22 Febbraio 2022 -
Nei Vangeli non mancano altri personaggi che incontrano Gesù mettendo al centro i loro legami di parentela. Viene in mente la supplica della donna siro-fenicia che chiede a quel rabbi ebreo di liberare sua figlia da uno spirito immondo (Mc 7, 24-30). È l’ostinazione di una madre disperata che riesce a fare breccia nel cuore di Gesù che le aveva detto di essere venuto per il popolo di Israele e non per i cagnolini, espressione con cui si indicavano gli stranieri. “Anche i cagnolini si nutrono delle briciole che cadono dalla tavola dei padroni”: un’umiltà sconcertante, una fiducia senza confini, come quella della emorroissa che riesce a toccare il lembo del mantello di Gesù ed è guarita (Mt 9,20-22; Mc 5,25-34; Lc 8,43-48). Sono spesso donne che con la loro fede commuovono il cuore del Figlio di Dio, ma è quello che avviene anche con un padre come Giairo, che non si rassegna che la sua piccola figlia non si svegli più (Mc 5,21-43; Mt 9,18-26; Lc 8,40-56). Gesù “entra” con le sue viscere di misericordia nelle vicende delle famiglie che incontra, entra nelle case, non resta ad aspettare chi lo cerca nei luoghi del sacro. È già nella dinamica delle sue azioni che possiamo leggere i “segni” del suo amore per l’uomo e di fatto è la fede di chi gli si rivolge che emerge; è questa il presupposto con cui poi si possono riconoscere i miracoli. Ma il cuore di Gesù, la dimensione squisitamente umana del suo amore si rivela anche sulla croce. Proprio dove si sta compiendo il mistero della redenzione per tutti gli uomini, al culmine tragico e misterioso della sua missione, assunta in piena libertà secondo la volontà del Padre, Gesù vede sua madre. La donna che ha permesso la sua nascita, che lo ha accolto e lo ha seguito con amore totale e silenzioso fin sotto quella croce e che ora non si sottrae a quell’estremo dolore salvifico. Con lei c’è il discepolo amato e Gesù pronuncia le famose parole “Donna, ecco il tuo figlio!” E al discepolo “Ecco la tua madre!”. “E da quel momento - commenta il Vangelo - il discepolo la prese nella sua casa”. (Gv 19,26-27). C’è un amore particolare, una premura filiale che accorcia in un attimo tutta la distanza che quel figlio “che doveva occuparsi delle cose del Padre suo” aveva dovuto mettere fra sé e la sua genitrice. La madre non viene lasciata sola, abbandonata ad un futuro che a quel tempo sarebbe stato di stenti e di precarietà. Gesù l’affida al discepolo amato ed anzi si tratta di un affidamento reciproco perché fra i due si crei una comunicazione e un’intimità che saranno linfa vitale per tutta la comunità dei primi credenti e fino a noi oggi. Colei che più di ogni altro essere umano ha saputo accogliere in sé la Parola di Dio permettendo che divenisse carne, ora è donata ai cristiani perché la sua maternità si riversi su loro per sempre. È lei la porta della speranza, lei un tramite ineguagliabile per accostarsi al mistero di Dio. E lei stessa diviene immagine della Chiesa nascente. Ci eravamo quasi scandalizzati quando Gesù aveva detto “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” (Mc 3,31-34; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21), ora capiamo che la sua volontà non è mai stata disconoscere l’immensa ed umile accoglienza del grembo che lo ha generato, quanto piuttosto che Maria, “figlia del suo Figlio” non si sarebbe limitata ad una gestazione biologica di Gesù, ma sarebbe stata per sempre l’archetipo del credente che ascolta la Parola e la mette in pratica fino a farla diventare vita dentro di sé. Maria è investita di una generatività non più nella carne ma nello spirito, attirando al cuore del Figlio tutti i cristiani nel corso della storia. (Giovanni M. Capetta - Sir)
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In Famiglia: del padre misericordioso
8 Febbraio 2022 - La seconda parabola in cui protagonisti sono ancora un padre e due figli, l’abbiamo ascoltata tutti almeno una volta. Quella che si usava chiamare la parabola del figliol prodigo, ma oggi anche “dei due figli”, o del Padre misericordioso, a seconda di quale sia il punto di osservazione con cui si vuole leggere questo racconto che l’evangelista Luca dipinge con la sua caratteristica attenzione ai particolari (Lc 15,11-32). L’accentuazione sulla figura del padre è forse quella che più da vicino interpreta l’intenzione teologica dell’autore, ovvero il desiderio di approfondire nell’ascoltatore la conoscenza del Signore, la comprensione della natura del suo amore di padre. In quest’ottica allora il figlio più giovane che chiede la sua parte di eredità al padre è solo fino ad un certo punto il protagonista. Lui sembra condurre la storia, perché prende l’iniziativa di andare con tutte le sue cose in un paese lontano e lì sperperare tutto quello che aveva in modo dissoluto. È il dramma della libertà: siamo liberi di perderci, di allontanarci da chi ci ha generato, di voler fare da soli, senza ascoltare chi vuole accompagnarci col suo amore. Si tratta di una discesa verso la solitudine, la fame che nella storia è fisica, ma per tutti noi può tradursi in fame d’amore. Il figlio più giovane, che vuole accorciare i tempi e pensa di poter fare la sua vita abbandonando la casa paterna, rappresenta ciascuno di noi quando non ci fidiamo di Dio, quando pensiamo che i suoi disegni su di noi siano delle imposizioni che ci tarpano le ali. Ma c’è un punto in cui si tocca il fondo - l’immagine di aver desiderio del cibo dei maiali rende con concretezza l’idea - un punto in cui la necessità induce a trovare un coraggio diverso dalla spacconeria di prima, il coraggio di “ritornare in sé ed alzarsi”. Sono due movimenti differenti, il primo indica una conversione radicale, un’inversione a U, un recuperare il filo della propria vita, ricordando e riacquistando la piena verità di se stessi, il secondo movimento è il dignitoso intendimento di stare in piedi di fronte al proprio peccato e presentarsi al padre con una sincera richiesta di perdono e di aiuto: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15, 18-19). Ciò che avviene dopo è un colpo di scena, qualcosa che chi ascoltava e noi con lui non potevamo immaginare: il padre prende la scena, vede il figlio quando è ancora lontano - ovvero quando ancora non ha compreso chi sia il suo genitore - gli si contorcono le viscere di compassione e gli corre incontro, benché magari anziano. È lui che prende l’iniziativa e non lascia finire di parlare il figlio che si era preparata una supplica tutta umana, basata sulla sua sterile idea di giustizia. Invece non c’è accusa e pegno da pagare, la gioia del padre è nel fatto stesso che il figlio sia ritornato in vita dal buio di morte in cui era caduto. L’amore del padre converte il figlio ad un livello più profondo, gli rivela una paternità che non aveva osato neppure immaginare e che eppure era sempre stata lì a portata di mano. L’abbraccio del padre, che ha ispirato decine e decine di artisti, che è la piena manifestazione della misericordia di Dio potrebbe concludere la parabola, ma Gesù aggiunge un quadro: quello del fratello maggiore, l’uomo fedele che non ha mai disubbidito, che è sempre stato presso il padre. In lui sorge gelosia, invidia per la festa per quel fratello ingrato e impresentabile; egli dice di non aver mai ricevuto di che festeggiare coi suoi amici, sente una sproporzione, uno sbilanciamento, qualcosa di non equo. Ebbene sì, anche lui ha bisogno di conversione perché evidentemente la sua ubbidienza non è stata dettata dall’amore, quanto da un timore mal riposto, da un “dover essere” cieco, da contabile del dare ed avere. Chi non sa gioire per il fratello ritrovato dimostra di non conoscere davvero il padre che Gesù ci vuole mostrare. Quest’ultimo spiazza ogni nostra logica distributiva, è un Dio che non smette mai di commuoversi e scruta l’orizzonte per cercare da lontano il profilo di ogni figlio che a lui vuole tornare. E quelli che credono di essersi persi per sempre e quelli che credono di non essersi mai allontanati, tutti abbiamo bisogno di aprire ogni volta di nuovo gli occhi alla luce di questa Parola di vita che ci è offerta in qualunque punto della strada ci troviamo: Dio è più grande del nostro peccato così come di ogni merito che possiamo accampare. Tutto è Grazia nel suo cuore ed è quello il luogo in cui possiamo tornare, la casa accogliente che ci attende alla fine del cammino. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: la parabola dei due figli
1 Febbraio 2022 - Fino ad oggi ci siamo lasciati condurre dalla Parola di Dio attraverso i suoi protagonisti, ovvero gli uomini e le donne del popolo di Israele che, pur con tutti i limiti della loro umanità, hanno desiderato camminare e mettere la vita nelle mani del Signore. In questa occasione, invece, ci vorremmo avvicinare a quei racconti del tutto caratteristici della “buona notizia” di Gesù che sono le parabole e, in particolare, alle due in cui ad agire sono un padre e i suoi figli. Si tratta, infatti, di due racconti che possono dirci molto di quale sia l’immagine di famiglia che Gesù aveva nel suo bagaglio di conoscenze. Conoscenze, ovviamente, che non gli derivavano solo dall’essere figlio di Giuseppe, il falegname-carpentiere che lo ha educato alla vita fra gli uomini, ma anche dall’essere il Figlio prediletto, in unità misteriosa, ma concretissima con il Padre dei cieli. Nei racconti parabolici Gesù desidera portare i suoi interlocutori e quindi tutti noi a conoscere la reale immagine di Dio, liberandoci delle nostre precomprensioni, dei nostri pre-giudizi su di Lui che, quasi sempre, gli attribuiscono dei tratti e delle caratteristiche che non sono “da Dio”, ma vengono create da noi, sulla base delle nostre esperienze di vita famigliare, più o meno dolorose. Il primo di questi due racconti (Mt 21, 28-32) vede un padre che invita in uguale e identico modo i suoi due figli ad andare a lavorare nella vigna. La prima osservazione da fare è proprio questa: l’invito non presenta differenze, il padre rispetto alla “missione” della vigna, non fa preferenze, non crea distinguo, né previsioni di sorta. È desideroso che entrambi i figli possano spendersi per il compito a loro assegnato, crede che abbiano le stesse possibilità e che, probabilmente, ciascuno con i suoi talenti possa far bene. Non ci sono figli di serie A e figli di serie minori, fratelli più avvantaggiati di altri; se lo pensiamo siamo noi a sbagliare e questo ci fa subito correre il rischio di avere una visione distorta dell’amore del padre. Quella che si differenzia è la risposta dei figli. Uno ammette di “non aver voglia” di spendersi per la vigna, ma poi si pente e ci va, mentre, antiteticamente, il secondo dice “sì, signore”, ma non ci va. Facile per i capi dei sacerdoti e gli anziani a cui Gesù rivolge la domanda esplicita rispondere che la “volontà del padre” è stata compiuta dal primo, più difficile avere però l’umiltà e l’onestà intellettuale per mettersi nei panni di chi questa volontà non ha saputo adempierla. Le parole di Gesù sono sferzanti: si rifà alla predicazione del suo predecessore, il Battista, che ha chiesto conversione e giustizia e l’ha ottenuta da pubblicani e prostitute (gli impresentabili di ogni tempo) ma non da chi si credeva già nel giusto senza bisogno di conversione. Lo scarto che Gesù chiede è proprio qui: fra la comprensione teorica di quale sia la strada giusta e il proponimento di provare a seguirla. Il figlio che ammette la sua indolenza, che non si vergogna di manifestare al papà che costa fatica ascoltarlo e fidarsi della sua parola, incontrerà sempre e comunque il suo amore, la sua capacità di ascolto, in una parola la sua misericordia, ma il figlio che sceglie di chiamare il padre “Signore”, che lo ossequia con le parole, ma poi non teme, nel presunto segreto, di comportarsi come se il padre non lo vedesse, quest’ultimo non è punito, ma si allontana lui per primo dalla strada del bene e credendo di non aver bisogno di convertirsi, ovvero letteralmente di tornare sui suoi passi, non può che andare a sbattere. Molto spesso facciamo fatica a liberarci dall’idea di un Dio che ci punisce per ogni nostro errore e quindi anche per la nostra pigrizia, mentre fin da quando nel deserto, nel deserto di ciascuno di noi, cioè nel momento del bisogno esistenziale di sempre, egli ci ha donato le sue Dieci Parole, la sua non è stata altro che l’offerta piena della Sua vita. Gesù nella sua predicazione, prima di donarsi egli stesso per tutti, prima, potremmo dire, di passare dalle parole ai fatti, non fa che ribadirci questa necessità di ritrovare l’intimità perduta con il padre, ammettere la nostra debolezza, il nostro peccato, il nostro non capire o non voler capire. Il Signore predilige i deboli, è sempre dalla loro parte, si sbilancia nella misura in cui ammettiamo di avere bisogno di Lui; ma ha le mani legate, a causa dell’amore per la nostra libertà, quando cerchiamo di fare da soli. Quando da piccoli iniziavamo a pedalare sulla bici senza le rotelle, i primi metri le braccia del papà erano lì pronte a prenderci e se questo non è successo, beh, tutti ammettiamo che lo avremmo desiderato. Nostro Padre nei cieli, quello che Gesù ci racconta, è sempre così pronto e premuroso se solo sappiamo tornare a lui con un ginocchio sbucciato o un gomito livido, a lui a chiedere il disinfettante e i cerotti del perdono; quelli che portava Giovanni bruciavano certamente di più, quelli scelti da Gesù sono medicamenti speciali, la cui forza risanatrice viene direttamente da Lui e non chiede in cambio sacrifici quanto piuttosto un animo grato e riconoscente. Chissà cosa si sarebbero potuti dire i due fratelli della parabola tornando la sera a cena di fronte a loro padre, chissà se anche noi avremo il coraggio di saper stare nei panni di entrambi: capaci di ravvedimento e alla fine guidati da proponimenti buoni oppure disonesti e in fondo non capaci di fidarsi di chi ci ha dato la vita. C’è posto per tutti i fratelli alla cena del Signore, ma quando si fa sera, attorno al fuoco, sull’amore non possiamo bluffare e solo nella verità possiamo sentirci davvero in famiglia. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Giacomo e Giovanni
25 Gennaio 2022 - Nella vita di Gesù vi è un’altra coppia di fratelli che ha un ruolo importante fra i suoi discepoli e che ci capita, leggendo i Vangeli, di vedere molto spesso associati. Sono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo e – così ipotizza qualche studioso – di Salome. Una famiglia di pescatori, probabilmente piuttosto agiata, che viveva a Betsaida, sulle rive del Lago di Galilea come la famiglia di Simone e Andrea. Giovanni, proprio insieme ad Andrea, aveva lasciato le reti per seguire il Battista e a lui, o almeno alla sua comunità viene attribuita la stesura del quarto Vangelo. Egli è quello che non nominandosi direttamente si definisce “il discepolo che Gesù amava”, colui che gli è accanto durante l’ultima cena, ma soprattutto l’unico che resta ai piedi della croce e a cui Gesù affida la madre. Ma suo fratello? Il fratello è plausibile che sia stato maggiore di età, perché è a lui che viene aggiunto “figlio di Zebedeo”. Possiamo immaginare che anche lui sia stato chiamato da Giovanni che lo invita ad unirsi a quelli che si fidano di Gesù, sono affascinati dalla sua parola e lo scelgono come maestro. Poi diventa proprio uno dei più intimi, tanto che il trio Pietro, Giacomo e Giovanni diviene una “scelta nella scelta” da parte di Gesù. Loro tre sono i privilegiati che assistono alla Trasfigurazione del Signore (Mc 9, 2), sempre e solo a loro tre Gesù chiede di seguirlo quando ridona la vita alla figlia di Giairo (Lc 8, 51) e sono ancora loro tre a cui, nel momento più doloroso, nella notte dell’Orto degli Ulivi, il maestro chiede (invano) di stare svegli con lui, per condividere la paura tutta umana per quello che lo attende. Dunque, Giacomo uno dei migliori? Un duro e puro? Uno di quelli che seguirebbe Gesù in capo al mondo ed è disposto a dare la vita per lui? Non proprio o, meglio, non solo questo. A Giacomo e suo fratello Giovanni Gesù dà un soprannome fin dalla loro chiamata: i boanerghes, che in aramaico significa “figli del tuono”. Pur con temperamenti diversi, i due dovevano essere accomunati da una grande passione, da un’emotività che non sapevano facilmente trattenere, un entusiasmo facile a tracimare nel fanatismo. Un episodio conferma la loro nomea: Gesù e i dodici passano da un villaggio di Samaritani, che quando capiscono che sono diretti verso Gerusalemme, città che non considerano santa, non vogliono accoglierli. I due fratelli hanno uno scatto violento e chiedono al maestro: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?", ma Gesù si volta e li rimprovera con la pazienza severa di chi constata che non lo conoscono ancora bene, non hanno capito come opera Dio in lui (Lc 9, 54-55). Non è difficile immaginare come abbiano potuto reagire, magari ricevendo i rimproveri anche degli altri compagni, subito pronti a mettere alla berlina la loro impacciata irruenza. L’occasione, però, in cui Giacomo e Giovanni sono ancora più vicini alla nostra debolezza di uomini è quando loro madre chiede a Gesù che i due figli possano sedere uno alla destra e uno alla sinistra nel Suo regno (Mt 20, 20-23). Proprio quando Gesù rivela che a Gerusalemme, dove stanno andando, sarà arrestato, condannato, flagellato e crocifisso, ma il terzo giorno resusciterà, questa madre se ne esce con la richiesta più ingenua ed ottusa. La donna, verosimilmente spinta dai figli (nel Vangelo di Marco, sono loro direttamente a chiedere la “raccomandazione”) è di certo devota al suo rabbì, lo segue da tempo insieme ad altre donne che si occupano del sostentamento dei dodici, ma dimostra di non aver capito nulla di quel regno di cui parla. Prenotarsi dei posti nella gloria del Paradiso non è possibile nella logica di totale dedizione che il Signore sta per manifestare pienamente. Gesù – ci pare di vederlo un po’ sconfortato – dice che non sanno quello che stanno chiedendo, che dovrebbero desiderare di bere il suo calice e Giacomo lo farà (perché sarà il primo dei dodici a venire martirizzato da re Erode Agrippa I nel 44 d.C. come ci dicono gli Atti degli Apostoli: At 12, 2), ma in questo momento è ancora lontano dal donare la vita, tutto intriso di vanagloria e desiderio di primeggiare. Gli altri discepoli si arrabbiano con i due fratelli ed è l’occasione perché Gesù con pazienza riveli ancora una volta la logica rovesciata del suo regno di salvezza: “tra voi non sarà così”: siamo chiamati a servire, non ad essere serviti. Consolante apprendere che non sia bastato camminare a fianco del Signore, averlo a portata di mano, giorno dopo giorno, vedere con i propri occhi i suoi prodigi per convertire pienamente il proprio animo. Allora c’è speranza per tutti, anche per noi! Allora la misericordia di Dio non si ferma di fronte anche alle défaillance più vergognose: possiamo metterci a nudo, confessare a cosa ci spingerebbe un’immaginazione tutta proiettata su noi stessi e la nostra comfort zone, Gesù non si scandalizza, ci prende per mano, ci porta con sé fino al momento decisivo, ci fa sperimentare che la sua gloria passa inevitabilmente per la morte di croce, che non c’è salvezza fuori di essa, ma Lui è lì, con noi, da allora e per sempre e abbiamo tutta la vita, fino all’ultimo secondo, per riuscire a capirlo e a viverlo. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: una vita da mediano
18 Gennaio 2022 - È interessante notare come Gesù, secondo quanto ci racconta il Vangelo di Giovanni, rivolga le sue prime parole a due uomini che hanno dei fratelli, i cui legami famigliari sono determinanti nel loro seguire il Messia. Questi uomini sono Giovanni e Andrea, due persone verosimilmente “in ricerca”, desiderose di dare un senso profondo alla loro vita, affamati di bello e di giustizia e che, per questo, hanno scelto di seguire Giovanni Battista nella sua predicazione itinerante. Quando questi “fissa lo sguardo” su Gesù – chissà se si erano mai incontrati altre volte o se si erano parlati, da quel miracoloso riconoscimento negli uteri delle loro madri? – e lo indica come l’agnello di Dio che da tempo il popolo di Israele attendeva, i due non indugiano, lasciano il primo maestro e seguono il secondo che subito li interpella con quella domanda che è rivolta a noi ogni giorno: “Che cosa cercate?”. Stanno con lui, passano del tempo con Gesù, gli parlano, vedono dove e come vive, poi Andrea – pare di vederlo, nella sua gioiosa impazienza – prende e corre da suo fratello Simone per dargli un vero e proprio annuncio: “Abbiamo trovato il Messia!” e lo conduce da Lui. Dunque, l’embrione dell’evangelizzazione nasce fra due fratelli, uno dei legami più stretti che si ha la possibilità di vivere. Simone, su cui Gesù fissa lo sguardo come se lo conoscesse da sempre e a cui dà il nome, ovvero lo fa rinascere come Cefa/Pietro, giunge davanti al Signore grazie all’amore e all’entusiasmo di un fratello - un fratello minore probabilmente - che non aveva voluto restare con lui a lavorare come pescatore sulle barche del padre. Sembra che l’attrazione di Gesù, il suo sguardo penetrante, il suo amore stesso possano attecchire sul terreno di una relazione fraterna che non può essere esclusa dall’annuncio. Così come il suo primo rabbì, il Battista, dirà che “Lui deve crescere; io, invece, diminuire (Gv 3, 30), anche Andrea non ha paura di abbassarsi nell’atto della condivisione della grande scoperta che ha fatto, non tiene per sé gelosamente quel Gesù che ha incontrato, ma gli conduce il fratello, senza probabilmente immaginare che Simon Pietro lo avrebbe sopravanzato in responsabilità, divenendo il “maggiore” dei Dodici. È questa liberalità che non possiamo non riconoscere in Andrea: è un uomo generoso, entusiasta, che non considera un tesoro geloso la sua fede, ma è pronto subito a condividerla, a mettersi in comunicazione con l’altro. Sempre l’evangelista Giovanni cita Andrea in occasione della moltiplicazione dei pani e dei pesci e gli attribuisce quella domanda di grande umanità e realismo in cui tante volte ci siamo immedesimati, in occasione dei nostri dubbi e delle nostre preoccupazioni sul da farsi: “cosa sono cinque pani d’orzo e due pesci per tanta gente?” (Gv 6, 9). Chissà quanto silenzioso stupore, quanta contemplazione di quel segno così grande mentre si raccoglievano le dodici ceste con gli avanzi? Non abbiamo parole, non abbiamo protagonismi, ma c’è da immaginare che Andrea si sia stretto al Maestro e forse gli abbia sussurrato il suo imbarazzo prima e poi la sua rinnovata fiducia, il suo desiderio di stare con Lui, fidarsi definitivamente e raccontare la bella notizia che stava vivendo. Infine, sempre l’evangelista Giovanni ci dà un’informazione che sembra un dettaglio ma può avere una sua importanza. Arrivati a Gerusalemme per la Pasqua, i dodici sono in procinto di andare a consumare la cena nella stanza che è stata preparata per loro... fra la folla ci sono anche dei Greci, degli stranieri, persone che non avrebbero nessun diritto di partecipare ai riti che i membri del popolo ebraico sono soliti compiere per quella festa. Ebbene, questi vogliono “vedere” Gesù e contattano Filippo e Filippo, probabilmente un po’ perplesso, interpella Andrea e così insieme vanno a disturbare il diretto interessato (Gv 12, 20-22). Pare di vedere questo passaggio di consegne fra i due discepoli: forse c’è del timore, forse vale il principio che “l’unione fa la forza”, o forse più semplicemente Andrea è più in confidenza col Maestro e Filippo, sapendolo, chiede un aiuto. Andrea ancora una volta non tiene per sé il Signore, ma si fa interprete di un desiderio di conoscenza che viene da lontano e precorre i tempi, perché i Greci non erano certo contemplati in quel momento da un pio ebreo come destinatari della salvezza. Quanto dovrà navigare e predicare Paolo per rendere persuasi i primi cristiani ebrei, poi convinti definitivamente dall’esperienza di Pietro, che Gesù è morto e risorto per tutti, anche per i “gentili”!? (At 10, 34-35: “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”). È bello, dunque, vedere nell’apostolo Andrea un uomo che si fa “ponte” della Parola, che sa condividerla senza trattenerla, in umile spirito di servizio. Con un pizzico di libertà potrei dire che Andrea è felice del suo ruolo di mediano - il richiamo è alla celebre canzone di Ligabue - non è il giocatore dal goal rocambolesco, non sta sotto i riflettori, però sa passare bene la palla, che sia al suo fratello, il capitano Pietro, o a dei giocatori stranieri, i Greci che chiedono di Gesù: Andrea è al servizio della squadra e del messaggio che non può essere taciuto, è un uomo di parola e della Parola, perché sia annunciata dai tetti e corra fino ai confini della terra. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: un passaggio difficile
12 Gennaio 2022 -
Dopo la nascita di Gesù, gli evangelisti, come molti di noi sanno, riducono al minimo le informazioni su di lui e i suoi genitori, tanto che alcuni dei cosiddetti vangeli apocrifi hanno sentito la necessità di colmare questo vuoto con racconti edificanti, piccoli miracoli o altro che caratterizzasse la vita del Figlio di Dio che “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e di Grazia di Dio” (Lc 2, 39). Quali pensieri avranno attraversato quel bambino così speciale eppure nato come tutti gli altri? Quale consapevolezza sulla sua reale identità nel nascondimento della vita quotidiana in quel di Nazareth? Quanto amore avrà ricevuto dalla sua inimitabile madre? Quante cose gli avrà saputo insegnare suo padre… dalle preghiere, ai primi rudimenti del lavoro? Esegeti e teologi hanno speso pagine e pagine, ma di fatto non sappiamo niente, possiamo solo fare delle congetture dettate dalla nostra fede e dal nostro amore, ma chissà quanto fondate. È verosimile che la piena umanità di Gesù abbia comportato anche per lui una graduale comprensione della sua natura e della sua vocazione, per tutta la sua breve vita, fino a quel momento decisivo nell’orto degli Ulivi, in cui ancora il Figlio si affida totalmente alla volontà del Padre e la assume con tutta la sofferenza di un uomo. In questo spazio che sono i primi 30 anni circa della vita di Gesù, vi è un episodio, raccontato solo da Luca (Lc 2, 41-52) che ha illuminato generazioni di genitori e che da sempre ispira le famiglie cristiane. Si tratta di quel grande spavento che Gesù dodicenne procurò ai suoi genitori fermandosi coi dottori nel Tempio di Gerusalemme, mentre loro ritornavano dall’annuale pellegrinaggio alla città santa. Quella famiglia che noi definiamo “sacra”, ligia alle tradizioni e fedele nell’ascolto del Signore, non è esentata da un momento di grande turbamento, un disincanto, una vera e propria crisi. Gesù è cresciuto, è nell’età del Bar Mitzvah, il rito con cui ogni ragazzo ebreo assume in prima persona la sua professione di fede, un po’ come per noi cristiani il sacramento della confermazione. Gesù “passa” all’età adulta e non è quello che i suoi genitori si aspettano, o meglio: è proprio colui che i suoi genitori in qualche modo sanno dovrà diventare, ma che, nella loro fragile umanità, Maria e Giuseppe faticano ad accettare pienamente. Si tratta di un passaggio decisivo, a cui poi negli anni ne saranno seguiti sicuramente molti altri. Maria, “stupita”, non comprende, redarguisce il figlio coinvolgendo anche il marito nella sua apprensione (“Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” Lc 2, 48), Gesù risponde “sganciandosi” dall’affidamento ai suoi genitori e riferendosi al Padre suo nei cieli, ma loro per il momento non comprendono; accettano e – si dice per Maria, ma vale senz’altro anche per Giuseppe – “custodiscono tutte queste cose nel loro cuore” (Lc 2, 51). Non è forse questa la dinamica a cui tutti i genitori sono chiamati? Lasciare andare chi hanno accudito e protetto fino a quel momento, fidarsi dei disegni di Dio su quel figlio che non è loro possesso, ma una vita pienamente libera di adempiere una volontà a loro superiore. È uno dei compiti più difficili per ogni madre recidere il cordone ombelicale e non meno duro è per i padri svincolarsi da tutti i sogni e i progetti che si sono fatti sui propri eredi. Non sempre va come abbiamo immaginato, anzi, quasi mai, ma il Signore è fedele alla sua promessa di pienezza e nutre e sostiene ciascuno di noi a tempo debito. Ai genitori cristiani in una parola è chiesto di “non temere” (l’invito che nella Bibbia compare 366 volte, una per ogni giorno, anche negli anni bisestili!), a “lasciare andare” per la strada che è tracciata per ogni figlio dell’uomo da un Amore più grande di ogni nostro timore, più potente di qualsiasi nostra angoscia e che dona “sapienza e grazia” ad ogni nostro passo. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Maria e Giuseppe, due fidanzati speciali
21 Dicembre 2021 - Fra pochi giorni è di nuovo Natale! Se possiamo ancora celebrare la prima venuta del Signore nella storia lo dobbiamo alla libertà di una coppia di fidanzati; non solo all’incommensurabile sì di Maria, ma anche all’accoglienza silenziosa e profonda del suo promesso sposo, Giuseppe, la cui figura quest’anno abbiamo celebrato in modo particolare. Sovvengono le parole che scriveva il servo di Dio Monsignor Tonino Bello: “Giuseppe, io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull'onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto, in te e in lei”. È in questo vincolo d’amore che Gesù nasce, è in questo legame più forte di ogni paura che Dio può farsi carne. Talvolta la legittima devozione mariana ha fatto sì che la figura di Giuseppe venisse messa un poco a margine, ma oggi siamo consapevoli che il ruolo del padre putativo del Signore è stato determinante ben prima che nascesse. Mentre Maria concepiva nel grembo, Giuseppe concepiva attraverso i sogni, attraverso l’infinita docilità di chi si affida ad un mistero che lo sovrasta ma non lo annichilisce. Insieme, i due innamorati – perché di questo si tratta –, accettano un disegno che è diverso da quello che legittimamente avevano potuto immaginarsi. Per loro si prospetta un discernimento arduo, anzi drammatico; non dimentichiamo che Maria poteva essere sottoposta a lapidazione per quello che era avvenuto in lei. I due accettano un cammino fatto di incomprensione e giudizio anche dai famigliari più vicini, nonché da tutta Nazareth. Giuseppe e Maria sono persone semplici eppure straordinariamente capaci di accogliere la Parola fino al punto di farla nascere in loro e da loro, a dispetto di ogni giudizio e pregiudizio, contro ogni logica del mondo, anche quella più religiosa e giusta secondo i parametri degli uomini. Talvolta si è detto che indicare la Sacra Famiglia come modello per tutti gli sposi sia qualcosa di utopico e addirittura frustrante e invece la loro è una testimonianza di fede e di amore che perennemente elargisce Grazia a chi vuole seguirne i passi. In essi possiamo scorgere la fecondità creativa di chi fidandosi infinitamente di Dio, si dona all’altro senza limiti. Nel loro vincolo riconosciamo il germe di una castità che sempre si rinnova e a cui ogni coppia può abbeverarsi. Oggi ancora possiamo contemplare i loro passi che il Vangelo ci trasmette in un racconto che si fa vita ogni volta nuova. Viene naturale rivolgersi in preghiera a questi due giovani, voler sperimentare i loro sentimenti, cimentarsi nelle loro virtù. I dogmi mariani potrebbero farci credere che Maria, l’Immacolata e il suo sposo Giuseppe siano irraggiungibili, ma dovremmo forse accettare nel contempo che il Signore sceglie la loro piccolezza, la loro umanità, quella che anche noi condividiamo. A ciascuno, quindi, come battezzato, è possibile far nascere Cristo in sé per portarlo ai fratelli. Questo mistero è grande, ma tangibile. La famiglia umana vede in quella di Nazareth non un archetipo inarrivabile ma come una strada da percorrere, un riferimento per l’andare, la concretizzazione sotto sembianze del tutto umane di quell’amore trinitario che esiste fin dal principio. Non preoccupiamoci di quanta strada abbiamo ancora da percorrere, ma affidiamoci a questa sovrabbondante circolazione d’amore che vede nella famiglia il suo veicolo preferenziale, la casa, la dimora in cui scendere e stare. I genitori di Gesù sono sposi che hanno vissuto la prova della paura, dell’incomprensione, della precarietà e del pericolo, ma questi ostacoli non hanno prevalso. Maria e Giuseppe sono soprattutto due coniugi che della loro fiducia in Dio hanno fatto la chiave per aprirsi totalmente alla Sua volontà e donandosi così, hanno offerto al mondo il suo Redentore. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Gioele
7 Dicembre 2021 -
“Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”. Sono le parole di Gioele, un profeta che parla al popolo di Israele nel IV secolo a.C. e che Pietro cita con grande forza nell’omelia che rivolge ai presenti appena avvenuta la Pentecoste (At 2, 14-21). Sono parole che ci provocano e che - come sempre avviene con la Parola di Dio – interpellano anche noi oggi. Che rapporto sappiamo intessere fra le generazioni? Come dialoghiamo fra anziani, genitori e figli? Che ruolo andiamo a vivere nel nostro essere famiglia di famiglie che cammina insieme desiderosa di ascoltare il Signore e di seguirlo? Ai figli Gioele affida il compito di “essere profeti”, ovvero di essere critici, di saper mettere in discussione le autorità costituite, a partire da quelle genitoriali, a metterle in crisi positivamente, con domande, con sollecitazioni. Il cardinale Martini, citando questo passo, scrive che “la generazione più giovane verrebbe meno al suo dovere se con la sua spigliatezza e con il suo idealismo indomito non sfidasse e criticasse i governanti, i responsabili e gli insegnanti. In tal modo si fa progredire noi e soprattutto la Chiesa” (C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Milano, 2008). Sì anche la Chiesa ha bisogno di essere provocata dai suoi figli e talvolta gli adulti, gli educatori e certo anche i pastori, a cui è chiesta saggezza e prudenza, sono chiamati a riconoscere nelle provocazioni dei figli e persino nei loro gesti di disubbidienza una voce da ascoltare e su cui fare discernimento. Mai come oggi abbiamo bisogno che padri e figli, maestri e discepoli, testimoni e fedeli si parlino con franchezza, sappiano dirsi con verità le paure ma anche le speranze che questo tempo incerto porta con sé. Gioele poi prosegue dicendo che la generazione di mezzo, i giovani, avranno visioni, ovvero degli obbiettivi concreti, il desiderio di mettersi al servizio della propria famiglia magari appena formatasi, la spinta propulsiva a generare non solo fisicamente dando la vita, ma essendo fecondi di bene, di progettualità, di speranza condivisa. Sono gli anni in cui non si può stare fermi, ma si possono mettere a frutto le competenze, si può seminare con generosità, confidando che il raccolto possa essere abbondante. Talvolta la fatica e l’incertezza prendono il sopravvento: oggettivamente la nostra non è un’epoca facile per chi deve iniziare; manca il lavoro; manca coesione sociale, convergenza sulle priorità, ci sarebbero tanti motivi per scoraggiarsi ma la profezia resta lì ad indicarci la via: non temete, alzate lo sguardo! Infine, anche per gli anziani c’è, nelle parole di Gioele, una sorta di compito, ovvero non più quello di portare pesi e responsabilità, ma quello di sognare. È bello immaginare che anche per i nonni ci sia un posto e che proprio a loro sia affidata questa capacità di passare il testimone e di avere sogni per chi viene dopo di loro. Anche papa Francesco ha ripreso questa profezia nel discorso all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, tenuto in San Giovanni in Laterano, il 16 giugno 2016. Il Papa sottolineava in quell’occasione “il valore della testimonianza come luogo in cui si può trovare il sogno di Dio e la vita degli uomini. […] Nei sogni dei nostri anziani molte volte risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro, un domani, una speranza”. Non concediamo spazio alla pigrizia e alla durezza del cuore, ma apriamoci alla trasmissione di generazione in generazione della bellezza di una vita spesa nella fedeltà reciproca, nell’amore che a imitazione di quello di Dio non conosce la parola “fine”. Il Papa ricordava in quella circostanza le tante coppie di anziani in visita a Santa Marta e diceva quanto lo commuovesse vedere “nei volti raggrinziti dal tempo la gioia che nasce dall’aver fatto una scelta d’amore e per amore”. Nel tempo di Avvento che stiamo vivendo, allora, possiamo ritrovare l’ardore di un’attesa che ci accomuna, ciascuno secondo la sua età. Un’attesa che non sarà delusa perché il Signore Gesù è già entrato nella Storia una volta per sempre e ci dice che ancora viene, sempre, ogni giorno, sta alla porta e bussa e non appena gli apriamo, sa trasformare anche le nostre singole storie d’amore in un tessuto che non teme l’offesa del tempo, non si strappa, ma passa di mano in mano fino a giungere alla pienezza del Regno. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: il Salmo 128
19 Novembre 2021
Anche il salmo 128 ci dà modo di guardare alla famiglia attraverso la parola di Dio. È come se il Creatore contemplasse un nucleo famigliare e insieme al poeta del testo ne tessesse le lodi. Si dice “beato l’uomo che teme il Signore” il che non significa, come sappiamo, che ne debba aver paura, quanto piuttosto che ne onora la grandezza, che si affida alla sua bontà riconoscendo la sua piccolezza. Anzi è proprio il dono del “timore di Dio” che permette all’uomo di non rimanere in balia del terrore che le tragedie del mondo possono far nascere in noi. Chi teme il Signore “cammina nelle sue vie” (Sal 128,1). Per il popolo ebraico non perdere la via aveva un significato particolare: quel popolo aveva smarrito la strada molte volte, aveva errato per anni nel deserto, spesso aveva disperato di vedere finalmente la terra promessa lungamente attesa e pur sempre annunciata da Dio. Noi oggi abbiamo una meta? Una terra promessa? Puntiamo con decisione ad un luogo e ad una dimensione di pienezza o ci accontentiamo di arrivare alla fine della giornata? Sappiamo contare i nostri passi desiderando di giungere dove “scorre latte e miele”. È chiaro che si dischiude in questo anelito il saper intravvedere il Regno di Dio già oggi qui… nel granello di senape che siamo e che può diventare un grande albero o nel pizzico di lievito che non si vede ma fa fermentare tutta la farina (Lc 13, 18-21), ma c’è anche un Regno che deve venire e che ci chiede di essere atteso e desiderato, camminando appunto secondo le vie che il Signore ci indica. Il Salmo prosegue esaltando il valore del “lavoro delle proprie mani”, la felicità che ne può sgorgare, i beni che se ne traggono (Sal 128,2). Mi viene in mente Gesù adolescente che mostra soddisfatto a Giuseppe un manufatto di legno appena concluso per la prima volta senza che il padre lo avesse aiutato e così ogni occasione in cui un padre, una madre e i loro figli possono ringraziare il Signore per il dono della loro maestria, della loro arte, o anche del loro semplicissimo lavoro, ogni lavoro. Penso a chi fa lavori ripetitivi, si dicono anche alienanti: nella logica del salmo non c’è spazio per questa dimensione. Anche alla catena di montaggio l’uomo può riuscire a riconoscere che il Signore è con lui e rende sacro quell’impegno, quel sacrificio, quella fatica che non è cieca ma ha in sé un senso. Segue il richiamo alla “sposa come vite feconda nell’intimità della casa e ai figli come virgulti d’ulivo intorno alla mensa”. La tentazione è di leggere queste parole con sufficienza, come ancorate ad un passato che non torna più, solo una bella immagine. Quante volte la vite non è feconda? Quante volte i figli, tutto tranne che virgulti, ti si rivoltano contro e neanche si siedono alla tua tavola?! È vero, il salmista disegna un quadro ideale che spesso non ci appartiene, che non sappiamo vivere, che ci sembra di non aver mai saputo neanche assaggiare se non forse i primissimi tempi, quando le nozze sembravano solo luce e gioia e non c’era spazio per le preoccupazioni e le difficoltà. Eppure quell’immagine della vite e dei virgulti resta, non si sbiadisce, vuole essere cantata e ricantata ogni volta e ogni volta bussa “nell’intimità della nostra casa”.
La famiglia è il luogo per antonomasia della benedizione e con una benedizione, infatti, prosegue il salmo fino alla fine (Sal 128, 4-5). Non è un luogo in cui ci è chiesto di arrangiarci cercando ciascuno di trovare il suo posto sul divano, sgomitando come nel mondo, essa è deputata a bene-dire l’uno dell’altro, a ricordarsi ciascuno reciprocamente quanto il Signore ti ama e dice bene di te, nonostante le tue fatiche, nonostante i tuoi limiti, gli errori, il peccato. Egli non si stanca di benedire e allora con quale diritto un padre e una madre possono stancarsi di benedirsi fra loro, di benedirsi davanti ai figli e di benedire i figli stessi? Ho in mente una ragazza, ormai adolescente, che non finisce mai la giornata senza segnare una croce sulla fronte dei suoi genitori. Non è quella che parla di più, né che esterna maggiormente le sue manifestazioni o le ragioni della sua fede, ma con quel gesto, molto spesso, al termine del giorno, è più eloquente di ogni altro messaggio: bene dice con Dio, ti affida a Lui e così puoi ripartire, sentendoti accompagnato e accolto da un amore molto più grande delle tue fragilità, ma che ha bisogno di passare attraverso di esse per farsi carne, vita concreta, speranza di futuro. (Giovanni M. Capetta – SIR)
In Famiglia: Davide e Betsabea
28 Settembre 2021 - Davide, il grande re Davide è un altro protagonista della Bibbia di cui il testo sacro non nasconde la piena umanità. Non è un supereroe secondo gli stilemi della letteratura classica, egli è fragile, il più piccolo dei suoi fratelli tanto che anche il profeta Samuele stesso sembra meravigliarsi che sia lui il prescelto per essere unto re (1Sam 16,6-15). Anche nel caso della vittoriosa sfida con il gigante Golia è nella destrezza e non nella magnificenza della forza che egli trova il motivo della sua vittoria (1Sam 17, 40-54). Dopo la lunga contesa con Saul per la presa del potere (1Sam 18-31), Davide sale al trono (2Sam 2,1-4) e una tradizione esegetica con un suo fondamento gli attribuisce l'elaborazione di molti dei Salmi di cui si compone questo grande libro poetico della Bibbia. Anche in questa sua manifestazione di talento artistico Davide rende manifesta la sua fede nel Signore, ma anche la sua gioia nel lodarlo, la contrizione nel chiedergli perdono, l’intimità con cui sa trovare parole per rivolversi all’Altissimo. È un uomo a tutto tondo che si mostra per quello che è. E in un famoso episodio raccontato nel secondo libro di Samuele viene narrato il suo grande peccato (2Sam 11, 1-27). Egli ha già una moglie e secondo l'uso dell'epoca è immaginabile che avesse anche un harem di concubine, eppure sprofonda nel peccato di cupidigia nei confronti della bellezza fisica di Betsabea. Lui non è innamorato di questa donna, non la conosce assolutamente, l'ha solo vista e d’improvviso la desidera, accecato dal desiderio. Appare una situazione comune che purtroppo contraddistingue molti adulteri anche ai giorni nostri. Spesso i coniugi dimenticano la responsabilità richiesta dall'amore autentico, spengono la volontà e la razionalità e si fanno guidare solo da una passione che è davvero cieca e non permette di valutare le conseguenze delle proprie azioni. La differenza di molti rispetto a Davide è che è raro disporre del potere di re, per cui oggi le avventure extraconiugali sono fughe in cui ciascuno mette in campo le sue poche forze e i suoi piccoli sotterfugi, nel caso di Davide, invece, il peccato aumenta esponenzialmente perché egli abusa del suo potere per farla franca anche a costo di far morire il legittimo marito di Betsabea. Quest'ultima, infatti, è malauguratamente rimasta incinta, Davide cerca di persuadere il suo fido soldato Uria l'hittita a unirsi a sua moglie (perché il figlio sembri suo), lo fa anche ubriacare ma niente, il militare è integerrimo e non si concede il lusso dell'unione coniugale durante i giorni in cui i suoi compagni sono al fronte. Davide è costretto dalla sua ubris (sfrontatezza blasfema) ad un gesto estremo: far porre Uria nella zona più pericolosa della battaglia così che sia ucciso. Si è liberato di un uomo ma ha sconvolto profondamente il cuore di Dio che, attraverso la parabola raccontata dal profeta Natan, porta il suo prediletto sulla via del pentimento (2Sam 12,1-12). Si immagina che il Miserere, il salmo 50, sia cantato da Davide proprio come massima espressione del dolore per la colpa commessa. Il pianto che si riversa su se stesso e sul figlio di Betsabea che il profeta ha vaticinato dovrà morire. Noi non capiamo questa logica del capro espiatorio, sta di fatto che Davide si salva, "il figlio della colpa" no. Che responsabilità aveva il neonato? E sua madre a vederselo strappare? Davide dopo aver compiuto digiuno ed espiazione è come se fosse un uomo nuovo e nell'unirsi a Betsabea per consolarla del lutto, concepisce Salomone, il figlio che gli succederà sul trono.
Il peccato di Davide è stato quello di aver considerato Betsabea, non come una donna, quindi una persona con la sua immensa dignità di figlia di Dio, quanto piuttosto come una cosa da poter possedere a suo piacimento. Il re abusa del suo potere. All’interno delle dinamiche famigliari, paradossalmente, è ancora più facile che a livello amicale, cadere nell’errore di credere che gli altri siano “tuoi”, che tu possa disporre di loro a tuo piacimento. Ciò riguarda molto spesso il rapporto fra moglie e marito, ma avviene anche nella relazione con i figli, quando, per esempio, non si è capaci, come genitori, di lasciarli liberi di scegliere la loro strada e la loro vocazione che è sempre unica, intima e spesso non si può dall’esterno pretendere di capirla pienamente. In famiglia è necessario vigilare sempre con molta attenzione perché non ci sia chi domina sull’altro, anche dal punto di vista psicologico è assai importante rifuggire atteggiamenti di prevaricazione. Come sottolinea bene il nuovo rito del matrimonio non si “prende” l’altra persona, ma la si “accoglie” nella sua libertà. Ogni volta che la logica del dono è sostituita dalla logica del possesso ecco che è necessario convertirsi – una conversione che dura una vita – e avere il coraggio di chiedere perdono alla persona ferita e a Dio stesso. La dimensione della donazione non è qualcosa che all’uomo viene spontanea: è frutto di un allenamento costante, è ricevuta attraverso la preghiera, perché si alimenta di una forza, la Grazia, che non viene da noi stessi, ma è concessa dal Signore nella misura in cui sappiamo chiederla, direi quasi elemosinarla giorno per giorno, domandando un cuore puro, capace di amare senza condizioni. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Giacobbe, Lia e Rachele
10 Settembre 2021 - È un luogo santo, Betel, un’oasi spirituale, quei momenti in cui il Signore ci parla in modo chiaro e ci incoraggia a fidarci di lui e a seguirlo. Quando il sogno è così chiaro che non vi possono essere dubbi, quando la preghiera trova risposta nel dialogo con Dio. Arrivato presso le terre dello zio Labano anche a Giacobbe capita quello che era capitato al padre, si innamora: si innamora a prima vista di una donna bellissima che sta compiendo umilmente il suo lavoro. La bacia (senza tanti preliminari) e piange di gioia perché ha già capito che Rachele, “pecorella” questo il suo nome, come quelle che fa pascolare, è la donna con cui vuole dividere la vita. Ma i nostri desideri non corrispondono sempre a quelli di Dio. Egli mantiene le sue promesse ma per vie che non ci è dato subito di conoscere. Labano si dimostra ancora accogliente, ma spregiudicato. Appellandosi ad una vaga norma locale (“si usa far così dalle nostre parti”), inganna l’ingenuo Giacobbe e mentre questi ha chiesto la mano di Rachele, la prima notte di nozze Labano “gli mette nel letto” (col favore del buio) la primogenita Lia, su cui il testo è impietoso: “aveva gli occhi smorti”. Giacobbe è incastrato: ha promesso sette anni di lavoro in cambio di una moglie e ora Labano gliene chiede altri sette per potersi prendere Rachele, l’unica che ama. Che famiglia si va creando? Qualcosa che noi facciamo fatica a immaginare perché la bigamia non ci appartiene, eppure possiamo capire i sentimenti di queste due sorelle: una amata dal marito come non mai, l’altra tenuta per contratto. Chissà che dolore, che incomunicabilità, quali aggiustamenti per stare tutti sotto la stessa tenda…? Il Signore poi sembra intervenire proprio “controcorrente” rendendo fertile Lia e “consolandola” del suo non essere amata dal marito. Quattro figli! Che Lia spera siano sufficienti perché Giacobbe le sia in qualche modo almeno grato. Il marito, invece, deve vedersela con l’ira di Rachele che minaccia addirittura il suicidio se il Signore non le concederà un figlio! Giacobbe è in balia delle donne che ha attorno ed esclama che non è lui al posto di Dio, cosa pretendono dalle sue forze?! Si consuma una guerra di gravidanze, che quasi ci affanna nel suo susseguirsi senza soluzione di continuità. Rachele chiede al marito di concepire con la sua schiava e nascono due figli; allora fa così anche Lia e dalla sua schiava Giacobbe ha altri due figli. Infine Lia e Rachele si contendono il marito in cambio ancora di cibo: le mandragole (come per la zuppa di lenticchie di Esaù)… Per un peccato di gola, Rachele concede il letto del marito alla sorella Lia e questa concepisce altri due figli maschi e la figlia Dina. A qualcuno potrà sovvenire la dinamica di un intenso film cinese di molti anni fa, Lanterne Rosse, pur appartenente ad una cultura tutta diversa, ma in cui la poligamia era consentita. Quanta violenza si può consumare in una casa in cui un solo uomo deve dividersi fra diverse mogli? Eppure è così che va costituendosi il popolo delle dodici tribù. Il popolo eletto di Israele fonda le sue fragili radici sulla competizione e la rivalità, eppure è su questo popolo di dura cervice che Dio continuamente scommette. Dio si ricorda, alla fine, di Rachele che, immaginiamo con immensa gioia, dà alla luce un figlio predestinato a cose grandi: Giuseppe. È ora tempo di partire, di tornare nella terra di suo padre. La famiglia di Giacobbe si è moltiplicata a dismisura e lui, benedetto dal Signore, con astuzia accresce i suoi beni, si affranca da Labano e fugge non senza la complicità della moglie Rachele, che ruba gli idoli del padre, li nasconde nella sella del suo cammello e riesce a non farli trovare ad un Labano disperato, con la scusa che non può alzarsi perché ha le mestruazioni. È sbalorditivo come il Signore lascia che gli uomini e le donne mettano in campo la loro libertà per ottenere i loro scopi. Come? Nessuna punizione? La fanno franca? Ma che storia stiamo leggendo? Che bilancio facciamo di torti e ragioni. Il bilancio è sempre alla fine. Giacobbe, dopo tanti anni, vuole preparare l’incontro con suo fratello: ha paura che Esaù gli sia ancora ostile, gli vuole offrire beni a dismisura per ammansirlo, ma in realtà è con la giustizia del Signore che deve fare i conti. La lotta notturna con Dio (Gn 32, 23-33) lo segna indelebilmente nel corpo, lo lascia letteralmente “sciancato”, ma libero dal peso della colpa, capace di “far passare” tutta la sua famiglia dall’altra parte, di voltare pagina. Ha visto faccia a faccia il Signore ed è rimasto in vita: ora può riconciliarsi col fratello che, inaspettatamente, lo perdona, gli si getta al collo, lo bacia, piange di commozione. Fra i due prevale il legame del sangue su ogni altra rivalsa, godono dell’unire le forze per un attimo e poi decidono di proseguire ognuno per la sua strada. Questa volta la storia sarebbe a lieto fine se non si inframmezzasse la violenza straniera subita a Sichem dalla figlia Dina, la vendetta dei fratelli Simeone e Levi che compiono una strage e infine la morte straziante di Rachele a Betel nel dare la vita all’ultimo figlio, Beniamino, per antonomasia il figlio prediletto. Ogni pagina biblica ci avvince per come è impastata di umano e divino, di sacro e profano. Esaù e Giacobbe erano solo due fratelli gemelli, ma dalla loro storia è nato un popolo e noi ancora oggi siamo qui a interrogarci su quali possano essere i rapporti fra fratelli, persone che non si scelgono ma sono costrette a convivere, che possono amarsi alla follia o odiarsi senza tregua. È sempre lo stesso mistero, quello della vita affidata alla nostra libertà in cui prende carne la storia della salvezza. (Giovanni M. Capetta - Sir)
In Famiglia: Giacobbe ed Esaù
31 Agosto 2021 -
Anche all’inizio della storia matrimoniale fra Isacco e Rebecca c’è la prova della sterilità (Gn 25, 21). Non sarà la prima volta e neppure l’ultima. La Bibbia sembra ricordarci continuamente che la vita non ci è dovuta, non è scontata, è un dono e come tale va chiesto ed offerto. Isacco “supplica il Signore per sua moglie”: una bellissima immagine, una preghiera per la fecondità e la felicità di chi gli sta a fianco. Quante volte riusciamo a scorporare la preghiera dal nostro io, dalle nostre richieste e a farla diventare un dialogo con il Signore di vera intercessione per qualcun altro? Isacco è esaudito con abbondanza e Rebecca resta incinta di due gemelli eterozigoti: uno più diverso dall’altro. Fin dal grembo materno scalciano come se si azzuffassero e la madre inquieta si domanda il perché. Il Signore risponde con una profezia riguardo alle due nazioni che da esso nasceranno e pare non venire incontro allo spirito di concordia che dovrebbe instaurarsi fra fratelli. Sembra un destino segnato. Il parto è icastico e simbolico, Esaù, esce per primo, rossiccio e peloso, Giacobbe esce dopo ma gli tiene il calcagno. Noi oggi non ci affidiamo più a questi segni e l’ostetricia moderna ha molto medicalizzato quello che alle origini era veramente un momento drammatico in cui la vita e la morte (dei feti e della madre) non potevano che essere totalmente affidati alla Provvidenza di Dio. Esaù e Giacobbe, invece, sembrano dei predestinati: uno diventa abile nella caccia, avvezzo alla vita nella steppa, l’altro, forse più fragile, sta sotto le tende… oggi si direbbe “tutto casa e chiesa”. Anche i genitori lasciano che i loro sentimenti immediati prendano il sopravvento, manifestano apertamente delle preferenze: Isacco per Esaù, Rebecca per il “suo” Giacobbe: sembra di vederli questi genitori che cercano di mettere sul tavolo i meriti dei due figli, senza spostare di una virgola il loro punto di vista, senza riuscire a condividere un amore per entrambe che non privi i due giovani di una parte essenziale della loro autostima e identità… Quando un padre apostrofa il figlio dicendo alla moglie “tuo figlio ha fatto questo o quello” e viceversa… La pedagogia di casa è minata all’origine. Non c’è una vera pace all’interno di questa famiglia, una bomba ad orologeria sta per esplodere. Il primo episodio è la cessione da parte di Esaù della primogenitura a suo fratello minore. Scaltro e abile con le parole, Giacobbe fa leva sulla fame del fratello e sulla sua impulsività e lo “frega”, come diremmo oggi, senza che neanche lui se ne accorga granché. Poi, dopo varie vicissitudini in cui anche Isacco si trova a provare l’escamotage rischioso del padre di far passare la moglie per sorella, Esaù morde il freno, vuole rendersi autonomo e causando “intima amarezza” nei genitori Isacco e Rebecca, prende due mogli ittite. Sembra un’offerta commerciale, due donne come fossero un bottino, ma in realtà sono il segno di una mancanza di volontà di restare nel solco della benedizione che i propri padri hanno ricevuto dal Signore, vuol dire non avere a cuore le proprie radici. Con questo presupposto si consuma il grande inganno, ordito da Rebecca. Isacco, quasi cieco, sente venir meno le forze e vuole benedire il suo figlio primogenito: gli chiede di cacciare della selvaggina, perché possa preparargli il suo piatto preferito, mangiarne e poi essere benedetto prima che lui muoia. La madre di Giacobbe sente tutto e organizza alla perfezione la sostituzione dei figli per la benedizione. Cucina il piatto preferito del marito (quanto è importante saper stare ai fornelli per la vita famigliare!), si inventa anche un costume irsuto per le braccia glabre del figlio e il gioco è fatto. Giacobbe riceve la benedizione solenne di suo padre, il quale quando capisce cos’è successo non può far niente se non subire l’ira di Esaù, che si sente defraudato e vorrebbe una riparazione che non può avere, anzi le parole che il padre gli rivolge sembrano suggellare una vita fatta di fatica e di violenza (Gn 27, 39-40). In casa non c’è più posto per Giacobbe, il fratello Esaù aspetta solo che il padre muoia, per vendicarsi ed ucciderlo e ancora una volta è Rebecca che organizza la fuga del suo figlio preferito, non prima, però, che il padre gli abbia raccomandato – la storia si ripete - di cercare moglie fra i parenti di sua madre, da quel Labano che abbiamo già conosciuto. Mentre Esaù, vista la partenza del fratello, quasi per ripicca, sposa un’altra donna discendente di Ismaele, Giacobbe inizia il suo viaggio e lo inizia nel migliore dei modi con un grande sogno premonitore, un’infusione di coraggio e speranza che quello che ha intrapreso è un cammino che darà molto frutto. (Giovanni M. Capetta - SIR)
In Famiglia: il figlio donato da Dio
20 Luglio 2021 - Dopo la nascita di Ismaele, il figlio della schiava, Abramo e Sara, ora con nomi nuovi, segno di una lenta conversione interiore, sono nuovamente pronti ad accogliere l’ennesima promessa di un Dio che non li ha mai abbandonati, anche nel momento dell’errore e del torto (Gen 17). Un “Dio-con-Noi” è quello di questa coppia di sposi: sempre al loro fianco, sempre capace di stupirli e di approfittare di ogni loro gesto di accoglienza. Abramo e Sara sono proprio come noi, un uomo e una donna, uniti nella ricerca del bene e della verità, con cadute, ferite, illuminazioni… ma, in ultima istanza “graziati” dal non interrompere mai, anche nel lamento o nel grido di incomprensione, il dialogo con un Dio che si abbassa a parlare loro con tutto lo spettro dei linguaggi umani. L’ultimo grande incontro è coi tre uomini alle Querce di Mamre.
Non era facile riconoscere in essi la presenza del Signore, ma Abramo mostra la piena maturità del suo essere uomo che accoglie, che si mette a servizio, che offre il meglio di sé, senza chiedere niente in cambio. Nell’accudire i tre viandanti sconosciuti Abramo è l’uomo maturo che è pronto a ricevere il dono a lungo promesso: un figlio dalla sua carne.
Quello che davvero il cuore umano non osa più sperare, Dio è capace di compierlo perché il suo amore non ha confini e lo rende continuamente Creatore di meraviglie. Ancora una volta la pagina biblica non manca di rilevare la dimensione umana della storia, come la Salvezza si dipani dritta sulle righe storte della nostra incredulità. Sara ride dietro la tenda: è in menopausa, sa di essere “avvizzita” e non poter più generare e invece: da lì ad un anno nasce Isacco, il figlio della promessa. (Gen 18, 1-16; 21, 1-6).
Quante volte non abbiamo il coraggio di sperare? Quante volte non osiamo dire che “ci basta la sua Grazia”? Spesso il nostro animo sembra non avere spazio per una misericordia che è oltre i nostri pensieri, che viene da un Dio che non ci tratta secondo la nostra misura, non ci dà solo il contraccambio ma abbonda di beni, anche là dove noi abbiamo fallito. Isacco cresce con il fratellastro Ismaele, chissà quanti giochi, quanto umano affetto, ma ancora una volta il disegno divino spiazza Abramo che deve soffrire un nuovo abbandono e chissà questa volta quale sarà stato il ruolo di Sara, madre di un erede che non poteva avere rivali. Gli uomini e le donne della terra non riescono da soli a risolvere situazioni più grandi di loro. Non vi sembra di leggere in tralice storie di ordinaria vita quotidiana, vicende dei nostri giorni, in cui la giustizia umana stenta a trovare le ragioni degli uni e degli altri e affida a tribunali limitati perché troppo umani ferite che solo grandi slanci d’amore possono lenire?
Abramo ancora una volta è in balia di sentimenti contrastanti, lo ritroviamo continuamente in bilico fra la dimensione dell’ascolto incondizionato e quella del timore, dell’incomprensione, del dubbio. Abbandonare Agar e Ismaele nel deserto gli pare gesto violento, spietato, apparentemente senza senso, quel figlio nato così rocambolescamente è pur sempre suo… eppure non sembra quello che Dio suggerisce, come se da questo momento si prendesse Lui direttamente cura di quella donna e di quel ragazzo indifeso che darà vita ad un’altra grande nazione (Gen 21, 8-21). Abramo, l’uomo che contratta alla pari con Dio per la salvezza dei giusti nella città di Sodoma, (Gen 18, 17-33) è ormai sazio di anni e forte di quella discendenza insperata che vede fiorire in Isacco. Pare di vedere questa famiglia ricomposta dopo tanto patire, rendere lode al Signore, sentirsi appagati e nel giusto. Finalmente possono assaporare una serenità che a lungo hanno solo potuto desiderare Eppure non sarà questo l’epilogo dell’epopea di Abramo. Prima di comprare il terreno per erigere il sepolcro di Sara, compagna di una vita, sempre al fianco in ognuna delle loro peripezie, nel viaggio impervio di una fede vacillante ma mai spenta, ancora una volta il Signore interpellerà quest’uomo centenario, che siamo tutti noi, chiedendogli una nuova ed irrevocabile conversione. (Giovanni M. Capetta – Sir)
In Famiglia: prendersi cura di Noè
6 Luglio 2021 - Il 25 luglio prossimo sarà celebrata la prima giornata mondiale dei nonni e degli anziani, voluta da papa Francesco e che per quell'occasione ha già diffuso un messaggio particolarmente incoraggiante. Un passaggio rivela quanto il pontefice abbia a cuore la missione ancora viva di chi è avanti negli anni. "Non importa quanti anni hai, se lavori ancora oppure no, se sei rimasto solo o hai una famiglia, se sei diventato nonna o nonno da giovane o più in là con gli anni, se sei ancora autonomo o se hai bisogno di essere assistito, perché non esiste un’età per andare in pensione dal compito di annunciare il Vangelo, dal compito di trasmettere le tradizioni ai nipoti. C’è bisogno di mettersi in cammino e, soprattutto, di uscire da sé stessi per intraprendere qualcosa di nuovo". Avremo, forse, occasione di riprendere questo testo per intero, ma intanto soffermiamoci, nel nostro cammino biblico, su un anziano di grande spessore. C'è un piccolo episodio al termine della grande storia di Noè che mi ha sempre fatto pensare (Gn 9, 20-28). Noè appare un gigante di autorevolezza e competenza. Dio lo sceglie per la sua rettitudine e lui si dimostra all'altezza, non solo come uomo, ma come grande ingegnere. Seppur seguendo un libretto di istruzioni divine, la sua fedeltà lo premia perché fa tutto come deve e nei tempi stabiliti. Poi affronta il diluvio, con la sua famiglia e le specie animali... chissà quali pensieri la notte prima di dormire, chissà quali domande con moglie e figli... Poi il discernimento per capire se ci sarà terra con l'invio della colomba. Insomma Noè non sbaglia mai e poi... probabilmente ormai molto avanti negli anni, si concede il lusso, nella nuova terra ritrovata di coltivare una vigna, segno di alleanza con la natura e con Dio, pianta del vino, da sempre oggetto e simbolo della gioia degli uomini. Ebbene, di fronte a questo "ben di Dio", Noè perde il controllo e si ubriaca rimanendo nudo al pubblico ludibrio. L'uomo è fragile, ogni uomo, ancor più quello anziano, qualunque siano state le imprese della sua vita. Come ci si comporta nei confronti della debolezza dei vecchi? La Bibbia come sempre dipinge un quadro di umanità profonda. Un figlio lo deride e lo indica alla vergogna degli altri... Perché lo fa? Perché manca così di rispetto a suo padre? Forse ha subito dei torti? Forse non è stato mai abbastanza gratificato dal suo papà che gli ha lesinato qualche apprezzamento di troppo? Oggi avremmo molte voci autorevoli che ci potrebbero spiegare quali danni può provocare nei figli l'assenza dei padri. Gli studi di Risè, poi quelli di Recalcati, per citare solo due nomi assai noti credo che troverebbero nell'interrogare quel figlio senza pudore tanti perché e tante argomentazioni. È un fatto, però, che gli altri due figli chiamati, di fronte allo spettacolo del padre in quello stato pietoso, assumono l'atteggiamento diametralmente opposto: lo coprono ed evitano perfino di guardare loro stessi le parti intime del padre. Un'attenzione che Noè poi ripagherà con una benedizione grande e solenne ma che nel compiersi stessa riceve la sua ricompensa. I figli pudichi sono come quei figli che vediamo al capezzale dei loro genitori nelle case o nelle Rsa sparse per il nostro Paese. Uomini e donne che si dedicano anima e corpo ai loro genitori, ai loro avi. Con pudore, nel silenzio, nella dignità, ascoltano il lamento di chi soffre, ascoltano anche spesso deliri o nenie senza senso, unica voce rimasta ai loro cari. Se spesso sono badanti straniere a compiere i gesti di cura più intimi, come samaritani venuti da lontano, migliaia sono i figli che non abbandonano i loro genitori quando perdono il senno e le forze, ma sono loro a fianco con umiltà, senza ribrezzo, colmi di gratitudine per la vita ricevuta e che ora passa di mano. Anche Gesù immagina l'anziano Pietro a cui qualcuno cingerà la veste e che porterà magari dove non vorrà andare, ma quanta tenerezza scorgiamo anche in questa sagoma di anziano delineata dal Signore. Lunga vita, sia - dunque - a chi avrà la Grazia di avere al suo fianco un figlio, capace di assumere un ruolo di paternità ed accoglienza proprio per chi l'ha generato. (Giovanni M. Capetta – Sir)
In Famiglia: l’istinto di Caino
30 Giugno 2021 - “Fratelli coltelli”: è un’espressione un po’ desueta, ma che, purtroppo, rappresenta una situazione ancora molto diffusa fra il genere umano. I consanguinei più stretti, coloro che sono nati dallo stesso ventre, spesso non si riconoscono, non si accettano, non riescono a trovare ragioni e vie per amarsi, perché non si sono scelti e si sono trovati affiancati nella vita per volere di qualcun altro. Il racconto biblico di Genesi (4,1-16), da questo punto di vista, non concede spazio ad una visione irenica: la vita di Caino e Abele è la consumazione di un dramma umano dalle tinte forti e quasi misteriose. Perché fra i due si instaura una così pericolosa gelosia, perché Dio Padre stesso concede che in Caino si annidi un così profondo sentimento di frustrazione e di rivalsa, non gradendo le sue offerte a fronte di quelle del fratello? Sovviene l’adagio paolino “Il Signore ama chi dona con gioia”, forse è questo che il lettore può sospettare… che Caino facesse quello che doveva controvoglia o senza il giusto senso di gratitudine nei confronti del Creatore, ma in realtà questa è un’ipotesi che non del tutto ci è lecito fare, quasi per trovare una ragione ad ogni costo. Nelle famiglie con più figli, capita spesso, verrebbe da dire sempre, che la percezione soggettiva dell’amore dei genitori per loro sia una misteriosa alchimia… qualcosa di sotterraneo, che magari non viene rivelato per anni e solo in età adulta affiora, oppure che fin dai primi anni di vita – non parliamo poi dell’adolescenza! – informa le relazioni dei ragazzi. Le “preferenze”… spesso attribuite proprio senza motivo, a volte invece effettivamente presenti che vengono imputate a mamma e papà. È così dai tempi di Caino, potremmo dirci per consolarci… eppure la storia delle origini non dovrebbe lasciare in noi l’assuefazione alla violenza e all’incomprensione. Dio dissuade Caino dall’accidia, lo sprona a tenere alto lo sguardo, a nutrirsi della purezza della sua coscienza e poi, con un’immagine sublime, lo mette in guardia dal peccato che è come un cane infido accovacciato alla porta. L’istinto porta l’uomo verso quell’animale che è in lui, ma la libertà, solo umana, ci permette di dominarlo. Poteva andare diversamente, non c’era nulla di predeterminato, perché nella nostra fede non esiste il destino, ma solo il disegno provvidente di Dio che mette in gioco la nostra libertà. Dalla storia dei primi due fratelli si sono consumati innumerevoli fratricidi, eppure è proprio da questa storia che nasce il bisogno di fratellanza di ogni uomo, anche di quello che si è macchiato del sangue dell’altro e che viene “segnato” perché viva e si salvi. Se è da questa pagina che traiamo il principio per cui “nessuno tocchi Caino” e nessuno si permetta quindi di imporre la pena di morte ad un altro uomo e sempre da questa pagina che accompagniamo l’uomo Caino nel suo cammino di colpa, di pena, ma anche di redenzione, di nuova volontà di incontrare il fratello. Ed è così che i figli di Caino, che siamo noi, hanno saputo anche donarsi gesti di pace, di ascolto, di comprensione, sopportandosi vicendevolmente, prendendosi le colpe altrui, aiutando il più debole. Sono tutte le facce del prisma che l’amore fraterno sa offrire all’esperienza degli uomini e delle donne figli degli stessi genitori. Fratelli che si immolano per la causa del più piccolo, che rinunciano ai propri sogni perché se ne realizzino di altrui. Fratelli che si incontrano nell’affascinante mondo dell’adozione, in cui sulla propria pelle si vive che non è il sangue a dettare la legge della fratellanza, ma qualcosa di più profondo e talvolta invisibile. L’amore fra fratelli allora non è solo un’utopia, ma un cammino possibile, un lungo ed appassionante cammino che dai legami di parentela, passando attraverso la piena umanità di Gesù, al compimento della storia, diviene un cammino universale, in cui, echeggiando le parole del Papa e prima di lui del grande santo Francesco, possiamo davvero dirci “Fratelli tutti”. Vivere da fratelli è una sfida quotidiana: talvolta – come detto – fra le mura domestiche sembrano consumarsi i conflitti più aspri, eppure è proprio la famiglia quel campo ogni giorno a disposizione per imparare un gioco che non ha regole e che si chiama amore. (Giovanni M. Capetta - Sir)