hanno vissuto una perdita, una malattia, una delusione, e altro; “sono momenti – afferma il vescovo di Roma – in cui la vita sembra un sepolcro chiuso: tutto è buio, intorno si vedono solo dolore e disperazione”. Sentiamo dire che non c’è nulla da fare. Il miracolo di Lazzaro ci dice che non è così. La fine non è questa: “in questi momenti non siamo soli, anzi che proprio in questi momenti lui si fa più che mai vicino per ridarci vita”. In una poesia brasiliana si racconta di un uomo che cammina in riva al mare con il Signore e la sua vita e segnata dalle orme lasciate sulla sabbia. Camminando si rende conto che in un certo punto c’è solo una impronta e dice: sono stati i giorni più difficili della mia vita e tu mi hai lasciato solo. Il Signore risponde: non ti ho lasciato, quelli sono stati i giorni in cui ti ho tenuto in braccio. Tornando all’Angelus, Francesco ci ricorda che proprio nei momenti difficili il Signore “si fa più che mai vicino per ridarci la vita” e “piange con noi, come ha pianto per Lazzaro”. Gesù “ci invita a non smettere di credere e di sperare, a non lasciarci schiacciare dai sentimenti negativi, che ti tolgono il pianto. Si avvicina ai nostri sepolcri e dice a noi, come allora: togliete la pietra”. Il Vangelo di questa domenica “è un inno alla vita, e lo si proclama quando la Pasqua è vicina”. Così il Papa dice: il dolore, gli errori, anche i fallimenti, non nascondeteli dentro di voi, in una stanza buia e solitaria, chiusa. Togliete la pietra”. Ancora, “non cedere al pessimismo che deprime, non cedere al timore che isola, non cedere allo scoraggiamento per il ricordo di brutte esperienze, non cedere alla paura che paralizza”, ma togliete la pietra. Un invito, infine, ai confessori: “siete nel confessionale non per torturare, per perdonare, e perdonare tutto, come il Signore perdona tutto”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La bellezza luminosa dell’amore

6 Marzo 2023 - Città del Vaticano - Dio chiama un nomade e lo invita a lasciare la propria terra e il proprio gruppo per intraprendere un cammino verso un luogo che il Signore stesso gli indicherà. Abramo obbedisce e Dio, è la prima lettura tratta dal libro della Genesi, gli dice: “farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome”. Matteo scrive che Pietro, Giacomo e Giovanni seguirono Gesù sul monte della Trasfigurazione, forse il Tabor, e lì, avvolti in una nube, videro conversare Mosè e Elia – ovvero la legge e i profeti, come dire l’Antico Testamento – e ascoltarono la voce del Padre che li invita a seguire il Figlio “l’amato” in cui ha posto “il suo compiacimento”. Come Abramo, anche i tre discepoli non sanno ancora quale strada li attende, ma conoscono la meta che li porterà là dove vedranno il Figlio dell’uomo risorgere dai morti. Antico e Nuovo Testamento che quasi si fondano per farci capire il mistero di Gesù. Queste pagine ci dicono che alla base c’è un cammino da percorrere – e la Quaresima è un cammino, di conversione, di speranza – c’è un volto e c’è una parola, una voce che chiama. Il volto e la voce sono l’espressione di una vera comunicazione: senza l’incontro con il volto dell’altro, senza l’ascolto della parola facciamo fatica a accogliere il messaggio; e il racconto della trasfigurazione è forse l’immagine perfetta del comunicare. E quel volto, che i tre discepoli vedono, diventa sorpresa: “avevano avuto sotto gli occhi per tanto tempo il volto dell’amore, e non si erano mai accorti di quanto fosse bello. Solo adesso se ne rendono conto, con immensa gioia”. Ma ci sono altri volti che Papa Francesco vuole ricordare all’Angelus, i volti di chi ha perso la vita, soprattutto giovani, nell’incidente ferroviario in Grecia; quelli delle numerose vittime del naufragio nelle acque di Cutro sulla costa di Crotone, i volti dei loro familiari, dei sopravvissuti per i quali chiede preghiere; e poi i volti della popolazione locale, delle istituzioni che ringrazia per la solidarietà e l’accoglienza verso questi fratelli e sorelle. Preghiera ma anche appello perché “non si ripetano simili tragedie”; perché “siano fermati” i trafficanti di esseri umani; perché “i viaggi della speranza non si trasformino mai più in viaggi della morte”, e le acque del Mediterraneo “non siano più insanguinate da tali drammatici incidenti. Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere”. Parole che ricordano quelle pronunciate dieci anni fa a Lampedusa, primo viaggio del Pontificato, quando disse che “la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere”. Sul monte della Trasfigurazione i tre discepoli hanno conosciuto la bellezza di un volto. Francesco dice: “impariamo a riconoscere, sul suo volto, la bellezza luminosa dell’amore, che si dona anche quando porta i segni della croce”. Ancora impariamo a cogliere la stessa bellezza nei volti di familiari, amici, colleghi, di quanti camminano accanto a noi ogni giorno: “quanti volti luminosi, quanti sorrisi, quante rughe, quante lacrime e cicatrici parlano d’amore attorno a noi. Impariamo a riconoscerli e a riempircene il cuore”. Pietro, dopo aver vissuto il momento della Trasfigurazione “vorrebbe fermare il tempo e mettere la scena in ‘pausa’”; vorrebbe, in sostanza, prolungare l’esperienza meravigliosa, “ma Gesù non lo permette. La sua luce, infatti, non si può ridurre a un momento magico. Così diventerebbe una cosa finta, artificiale, che si dissolve nella nebbia dei sentimenti passeggeri”. Francesco allora chiede, all’Angelus, di non restare con le mani in mano, ma di “portare anche agli altri la luce che abbiamo ricevuto, con le opere concrete dell’amore, tuffandoci con più generosità nelle occupazioni quotidiane, amando, servendo e perdonando con più slancio e disponibilità”. In questo cammino della Quaresima, il vescovo di Roma ci lascia un messaggio legato alla nostra vita quotidiana: “è importante stare con Gesù, anche quando non è facile capire tutto quello che dice e che fa per noi. È stando con lui, infatti, che impariamo a riconoscere, sul suo volto, la bellezza luminosa dell’amore che si dona, anche quando porta i segni della croce”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Lo sbilanciamento dell’amore

20 Febbraio 2023 -
Città del Vaticano - L’evangelista Matteo ci porta ancora a riflettere sul Discorso della montagna, o meglio ci pone di fronte a quelle ‘antitesi’ che caratterizzano la novità del messaggio cristiano: “avete inteso che fu detto […] ma io vi dico”. Apparente contraddizione tra il Primo e il Nuovo Testamento. Non si tratta, però, di una semplice continuazione di quanto abbiamo ascoltato nella pagina di domenica scorsa, quando il richiamo che ci veniva dalle parole di Gesù era quello di non impoverire il grande dono di Dio che ci ha chiamati beati, ma di essere sale e luce del mondo. Così siamo chiamati a fare un altro passo in avanti e lo capiamo già dall’accostamento tra la prima lettura, tratta dal Levitico, il libro dei sacerdoti – dove leggiamo: “siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro tuo fratello” – e il brano del primo Vangelo “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Ecco l’obiettivo cui tendere e che ha come presupposto quell’”amare i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” che si contrappone all’”amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico” iscritto nella legge del taglione, che però voleva essere un freno imposto alla vendetta indiscriminata. Gesù ci provoca, dice il Papa all’Angelus, ci chiede di andare oltre la legge e accettare di amare il proprio nemico, di fare senza attendere di ricevere qualcosa in cambio del nostro gesto; noi cerchiamo di compiere gesti che corrispondano alle nostre aspettative, dice il vescovo di Roma, “preferiamo amare soltanto chi ci ama per evitare le delusioni, fare del bene solo a chi è buono con noi, essere generosi solo con chi può restituirci un favore; e a chi ci tratta male rispondiamo con la stessa moneta, così siamo in equilibrio”. Ma questo non basta, non è cristiano; bisogna strappare dal cuore la radice stessa della vendetta e dunque riuscire ad amare anche il nemico. Anche nella lettera di Paolo ai Corinti troviamo una ricetta per essere discepoli: mai montarsi la testa. Gesù ci provoca, dice Francesco, e ci chiede di fare qualcosa di straordinario, “che va oltre i limiti del consueto, che supera le prassi abituali e i calcoli normali dettati dalla prudenza”. Noi tentiamo di “restare nell’ordinario dei ragionamenti utilitari”, Cristo invece “ci stimola a vivere lo sbilanciamento dell’amore. Gesù non è un bravo ragioniere: no! Sempre conduce allo sbilanciamento dell’amore. Non meravigliamoci di questo. Se Dio non si fosse sbilanciato, noi non saremmo mai stati salvati: è stato lo sbilanciamento della croce che ci ha salvati!”. Uno “sbilanciamento” che nella storia della Chiesa ha avuto molti testimoni che si sono opposti al male con il bene, come il cardinale Francois Xavier Van Thuan che ha trascorso 13 anni nelle carceri vietnamite, nove dei quali in isolamento, senza un processo, un giudizio e una condanna. Ma la sua “ribellione” era nei messaggi che scriveva di nascosto e che faceva uscire dalla prigione, messaggi di speranza, racconti di come celebrava messa con una goccia di vino e frammenti di ostia. Le autorità lo temevano perché parlava di amore e perdono, aprendo così una breccia anche nel cuore dei suoi carcerieri”. La lezione che ci viene dalla pagina del Vangelo di Matteo è che Dio “ci ama mentre siamo peccatori, non perché siamo buoni o in grado di restituirgli qualcosa”. Questa è la mentalità che dobbiamo cercare di assumere “perché solo così lo testimonieremo davvero”. Il Signore, afferma Francesco, “ci propone di uscire dalla logica del tornaconto e di non misurare l’amore sulla bilancia dei calcoli e delle convenienze. Ci invita a non rispondere al male con il male, a osare nel bene, a rischiare nel dono, anche se riceveremo poco o nulla in cambio. Perché è questo amore che lentamente trasforma i conflitti, accorcia le distanze, supera le inimicizie e guarisce le ferite dell’odio”. E non può mancare, anche questa domenica, il pensiero per la martoriata Ucraina, per i drammi di “tanti popoli che soffrono a causa della guerra o a motivo della povertà, della mancanza di libertà o delle devastazioni ambientali”. Ancora, il terremoto in Siria e Turchia: “l’amore di Gesù ci chiede di lasciarci toccare dalle situazioni di chi è provato”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La fede: storia d’amore con Dio

13 Febbraio 2023 - Città del Vaticano - Nella mente, e nel cuore, le immagini di devastazioni che giungono dalla Turchia e dalla Siria, immagini di una catastrofe, dice Papa Francesco all’Angelus. Parla di “dolore” per questi popoli e chiede di pregare e di pensare a “cosa possiamo fare per loro”. Non manca il pensiero all’Ucraina, una guerra iniziata quasi un anno fa: “il Signore apra vie di pace e dia ai responsabili il coraggio di percorrerle”. E nemmeno per il Nicaragua, un vescovo arrestato e condannato a 26 anni di carcere, persone deportate negli Stati Uniti: “prego per loro e per tutti quelli che soffrono in quella cara Nazione, e chiedo la vostra preghiera”. Invita poi i responsabili a cercare la pace “che nasce dalla verità, dalla giustizia, dalla libertà e dall’amore e si raggiunge attraverso l’esercizio paziente del dialogo”. Forse non è azzardato dire che monsignor Rolando Àlvarez, vescovo di Matagalpa, con il suo rifiuto di salire sull’aereo che lo avrebbe portato in esilio negli Usa assieme a 222 oppositori del regime di Daniel Ortega, con il suo impegno in difesa dei diritti umani, vive concretamente il messaggio del discorso della montagna, che ritroviamo in questa sesta domenica del tempo ordinario. Abbiamo ascoltato l’annuncio sconvolgente delle beatitudini che, se vissute, portano a essere sale della terra e luce del mondo. Questa è la domenica del discorso delle antitesi, quel “ma io vi dico” che risuona sei volte nel testo di Matteo e che è un programma, “la chiave per comprendere parole antiche ma sempre nuove”. Gesù, leggiamo, poteva essere visto come colui che non rispettava la legge, i profeti: d’altra parte non era entrato nella casa del pubblicano? Non aveva compiuto azioni il sabato? Matteo ci fa capire bene cosa sia la giustizia proclamata da Gesù; non una giustizia diversa, ma superiore che va oltre quella proclamata de scribi e farisei e, in un certo senso, la completa, la porta a “compimento”. Papa Francesco, nelle parole che pronuncia prima della preghiera mariana, invita a interrogarsi sul significato di questo compimento. “La Scrittura dice di ‘non uccidere’ – afferma il vescovo di Roma – ma questo per Gesù non basta se poi si feriscono i fratelli con le parole”; ancora, non commettere adulterio, “ma ciò non basta se poi si vive un amore sporcato da doppiezze e falsità”; “non giurare il falso”, ma, dice il Papa, “non basta fare un solenne giuramento se poi si agisce con ipocrisia”. Anche chi si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto a giudizio, leggiamo in Matteo, così chi dice pazzo “sarà destinato al fuoco della Gaenna”. Come dire, siamo messi male un po’ tutti e quel “ma io vi dico” ci tocca davvero da vicino. Francesco si sofferma sull’esempio che troviamo in Matteo, dell’offerta all’altare e del riconciliarsi con il fratello: “facendo un’offerta a Dio si ricambiava la gratuità dei suoi doni”. Era un rito molto importante, ricorda, “tanto importante che era vietato interromperlo se non per motivi gravi. Ma Gesù afferma che si deve interromperlo se un fratello ha qualcosa contro di noi, per andare prima a riconciliarsi con lui: solo così il rito è compiuto”. Il messaggio è chiaro, afferma il Papa: “le norme religiose servono, sono buone, ma sono solo l’inizio: per dare loro compimento è necessario andare oltre la lettera e viverne il senso”. I comandamenti poi “non vanno rinchiusi nelle casseforti asfittiche dell’osservanza formale, se no rimaniamo in una religiosità esteriore e distaccata, servi di un ‘dio padrone’ piuttosto che figli di Dio Padre”. L’obbedienza alla legge che chiede Gesù è quella di chi è pronto ad accogliere l’amore che viene dal padre. La giustizia o l’ingiustizia non riguardano soltanto la sfera delle azioni, ma anche quella più profonda delle intenzioni e dei desideri del cuore. La fede afferma il vescovo di Roma “è una questione di calcoli, di formalismi, oppure una storia d’amore con Dio? Mi accontento di non fare del male, di tenere a posto ‘la facciata’, o cerco di crescere nell’amore a Dio e agli altri? E ogni tanto mi verifico sul grande comando di Gesù, mi chiedo se amo il prossimo come lui ama me? Perché magari siamo inflessibili nel giudicare gli altri e ci scordiamo di essere misericordiosi, com’è Dio con noi”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Sale e luce

6 Febbraio 2023 -
Roma - Deponete le armi dell’odio e della vendetta, superate antipatie e avversioni che contrappongono tribù e etnie; “impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce”. È l’appello di papa Francesco al termine del pellegrinaggio ecumenico di pace in Sud Sudan, viaggio intrapreso “dopo aver ascoltato il grido di un intero popolo”. Questa giovane nazione ha bisogno “di padri e non di padroni, di passi stabili di sviluppo e non di continue cadute”, aveva detto nel suo primo discorso, rivolto alle autorità del paese; e lasciando Juba Francesco invita a essere sale e luce per portare speranza e pace, “una pace che integra le diversità e promuove l’unità nella pluralità”. Il Vangelo di ieri ci proponeva, con Matteo, proprio l’invito di Gesù di essere sale e luce del mondo. Siamo ancora su quella collina che degrada verso il mare di Galilea e Gesù fa questo invito a persone semplici, umili pescatori che avevano appena ascoltato il discorso delle beatitudini. Significativo il fatto che proprio coloro la cui vita è umile, povera, mite, piccola, quasi insignificante rispetto alle grandi cose del mondo, sono i destinati a portare sapore e luce. Il sale da sapore condisce, si scioglie: è diffuso e presente ma non lo vediamo. In molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di condivisione. La legge ebraica prescriveva di mettere del sale sopra ogni offerta come segno di alleanza con Dio. La luce, poi, ci permette di vedere tutto ciò che ci circonda. Messa celebrata presso il mausoleo di John Garang, simbolo dell’indipendenza di questa giovane nazione. “Dinanzi a tante ferite, alle violenze che alimentano il veleno dell’odio, all’iniquità che provoca miseria e povertà – dice il Papa – potrebbe sembrarvi di essere piccoli e impotenti”. Ecco l’immagine del sale e dei suoi piccoli granelli che si sciolgono e danno sapore. “Così, noi cristiani, pur essendo fragili e piccoli, anche quando le nostre forze ci paiono poca cosa di fronte alla grandezza dei problemi e alla furia cieca della violenza, possiamo offrire un contributo decisivo per cambiare la storia”. Ecco l’appello a deporre le armi dell’odio e della vendetta. Le beatitudini, dice il vescovo di Roma, “rivoluzionano i criteri del mondo e del modo comune di pensare”, e ci dicono che per essere beati, felici “non dobbiamo cercare di essere forti, ricchi e potenti, bensì umili, miti, misericordiosi; non fare del male a nessuno, ma essere operatori di pace per tutti […] se mettiamo in pratica le Beatitudini, se incarniamo la sapienza di Cristo, non diamo un buon sapore solo alla nostra vita, ma anche alla società, al Paese dove viviamo”. Sulle ferite mettiamo “il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male”. Sale, ma anche luce. “Prima di preoccuparci delle tenebre che ci circondano, prima di sperare che qualcosa attorno si rischiari, siamo tenuti a brillare, a illuminare con la nostra vita e con le nostre opere le città, i villaggi e i luoghi che abitiamo, le persone che frequentiamo, le attività che portiamo avanti”. Così Francesco aggiunge: “non accada che la nostra luce si spenga, che dalla nostra vita scompaia l’ossigeno della carità, che le opere del male tolgano aria pura alla nostra testimonianza”. Al termine della celebrazione a Juba il vescovo di Roma ricorda santa Giuseppina Bakhita, originaria del Sudan e canonizzata, nel duemila, da Giovanni Paolo II “una grande donna, che con la grazia di Dio ha trasformato in speranza la sofferenza patita”. Speranza è la prima parola che il Papa lascia al Paese, “dono da condividere, seme che porti frutto”. Speranza nel segno della donna, di “tutte le donne del Paese”. Poi pace; più volte ha ripetuto, nella Repubblica del Congo, in Sud Sudan questa parola. Assieme all’arcivescovo anglicano Justin Welby e al pastore della chiesa di Scozia Iain Greenshields “continueremo – afferma – a accompagnare i vostri passi, tutti e tre insieme, facendo tutto quello che possiamo perché siano passi di pace, passi verso la pace”. A Maria affida “la pace nel mondo, in particolare i numerosi Paesi che si trovano in guerra, come la martoriata Ucraina”. (Fabio Zavattaro)

Sapersi fare da parte

16 Gennaio 2023 - Città del Vaticano - Ancora Giovanni Battista in primo piano nella pagina del Vangelo. Lo abbiamo incontrato domenica scorsa nell’atto di battezzare, nell’acqua del Giordano, Gesù che si era unito alla schiera di quanti erano in attesa di immergersi. Lo incontriamo di nuovo, dunque, non più e non solo il Battista, ma il testimone, colui che riconosce Gesù: “vede venire verso di lui” un uomo “che mi è passato avanti perché era prima di me” e dice è “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato dal mondo”, come leggiamo nel quarto Vangelo. Lasciata Nazareth è il primo atto pubblico di Gesù scendere al Giordano. Giovanni per due volte confessa di non conoscerlo eppure lo riconosce e lo chiama agnello di Dio. Facile il riferimento alla realtà agricola del tempo, mentre per i nostri giorni difficile pensare a un riferirsi al mondo contadino o più ancora alla tradizione biblica dove l’agnello era l’alimento centrale del pasto pasquale che ricordava, nella tradizione ebraica, l’uscita del popolo dalla schiavitù dell’Egitto, l’arrivo nella terra promessa e, dunque, la fine della migrazione. Giovanni ci presenta Gesù come il figlio di Dio, come colui che avrà un ruolo determinante nel cammino di liberazione di tutti gli uomini, come colui che alimenta e indica la speranza in un futuro migliore. La scena ci dice anche che Gesù ha scelto di essere il più possibile vicino a ogni uomo nonostante le nostre contraddizioni, i nostri peccati; vicino a chi soffre a causa della povertà, chi è ferito dalla violenza e dalla guerra, come nella “martoriata ucraina” verso la quale ancora una volta rivolge il suo pensiero e la preghiera perché finisca quanto prima il conflitto. Giovanni Battista ci dice anche l’importanza di sapersi mettere da parte, di lasciare il posto ad altri. Lui era stato inviato a preparare la strada al Signore e “umanamente – afferma Papa Francesco all’Angelus – si potrebbe pensare che gli venga riconosciuto un premio, un posto di rilievo nella vita pubblica di Gesù. Invece no. Giovanni, compiuta la sua missione, sa farsi da parte, si ritira dalla scena per fare posto a Gesù”. Ecco il grande messaggio che ci viene da Giovanni Battista: ha riconosciuto il Signore e ora “si mette a sua volta in umile ascolto; da profeta diventa discepolo”. Resta il primo testimone di Gesù, ricordava Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth, e “da autentico profeta, Giovanni rese testimonianza alla verità senza compromessi. Denunciò le trasgressioni dei comandamenti di Dio, anche quando protagonisti ne erano i potenti” e questo gli costò la vita. “Ha predicato al popolo, ha raccolto dei discepoli e li ha formati per molto tempo. Eppure – afferma Papa Francesco nelle parole che pronuncia prima della preghiera mariana – non lega nessuno a sé. E questo è difficile ma è il segno del vero educatore”. Giovanni “mette i suoi discepoli sulle orme di Gesù. Non è interessato ad avere un seguito per sé, a ottenere prestigio e successo, ma dà testimonianza e poi fa un passo indietro, perché molti abbiano la gioia di incontrare Gesù. Possiamo dire: apre la porta e se ne va”. La lezione di Giovanni Battista è proprio nel gesto di umiltà di farsi da parte, insegnando “la libertà dagli attaccamenti”. È facile, dice il vescovo di Roma, “attaccarsi a ruoli e posizioni, al bisogno di essere stimati, riconosciuti e premiati”. È naturale ma non è una cosa buona perché “il servizio comporta la gratuità, il prendersi cura degli altri senza vantaggi per sé, senza secondi fini, senza aspettare il contraccambio”. Questo è importante per il sacerdote “chiamato a predicare e celebrare non per protagonismo o per interesse, ma per accompagnare gli altri a Gesù”. È importante per i genitori “che crescono i figli con tanti sacrifici, ma poi li devono lasciare liberi di prendere la loro strada nel lavoro, nel matrimonio, nella vita”; non li lasciano soli ma la loro sarà una presenza “con discrezione, senza invadenza”. Vale anche per altri ambiti, ricorda Francesco, “come l’amicizia, la vita di coppia, la vita comunitaria. Liberarsi dagli attaccamenti del proprio io e saper farsi da parte costa, ma è molto importante: è il passo decisivo per crescere nello spirito di servizio, senza cercare il contraccambio”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Misericordia, vera giustizia

9 Gennaio 2023 - Città del Vaticano - Abbiamo ancora negli occhi le immagini delle esequie del Papa emerito, in questa domenica che chiude il tempo del Natale, e alla mente tornano le parole di Benedetto XVI nel primo libro su Gesù di Nazaret, quando scrive che “il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare ‘ogni giustizia’ si rivela solo nella croce: il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, e la voce dal cielo ‘questi il figlio mio prediletto’ è il rimando anticipato alla risurrezione”. L’evangelista Matteo ci porta sulle rive del Giordano e ci mostra Gesù confuso tra la folla dei peccatori e Giovanni Battista che vorrebbe impedire a Gesù di immergersi nelle acque per il battesimo: “sono io che ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” Quello amministrato da Giovanni era un atto penitenziale, un gesto che invitava all’umiltà verso Dio, e qui si capisce il perché del tentativo di rifiuto del Battista. In quell’andare al Giordano vi è un doppio movimento: Gesù scende nelle acque del fiume che scorre 400 metri sotto il livello del mare; scende dalla Galilea; scende per immergersi con gli altri peccatori per poi risalire verso il Padre, compiendo un cammino che lo porterà nel deserto e quindi a compiere la missione per la quale è stato inviato, cioè la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato e del male. Quanta similitudine con il cammino del popolo di Israele che liberato dalla schiavitù, vaga nel deserto prima di raggiungere la terra promessa e bagnarsi nelle acque del fiume Giordano. Nella Cappella Sistina, dove Francesco, prima dell’Angelus, ha battezzato a 13 bambini, ai lati del Giudizio due opere del Perugino narrano questa similitudine attraverso il Battesimo di Gesù, a destra e, di fronte, Il viaggio di Mosè in Egitto: due diversi inizi di una storia che si intreccia. Francesco, nelle parole prima della preghiera mariana, afferma che facendosi battezzare “Gesù ci svela la giustizia di Dio, quella giustizia che lui è venuto a portare nel mondo”; una giustizia che “non ha come fine la condanna del colpevole, ma la sua salvezza, la sua rinascita, il renderlo giusto: da ingiusto a giusto. È una giustizia che viene dall’amore, da quelle viscere di compassione e di misericordia che sono il cuore stesso di Dio”. La giustizia di Dio “non vuole distribuire pene e castighi” ma “consiste nel rendere giusti noi suoi figli, liberandoci dai lacci del male, risanandoci, rialzandoci”. Gesù sulle rive del Giordano, ci dice che “la vera giustizia di Dio è la misericordia che salva”; abbiamo paura a pensarlo, dice Francesco, “ma Dio è misericordia, perché la sua giustizia è proprio la misericordia che salva, è l’amore che condivide la nostra condizione umana, si fa vicino, solidale con il nostro dolore, entrando nelle nostre oscurità per riportare la luce”. Tornano anche qui le parole di Benedetto XVI che a Erfurt, parlando nel settembre 2011 al Consiglio della chiesa evangelica in Germania, ricordava la domanda che inquietava Martin Lutero: come posso avere un Dio misericordioso. La giustizia di Dio è misericordiosa, afferma Francesco, e come Chiesa “siamo chiamati a esercitare in questo modo la giustizia, nei rapporti con gli altri, nella Chiesa, nella società: non con la durezza di chi giudica e condanna dividendo le persone in buone e cattive, ma con la misericordia di chi accoglie condividendo le ferite e le fragilità delle sorelle e dei fratelli, per rialzarli”. Così dice no il Papa al “chiacchiericcio che divide”, forse pensando alle dichiarazioni e voci non solo di questi giorni, tentativi di contrapporre il Papa emerito e il regnante con l’obiettivo di rompere la continuità e, soprattutto, quell’unità della chiesa che si proclama nel Credo. “Portiamo i pesi gli uni degli altri invece di chiacchierare e distruggere”, dice Francesco perché il chiacchiericcio “è un’arma letale: uccide, uccide l’amore, uccide la società, uccide la fratellanza”. Angelus nel quale Francesco torna a pregare per l’Ucraina, un Natale in guerra, e il suo pensiero va alle madri “dei soldati che sono caduti in questa guerra in Ucraina. Le mamme ucraine e le mamme russe”. Questo è il prezzo della guerra”. Chiede preghiere per le mamme che “hanno perso i figli soldati, siano ucraine siano russe”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Giuseppe, uomo del sì

19 Dicembre 2022 - Città del Vaticano - È la domenica di Giuseppe “uomo giusto”, come scrive Matteo nel suo Vangelo. Ieri, domenica, quarta di Avvento, che precede il Natale e ci fa capire che l’attesa si è conclusa e il Messia, promesso e atteso, non è più solo annuncio ma diventa evento, e si inserisce nella storia del popolo di Israele, ma anche nella storia dell’umanità. “Gesù Cristo, il Dio divenuto essere umano – scrive nelle meditazioni sul Natale Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano – significa che Dio ha assunto in carne e ossa tutta l’essenza umana; che d’ora in poi l’essenza divina può essere trovata solo in forma umana; che in Gesù Cristo ognuno è stato liberato per essere realmente persona davanti a Dio. Divenendo umano, Dio si manifesta come colui che non vuole esistere per sé, bensì per noi”. È un Dio che sceglie di nascere in un piccolo, sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme; che sceglie di nascere in una mangiatoria da una povera ragazza di Nazareth; che sceglie, infine, di vivere in mezzo al suo popolo. Sarà Maria a dare corpo e volto all’Emanuele, Dio con noi. Giuseppe, quando scopre la maternità della sua promessa sposa, deve sciogliere il vincolo nuziale: è la legge. Il mondo gli crolla addosso, dice Papa Francesco all’Angelus, svaniti i progetti di “una bella famiglia, con una sposa affettuosa e tanti bravi figli, e un lavoro dignitoso: sogni semplici e buoni, sogni della gente semplice e buona”. Di fronte alla notizia di questo bambino non suo, si chiede il Papa, “cosa avrà provato Giuseppe? Sconcerto, dolore, smarrimento, forse anche irritazione e delusione”. Nel diritto giudaico il fidanzamento, benché non ci fosse ancora convivenza, è come un anticipo del matrimonio, e crea un legame giuridico, in attesa dell’accoglimento in casa. Ma Giuseppe uomo giusto non vuole accusarla pubblicamente, e pensa di ripudiarla in segreto: “sceglie la via della misericordia”. Così, nel “pieno della crisi”, mentre riflette sulla scelta da prendere, “Dio accende nel suo cuore una luce nuova: in sogno gli annuncia che la maternità di Maria non viene da un tradimento, ma è opera dello Spirito Santo, e il bambino che nascerà è il Salvatore”. Quando si sveglia capisce che “il sogno più grande di ogni pio Israelita”, l’essere padre del Messia, si realizza “in modo assolutamente inaspettato”, afferma Francesco. L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e stravolge i criteri e le attese dell’uomo. La “misteriosa” gravidanza di Maria sconvolge il mondo religioso e umano di Giuseppe. Ma egli compie un atto che va oltre la sua volontà, è l’obbedienza radicale alla volontà di Dio che gli permette di agire nel rispetto della legge e nel rispetto della sua futura sposa. Il suo “si” è paragonabile al “si” di Maria che si è lasciata guidare dalla mano del Signore. “Ecco che un semplice falegname si fida e affida a Dio “al di là di tutto” e accoglie Maria e suo figlio “in modo completamente diverso da come si aspettava”. Afferma il Papa: “Giuseppe dovrà rinunciare alle sue certezze rassicuranti, ai suoi piani perfetti, alle sue legittime aspettative e aprirsi a un futuro tutto da scoprire”. Davanti a Dio che gli scombina i piani egli ha il coraggio “eroico” di rispondere sì: “il suo coraggio è fidarsi, si fida, accoglie, è disponibile e non domanda ulteriori garanzie”. Giuseppe, dice il vescovo di Roma, “indica la via: non bisogna cedere a sentimenti negativi, come la rabbia e la chiusura”. Bisogna invece “accogliere le sorprese della vita, anche le crisi, con un’attenzione: quando si è in crisi non bisogna scegliere di fretta secondo l’istinto”, ma “fondarsi sul criterio di fondo: la misericordia di Dio”. E il Signore “è esperto nel trasformare le crisi in sogni: sì, Dio apre le crisi a prospettive nuove, che noi prima non immaginavamo, magari non come noi ci aspettiamo”. In questa vigilia di Natale, Papa Francesco guarda con preoccupazione alle crisi in atto. In primo luogo alla situazione nel Corridoio di Lachin, il punto di maggior vicinanza tra l'Armenia e l'enclave armena del Nagorno Karabakh in territorio dell’Azerbaigian, e chiede alle parti coinvolte soluzioni pacifiche, così come in Perù, auspicando la via del dialogo per il bene della popolazione. E non può mancare la preghiera per l’Ucraina; si rivolge a Madonna affinché tocchi “i cuori di quanti possono fermare la guerra”. (Fabio Zavattaro)

Quale volto ha il Messia che Giovanni si attende? Quale volto ha per l’uomo?

12 Dicembre 2022 - Città del Vaticano - Aveva pianto l’8 dicembre scorso davanti la statua della Madonna in piazza di Spagna, pensando ai bambini, agli anziani, ai padri e alle madri, ai giovani della martoriata terra dell’Ucraina. A Maria avrebbe voluto portare il ringraziamento “per la pace che da tempo chiediamo al Signore”. In questa domenica, la terza di Avvento caratterizzata dall’invito alla gioia, i bambini portano in piazza San Pietro le statuine di Gesù Bambino e Papa Francesco chiede loro di pregare affinché il Natale “porti un raggio di pace ai bambini del mondo intero, specialmente a quelli costretti a vivere i giorni terribili e bui della guerra, questa guerra in Ucraina che distrugge tante vite, e tanti bambini”. E pace chiede anche per il Sudan, dove sono riesplosi violenti scontri; paese che visiterà il prossimo febbraio insieme all’arcivescovo di Canterbury e al moderatore della chiesa di Scozia. Domenica nella quale troviamo Giovanni Battista in catene nell’oscurità del carcere, che manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Che domanda drammatica, complessa ci offre il Vangelo di Matteo. Giovanni si trova al termine della sua missione e dubita, si interroga; come dire, non riconosce nel Cristo il Messia che lui ha predicato. Domanda che nasconde un altro interrogativo: quale volto ha il Messia che Giovanni si attende? Quale volto ha per l’uomo? Forse “un Messia severo che, arrivando, avrebbe fatto giustizia con potenza castigando i peccatori. Ora, invece, Gesù ha parole e gesti di compassione verso tutti, al centro del suo agire c’è la misericordia che perdona”. Certo sconvolge questo Gesù che sta a mensa con i peccatori, entra nella casa del pubblicano, che perdona e chiama alla conversione. Giovanni, dunque, è assalito dal dubbio, eppure aveva battezzato Gesù, indicandolo ai discepoli come l’Agnello di Dio. “Anche il più grande credente – afferma il Papa all’Angelus – attraversa il tunnel del dubbio. E questo non è un male, anzi, talvolta è essenziale per la crescita spirituale: ci aiuta a capire che Dio è sempre più grande di come lo immaginiamo; le opere che compie sono sorprendenti rispetto ai nostri calcoli; il suo agire è diverso, sempre, supera i nostri bisogni e le nostre attese; e perciò non dobbiamo mai smettere di cercarlo e di convertirci al suo vero volto”. Con le parole del grande teologo Henri de Lubac, Francesco ricorda che Dio “occorre riscoprirlo a tappe… talvolta credendo di perderlo”. Come fa Giovanni Battista, il quale, “nel dubbio, lo cerca ancora, lo interroga, ‘discute’ con lui e finalmente lo riscopre”. Anche noi, afferma il vescovo di Roma, possiamo trovarci “nella sua situazione, in un carcere interiore, incapaci di riconoscere la novità del Signore, che forse teniamo prigioniero della presunzione di sapere già tanto su di lui”. Giovanni ci insegna a non chiudere Dio nei nostri schemi: “abbiamo le nostre idee, i nostri pregiudizi e affibbiamo agli altri delle rigide etichette”; abbiamo nella testa l’immagine di un “Dio potente che fa ciò che vuole, anziché il Dio dell’umile mitezza, il Dio della misericordia e dell’amore, che interviene sempre rispettando la nostra libertà e le nostre scelte”. Ricordava Benedetto XVI: “non è la violenta rivoluzione del mondo, non sono le grandi promesse che cambiano il mondo, ma è la silenziosa luce della verità, della bontà di Dio che è il segno della sua presenza e ci dà la certezza che siamo amati fino in fondo e che non siamo dimenticati, non siamo un prodotto del caso, ma di una volontà di amore”. L’Avvento, dunque, è un tempo in cui, ricorda il Papa, “anziché pensare ai regali per noi, possiamo donare parole e gesti di consolazione a chi è ferito, come ha fatto Gesù con i ciechi, i sordi e gli zoppi”. E trovare il volto di Dio nei volti dei bambini anche di quelli che in piazza San Pietro sono venuti tenendo in mano il bambinello; nei volti dei tanti bambini feriti dalla guerra, in viaggio sulle rotte dei migranti, stremati dalla fame e dalla miseria. Lo troviamo in coloro che hanno offerto la propria vita per gli altri, in tanti testimoni della fede. L’Avvento, allora, “è un tempo di ribaltamento di prospettive, dove lasciarci stupire dalla grandezza della misericordia di Dio”. (Fabio Zavattaro - SIR)

Tempo di vegliare

28 Novembre 2022 - Città del Vaticano - Vegliare è il verbo che Matteo ci consegna in questa domenica, la prima del tempo di Avvento, tempo di attesa e di speranza: “la porta oscura del tempo, del futuro è stata spalancata – scrive Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi – chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”. Nella pagina del Vangelo Matteo ci chiede di essere sempre pronti ad accogliere il Signore, di ‘custodire’, per usare un verbo caro a Francesco, la speranza. Gesù è sul monte degli Ulivi, aveva detto ai suoi discepoli che il tempio sarebbe diventato un mucchio di rovine, senza indicare né il giorno, né l’ora. Ecco allora l’invito a vegliare, e a custodire la propria fede. “Tempo del concepimento di un Dio che ha sempre da nascere”, definisce l’Avvento padre David Maria Turoldo, che chiede al Signore di venire a vincere la notte, i silenzi, le solitudini. Tempo del ‘già e non ancora’, di un Dio che è presente nel nostro cammino, che ci accompagna e ci parla. Il Signore viene, ci fa visita, “si fa vicino e ritornerà alla fine dei tempi per accoglierci nel suo abbraccio”, afferma Papa Francesco nelle parole che precedono la preghiera mariana dell’Angelus. Il Signore “è presente nel nostro cammino, ci accompagna e ci parla”, ma forse siamo distratti da tante cose e “questa verità rimane per noi solo teorica; sì, sappiamo che il Signore viene ma non la viviamo questa verità, oppure immaginiamo che il Signore venga in modo eclatante, magari attraverso qualche segno prodigioso. Invece è quotidianamente con noi, “si nasconde nelle situazioni più comuni e ordinarie della nostra vita. Non viene in eventi straordinari, ma nelle cose di ogni giorno. E lì, nel nostro lavoro quotidiano, in un incontro casuale, nel volto di una persona che ha bisogno, anche quando affrontiamo giornate che appaiono grigie e monotone, proprio lì c’è il Signore, che ci chiama, ci parla e ispira le nostre azioni". Ecco allora il vigilare per non correre il rischio di non accorgerci della sua venuta, come accadde al tempo di Noè; "mangiavano e bevevano […] e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti”. Di qui l'invito di Papa Francesco, all’Angelus, per questo tempo di attesa: "lasciamoci scuotere dal torpore e svegliamoci dal sonno”; cerchiamo di “riconoscere la presenza di Dio nelle situazioni quotidiane”. Vegliare, dunque, come le cinque donne che, avendo messo da parte l’olio per le loro lampade, hanno accolto lo sposo al suo arrivo e partecipato al banchetto nuziale. Restiamo vigilanti, afferma il vescovo di Roma, perché “se non ci accorgiamo oggi della sua venuta, saremo impreparati anche quando verrà alla fine dei tempi”. L’attesa è fatta di pazienza e di liberazione; è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale, familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni, da quelle più piccole e banali fino alle più importanti, che ci coinvolgono totalmente e nel profondo: “si potrebbe dire – affermava Benedetto XVI – che “l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza”. Angelus nel quale Francesco torna a condannare la violenza che è tornata a insanguinare la Terra Santa: “la violenza uccide il futuro, spezzando la vita dei più giovani e indebolendo le speranze di pace", ha affermato dopo la recita della preghiera mariana. Non solo, ha voluto ricordare la morte, a Gerusalemme, di uno studente ebreo di 16 anni e di un ragazzo palestinese di 14 anni ucciso nello stesso giorno dall'esercito israeliano negli scontri a Nablus, per dire: "spero che le autorità israeliane e palestinesi tengano maggiormente a cuore la ricerca del dialogo per costruire la fiducia reciproca senza la quale non ci sarà mai una soluzione di pace per la Terra Santa. Ancora, ha parole contro la violenza sessuale sulle donne, affermando come sia, purtroppo, "una realtà generale e diffusa dappertutto e utilizzata anche come arma di guerra. Non stanchiamoci di dire no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace; in particolare per il martoriato popolo ucraino". E per il clochard, Burkhard Scheffler, morto a causa del freddo, venerdì 25 novembre, sotto il colonnato di piazza San Pietro. (Fabio Zavattaro - Sir)

Perseveranti, severi e decisi

14 Novembre 2022 - Città del Vaticano - In questa penultima domenica del tempo ordinario Paolo e Luca ci aiutano a riflettere sulla condizione umana; il primo, l’apostolo delle genti, affronta con la comunità di Tessalonica il tema della speranza e dell’operosità e chiede loro di allontanarsi da chi conduce una vita disordinata e oziosa. Luca, con le parole di Gesù, invita a vivere il tempo presente con sapienza, discernimento e perseveranza. Il Signore dice che ci saranno distruzioni e persecuzioni, ma, scrive l’evangelista, “non lasciatevi ingannare”, “non andate dietro” ai falsi profeti, “non vi terrorizzate”. L’invito è chiaro: non perdere la fiducia nella parola di Dio. Non è un caso che Luca termini il brano dicendo: nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Sorprendente questa frase: Gesù annuncia distruzioni, persecuzioni, sofferenze, eppure invita a non disperare, a perseverare anche nei giorni bui. È il tempo della contraddizione della speranza. Gesù parla dalla città di Gerusalemme che lo vedrà morire sulla croce, città che cadrà nel 70 dopo Cristo, il cui tempio sarà distrutto. Ma è proprio qui che avviene il fatto che pone in secondo piano tutte le altre cose, aprendo il cuore alla speranza: la resurrezione di Gesù. Nella domenica, Giornata mondiale dei poveri, l’invito che ci viene dalle letture, dice in San Pietro il Papa è di non lasciarsi ingannare, di non leggere “i fatti più drammatici in modo superstizioso o catastrofico, come se fossimo ormai vicini alla fine del mondo e non valesse la pena di impegnarci più in nulla di buono”; ancora, di non lasciarci guidare dalla paura magari affidandoci alle “fandonie di maghi o oroscopi, che non mancano mai” o a “qualche messia dell’ultim’ora, in genere sempre disfattisti e complottisti”. Ecco allora la parola perseveranza. Essere “severi, ligi, persistenti”, dice Francesco, in ciò che sta a cuore al Signore, concentrandoci “su ciò che resta, per evitare di dedicare la vita a costruire qualcosa che poi sarà distrutto, come quel tempio, e dimenticarsi di edificare ciò che non crolla, di edificare sulla sua parola, sull’amore, sul bene; perseveranti, severi e decisi “nell’edificare su ciò che non passa”, ovvero “costruire ogni giorno il bene”. La Giornata mondiale dei poveri è l’occasione, attraverso le parole di Gesù, di “rompere quella sordità interiore che tutti noi abbiamo e che ci impedisce di ascoltare il grido di dolore soffocato dei più deboli”, di “piangere con loro e per loro” nel vedere “quanta solitudine e angoscia si nascondono anche negli angoli dimenticati delle nostre città”. Lì si vede “tanta miseria e tanto dolore e tanta povertà scartata”. Nell’omelia in San Pietro Papa Francesco dice: “anche oggi viviamo in società ferite e assistiamo, proprio come ci ha detto il Vangelo, a scenari di violenza – basta pensare alle crudeltà che sta soffrendo il popolo ucraino –, di ingiustizia e di persecuzione”. Sull’Ucraina il vescovo di Roma tornerà anche nel discorso dopo la recita dell’Angelus parlando di terra martoriata: “la pace è possibile. Non rassegniamoci alla guerra”; alla “sciagura della guerra che provoca la morte di tanti innocenti e moltiplica il veleno dell’odio”. Oggi molto più di ieri, afferma il Papa nella basilica vaticana, “tanti fratelli e sorelle, provati e sconfortati, migrano in cerca di speranza, e tante persone vivono nella precarietà per la mancanza di occupazione o per condizioni lavorative ingiuste e indegne”. Di qui l’invito “forte e chiaro” che viene dalle parole del Vangelo a non lasciarci ingannare: “non diamo ascolto ai profeti di sventura; non facciamoci incantare dalle sirene del populismo, che strumentalizza i bisogni del popolo proponendo soluzioni troppo facili e sbrigative. Non seguiamo i falsi messia che, in nome del guadagno, proclamano ricette utili solo ad accrescere la ricchezza di pochi, condannando i poveri all'emarginazione", ha affermato il Papa. In mezzo all’scurità “accendiamo luci di speranza”, e nelle situazioni drammatiche cogliamo “occasioni per testimoniare il Vangelo della gioia e costruire un mondo più fraterno, almeno un po' più fraterno; impegniamoci con coraggio per la giustizia, la legalità e la pace, stando a fianco dei più deboli. Non scappiamo per difenderci dalla storia, ma lottiamo per dare a questa storia, che noi stiamo vivendo, un volto diverso". (Fabio Zavattaro - Sir)