29 Ottobre 2019 - Savona - Domenica prossima, 3 novembre, la comunità ucraina di Savona celebra i quindici anni di presenza in diocesi Come racconta in anteprima il mensile diocesano Il Letimbro di novembre, alla festa di ringraziamento, nella chiesa del Sacro Cuore in corso Colombo, interverranno non solo i fedeli della comunità savonese, ma anche di quelle sorelle di Chiavari e Genova.
La giornata inizierà alle 10 con la colazione ucraina con tè, caffè e dolci tipici. Seguiranno giochi e laboratori per tutti poi un momento a cura de “Le Madri unite nella preghiera”. Alle 12 la divina liturgia con rito bizantino a cui prenderà parte il vescovo Mons. Calogero Marino, unitamente al vescovo ucraino Mons. Dionisio Lyakovich. La Messa sarà celebrata in lingua ucraina con alcune parti in italiano. Durante la celebrazione si pregherà per la salute e, secondo l’usanza, verrà donato ai fedeli l’olio benedetto. Al termine pranzo comune nei locali della chiesa, seguito da altri momenti di festa con balli tipici. “Con questa cerimonia la nostra comunità ucraina desidera ringraziare Dio e festeggiare questi quindici anni a Savona” spiega a Il Letimbro padre Vitaliy Tarasenko, guida spirituale della comunità.
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Card. Hollerich: “è uno scandalo morire in Europa così”
24 Ottobre 2019 - Bruxelles - “È uno scandalo che in Europa si possa morire ancora così e come cristiani non possiamo tacere”. Sono un grido di orrore le parole pronunciate dal card. Jean-Claude Hollerich, presidente della Comece (Commissione delle conferenze episcopali dell’Ue) commentando la tragedia dei 39 corpi trovati senza vita in un container in una zona industriale nell’Essex, nel sudest dell’Inghilterra. Tra le vittime anche un adolescente. Il camion proveniva dalla Bulgaria e i media del Regno Unito lasciano intendere che la tragedia possa essere legata all’immigrazione clandestina. Il cardinale è sconvolto: “In Europa parliamo di identità cristiana ma io mi chiedo, come parlare di identità cristiana se la gente continua a morire così e queste tragedie non ci toccano più?”.
Disperati e senza scelta
24 Ottobre 2019 - Roma - Il 93 per cento dei migranti che lasciano l’Africa per raggiungere l’Europa irregolarmente sono disposti a farlo di nuovo, nonostante i pericoli spesso mortali cui vanno incontro. Lo rileva un rapporto delle Nazioni Unite che prova ad analizzare perché coloro che affidano la loro vita ai trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, decidono di lasciare il loro paese.
L’indagine, realizzata dal Programma dell’Onu per lo sviluppo, che si basa su interviste a 1.970 migranti provenienti da 39 paesi africani stabilitisi in 13 paesi europei, rileva che tutti hanno riferito di essere arrivati in Europa con mezzi irregolari e non per motivi di asilo o protezione.
La ricerca rileva che non tutti i migranti giunti irregolarmente in Europa sono poveri in Africa e soprattutto che molti di loro non hanno un livello di educazione basso. Circa il 58 per cento aveva un impiego o frequentava la scuola e la maggior parte di quelli che lavoravano guadagnavano un salario congruo. Cosa li spinge dunque ad abbandonare la propria casa e gli affetti? “Se hai una famiglia — ha risposto Yerima — devi assicurarti che abbiano cibo, riparo, medicine e istruzione. Ho una bambina. La gente potrebbe chiedersi che tipo di padre sono che sto lasciando mia moglie e mia figlia in tenera età. Ma che razza di padre sarei se rimanessi e non potessi offrire loro una vita dignitosa?”. È la paura della mancanza di un futuro migliore, il timore di essere costretti a vivere in ristrettezze, dunque, che li spinge a partire. Secondo lo studio, circa la metà di coloro che avevano un lavoro in Africa ha dichiarato di non guadagnare abbastanza. Per i due terzi degli intervistati, ciò che guadagnavano o le prospettive salariali nel paese d'origine non ha impedito loro di andarsene. La relazione sottolinea che la migrazione è causata dall’impatto del progresso dello sviluppo in Africa, un progresso irregolare e non abbastanza veloce da soddisfare le aspirazioni delle persone. Gli ostacoli alle opportunità, o la “mancanza di scelta”, emergono da questo studio come fattori determinanti per la decisione di partire di molti di questi giovani.
“Sono le politiche che radicano le persone in povertà, che non sviluppano nulla. Le scuole inesistenti, i servizi per la salute che non ci sono, la corruzione, la repressione, sono questi i problemi che spingono le persone a emigrare”, racconta Serge. Infine, la ricerca affronta il motivo che spinge queste persone a restare in Europa ed è, nella maggior parte dei casi, la vergogna di non riuscire nella loro ‘missione’ di inviare fondi sufficienti a casa. Circa il 53 per cento racconta che ha ricevuto sostegno finanziario da familiari e amici per partire, e una volta in Europa, per circa il 78 per cento inviare denaro a casa è il motivo principale che li spinge a restare. Le conclusioni cui approda l’indagine sottolineano la necessità di continuare ad ampliare opportunità e scelte in Africa, rafforzando al contempo le opportunità di passare dalla migrazione ‘non regolamentata’ alla migrazione ‘regolamentata’, in conformità con il Global compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare. (di Anna Lisa Antonucci – Osservatore Romano)
Card. Bassetti: la Chiesa invoca la pace in Siria
21 Ottobre 2019 - Roma - “Per tutte le guerre si cerca sempre di trovare delle ragioni di Stato, e così anche per la Siria. Ciò non giustifica affatto l’inferno che si è scatenato, le famiglie con i bambini in fuga, la distruzione, si continua a distruggere delle civiltà millenarie. Avremo anche questa responsabilità dinanzi al futuro. Dalla Chiesa non può che elevarsi una invocazione di pace perché ogni guerra è un’inutile strage”. Lo ha detto il card. Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. in una video intervista rilasciata Daniele Rocchi per il Sir (https:/la-chiesa-invoca-la-pace-in-siria/) a margine della assemblea ecclesiale della Chiesa umbra a Foligno.
Nella stessa intervista il cardinale ha parlato, tra le altre cose, dell’Incontro di riflessione e spiritualità promosso dalla CEI che a febbraio 2020 porterà a Bari oltre cento vescovi del Mediterraneo e affrontato la questione di un Sinodo per l’Italia.
Don La Magra ai sopravvissuti del naufragio: “chiediamo perdono a voi e ai vostri cari se ci siamo vantati di essere nazioni cristiane”
10 Ottobre 2019 - Lampedusa - “A voi e ai vostri cari, che riposano in fondo al mare, noi chiediamo scusa. Se ci siamo vantati di essere nazioni cristiane, giuste, democratiche e libere e poi permettiamo che accada questo. Chiediamo perdono a voi, come lo chiediamo a Dio”. Lo ha detto il parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra, nell’omelia delle esequie delle 13 donne morte nel naufragio che si è verificato nella notte tra domenica e lunedì al largo dell’isola. E lo ha fatto rivolgendosi ai 10 dei 22 sopravvissuti presenti alla cerimonia. Le bare sono state disposte nel salone della Casa della fraternità di Lampedusa davanti a un altare predisposto per l’occasione.
“Da questo altare – ha aggiunto il sacerdote – va un ringraziamento a voi, che avete accettato di pregare insieme a noi, anche se il vostro dolore è tanto. La nostra preghiera va anche alle vostre famiglie, a quanti sapranno della morte dei propri cari. E un ringraziamento – ha proseguito don La Magra – anche a quanti in questi giorni, sì per lavoro, ma con grande delicatezza e tenerezza hanno trattato con i morti e con i vivi, militari e civili, perché oggi hanno scelto di essere qui senza esserne obbligati”. “Il Signore benedica – ha concluso – quanti hanno scoperto nel loro cuore umanità e tenerezza”. Al termine dei funerali, dal Forum Lampedusa Solidale, sono state donate ai sopravvissuti delle copie in lingua francese della Bibbia e del Corano. Le salme, invece, saranno sepolte nei cimiteri dei Comuni agrigentini che daranno disponibilità ad accoglierle.
Senza distogliere lo sguardo
3 Ottobre 2019 - Roma - Ricordiamo oggi il naufragio del 3 ottobre 2013 a poche decine di metri da Lampedusa, che causò la morte di 368 innocenti.
Non si tratta del ricordo di un evento passato, ma di una tragedia che continua, perché, anche se nel silenzio dei media e nell’indifferenza dei più, ogni giorno continuano a morire nel Mediterraneo persone che fuggono da guerre, miseria, violenza.
Ma, ci ha ricordato il Papa domenica scorsa nell’omelia per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato “ come cristiani non possiamo essere indifferenti di fronte al dramma delle vecchie e nuove povertà, delle solitudini più buie, del disprezzo e della discriminazione di chi non appartiene al “nostro” gruppo. Non possiamo rimanere insensibili, con il cuore anestetizzato, di fronte alla miseria di tanti innocenti. Non possiamo non piangere. Non possiamo non reagire. Chiediamo al Signore la grazia di piangere, quel pianto che converte il cuore davanti a questi peccati (…)
Amare il prossimo significa sentire compassione per la sofferenza dei fratelli e delle sorelle, avvicinarsi, toccare le loro piaghe, condividere le loro storie, per manifestare concretamente la tenerezza di Dio nei loro confronti. Significa farsi prossimi di tutti i viandanti malmenati e abbandonati sulle strade del mondo, per lenire le loro ferite e portarli al più vicino luogo di accoglienza, dove si possa provvedere ai loro bisogni”.
Amare il prossimo significa sentire compassione per la sofferenza dei fratelli e delle sorelle, avvicinarsi, toccare le loro piaghe, condividere le loro storie, per manifestare concretamente la tenerezza di Dio nei loro confronti. Significa farsi prossimi di tutti i viandanti malmenati e abbandonati sulle strade del mondo, per lenire le loro ferite e portarli al più vicino luogo di accoglienza, dove si possa provvedere ai loro bisogni”.
La memoria di oggi sia per ciascuno di noi occasione per non distogliere lo sguardo da queste persone. e per ottenere la grazia del pianto e di un impegno fattivo verso di loro. (Don Giovanni De Robertis - Direttore Generale Fondazione Migrantes)
“Io accolgo”: oggi iniziative in tutta Italia dedicate alle migliaia di migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa
3 Ottobre 2019 -
Roma - Il 3 ottobre del 2013, un’imbarcazione carica di migranti, in maggioranza eritrei, affondò a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa. Si trattò del più grave naufragio accertato in termini di vite umane. I morti certi furono 368, 20 quelli presunti e 155 i superstiti, di cui 41 bambini. Nel 2016, per volontà del Parlamento, quella data fu proclamata Giornata nazionale delle vittime di immigrazione, con l’intento, si disse, di sensibilizzare al rispetto della vita e all'accoglienza. In realtà, quella del Mediterraneo continua ad essere – si legge in una nota stampa della Campagna “Io Accolgo” – “la rotta più pericolosa e funestata da vittime, soprattutto dopo la soppressione delle missioni di salvataggio e recupero come Mare nostrum e la guerra dichiarata alle Ong, costrette a pagare un prezzo altissimo, in termini di diffamazione e non solo, per svolgere quello che è il dovere di ogni essere umano: salvare la vita a un proprio simile in pericolo”. I tanti comitati territoriali in cui è articolata la Campagna “Io accolgo” hanno organizzato, per ricordare le vittime di quella strage, iniziative in tutta Italia, reperibili sul sito della campagna a questo link http://www.ioaccolgo.it/eventi . Flash mob, letture collettive, creazione di murales, dibattiti, iniziative nelle scuole, proiezioni di film, mostre fotografiche, e persino un Festa degli aquiloni. Durante le iniziative saranno allestiti banchetti per raccogliere le firme all’appello che chiede l’abrogazione dei due decreti sicurezza e l’annullamento degli accordi con la Libia, oltre a una più complessiva revisione della legislazione sull’immigrazione. A riguardo, ricordiamo che l’appello si può firmare anche online sul sito della Campagna a questo link http://www.ioaccolgo.it/firma-lappello
Migrantes Torino: le Famiglie accoglienti si formano
1 Ottobre 2019 - Torino - "Cosa c'è di meglio per una persona che arriva da lontano, per sentirsi integrata nella nostra comunità, che essere accolta in una famiglia?". Sono le parole pronunciate da Sonia Schellino, vice-sindaca della Città di Torino in occasione dell’incontro “Presentazione Formazione famiglie accoglienti”, organizzato a Torino ieri, 30 settembre, dall'Ufficio Migrantes della diocesi in collaborazione con l’Associazione delle Famiglie Accoglienti.
Un ciclo di quattro incontri, dal 21 ottobre al 25 novembre, rivolti a singoli e famiglie che vogliono sperimentare l'accoglienza di un rifugiato nella propria casa. Oltre 50 persone hanno partecipato all'appuntamento dove sono stati presentati i temi che verranno affrontati: aspettative, diritti e confronto sui temi dell'accoglienza diffusa.
"Voglio ribaltare la prospettiva: fin qui si è parlato del bisogno di essere accolti, pensiamo anche al bisogno di accogliere, di aprirsi, di creare ponti, di sentirsi meno soli", ha sottolineato il Direttore Migrantes di Torino, Sergio Durando, che ha voluto porre l’attenzione sula valenza biunivoca di un’esperienza come quella del progetto “Rifugio diffuso”. "Abbiamo iniziato nel 2009 con 20 famiglie e 5 associazioni, in 5 anni abbiamo inserito 143 persone all'interno di circa 120 famiglie. Oggi siamo a più di 1000", ha affermato Salvatore Bottari dell’Ufficio Stranieri del Comune di Torino con cui la Pastorale Migrantes collabora su questa esperienza dal 2015.
Per informazioni potete scrivere a rifugiodiffuso@upmtorino.it
Migrantes: alcune nomine
26 Settembre 2019 - Roma - Nel corso dei lavori della sessione autunnale, il Consiglio Episcopale Permanente della Cei ha nominato membro della Commissione Episcopale per le migrazioni Mons. Roberto CARBONI, , Arcivescovo di Oristano e Amministratore Apostolico di Ales - Terralba.
Durante lo stesso incontro ha confermato Coordinatore nazionale della pastorale dei cattolici africani di lingua francese in Italia don Matthieu Malik Faye.
Ne da notizia oggi il comunicato finale dei lavori diffuso durante una conferenza stampa presieduta dal Segretario generale della Cei, mons. Stefano Russo.
Ad entrambi l’augurio di un proficui lavoro.
Mons. Meini: “non arrendersi alla cultura” del “prima noi e poi gli altri”
23 Settembre 2019 - Roma - Ricordare la dignità che rende “intangibile” ogni vita umana significa anche “non arrendersi alla cultura” del “prima noi e poi gli altri”. Lo ha detto oggi pomeriggio il vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Mario Meini, vescovo di Fiesole, aprendo i lavori della sessione autunnale del Consiglio Permanente della Cei. Per il presule quando l’altro è “persona bisognosa, priva di ogni opportunità, le nostre chiusure consolidano ingiustizie ed egoismi”. Mons. Meini ha quindi parlato della prossima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che si celebrerà domenica 29 settembre e che costituisce, come ha scritto Papa Francesco nel suo messaggio, “un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza umana” e, più in generale, dell’umanità di tutti. Questo – ha aggouto il vice presidente della Cei, “ci mette in guardia dalla scorciatoia che vorrebbe ricondurre al fenomeno migratorio le paure e le insicurezze di un malessere civile, che in realtà muove da cause ben più profonde”. Anche l’incontro del prossimo febbraio a Bari punta a “costruire del Mediterraneo una diversa narrazione; lo faremo – ha spiegato mons. Meini - a partire dalla disponibilità a metterci in ascolto delle diverse esperienze, sensibilità e prospettive che animano le Chiese, che si affacciano sul bacino del Mare Nostrum”.
Come eravamo: il salvataggio italiano, quaranta anni fa, dei boat people vietnamiti
20 Settembre 2019 - Città del Vaticano - Si è parlato molto sui giornali italiani, tra luglio e agosto, della vicenda dei “boat people” vietnamiti salvati nel 1979 dall’Italia grazie a un’efficace quanto repentina operazione compiuta nel Mar cinese meridionale.
Una storia per alcuni aspetti commovente, protagonista un paese, il “bel paese”, piuttosto diverso da quello che sarebbe diventato 40 anni dopo. Belle immagini, quelle che ritraggono i marinai italiani in compagnia delle persone soccorse, in gran parte bambini, e dei loro genitori riconoscenti. Belle immagini quelle dei profughi intenti a verniciare il ponte della nave, per rendersi utili.
Bellissimo vedere i visi sorridenti, le espressioni soddisfatte che solo chi vive una vita piena, e piena di senso, riesce ad avere.
Impressionante osservare quanto rispetto trasudi da quel messaggio, diventato famoso, che veniva letto in lingua vietnamita ai profughi: “Le navi vicine a voi sono della Marina Militare dell’Italia e sono venute per aiutarvi. Se volete, potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi vi porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e infine assistenza e medici. Dite cosa volete fare e di cosa avete bisogno”. Commovente leggere i ringraziamenti dei vietnamiti: “Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per questa causa vi siete sacrificati. Grazie”. E infine la risposta dei soccorritori, sobria, finanche severa. Ma quanto civile...: “Noi siamo dei militari; ci è stata affidata una missione e abbiamo cercato di eseguirla nel modo migliore. Siamo felici d’aver salvato voi e così tanti bambini e di portarvi nel nostro paese. L’Italia è una bella terra anche se gli italiani, a volte, hanno uno spirito irrequieto. Marco Polo andò con pochi uomini alla scoperta dell’Asia; voi venite in tanti nel nostro piccolo mondo. Sappiate conservare la libertà che avete ricevuto”.
Fu una corsa agli aiuti, all’accoglienza, dalle diocesi cattoliche alla comunità civile. Alla fine si raccolsero anche troppe risorse rispetto al necessario.
Era il 1979. Che cosa è successo, dopo? Cosa ci ha cambiato tutti così tanto? Cosa ci ha imbarbarito, resi duri, cinici, ben più che “irrequieti”, piuttosto, in qualche caso, ringhiosi giustizieri? Nel cercare di rispondere a queste domande, imperativo rigoroso è l’esercizio dell’obiettività. L’Italia era in effetti un paese diverso. Il mondo era diverso. Da poco si era consumata la tragedia di Aldo Moro, l’atmosfera era cupa come il piombo di quegli anni. Il Muro a Berlino era ben saldo e ogni tanto, bisogna ricordarlo sempre, qualcuno moriva nel tentativo di oltrepassarlo. Chi oggi rivendica primazie nazionali potrebbe anche ricordarci che all’epoca il fenomeno migratorio dall’estero in Italia era pressoché sconosciuto. E che pertanto è improprio parlare dell’accoglienza di un migliaio di vietnamiti paragonandola all’arrivo quotidiano sulle coste italiane di centinaia di migranti. L’Italia del 1979 viveva ancora un profondo senso di colpa: anche a causa del terrorismo, era ricaduta nelle lacerazioni di 35 anni prima, quando si era trovata spaccata in due per effetto di una guerra decisa da una dittatura alla quale, se non aveva aderito entusiasticamente, non aveva neanche opposto una grande resistenza. Un paese al quale nonostante tutto era stata concessa una generosa apertura di credito dai suoi ex nemici. In un certo senso echeggiava ancora, nella coscienza nazionale, la celebre frase di De Gasperi quando dopo una corposa anticamera in occasione della conferenza di pace a Parigi, di fronte ai leader dei paesi vincitori, aveva esordito così nel suo intervento: “Tutto è contro di me, tranne la vostra personale cortesia”. Di più. Occorre dirlo: l’Italia era un paese della Nato e andare ad accogliere i profughi vietnamiti in fuga dal regime comunista rappresentava oggettivamente una formidabile occasione di propaganda occidentale.
Però, soprattutto, l’Italia voleva ricambiare la “cortesia” di essere stata aiutata. Voleva entrare a pieno titolo nel novero dei paesi più sviluppati, democratici, civilizzati. Era assetata di futuro. Di grandi ideali. La classe politica, nelle sue carenze, rappresentava pregi e difetti della società italiana ma non aveva rinunciato a sognare, ad avere un’idea di paese. Esistevano ancora gli uomini di Stato. Dello Stato. Esistevano ministri, come Attilio Ruffini nel 1979 alla Difesa, che al più piccolo dei suoi figli Ernesto raccontava come l’operazione di salvataggio dei profughi vietnamiti era in assoluto ciò di cui andava più fiero di tutta la sua carriera politica. C’era Pertini. C’era una macchina organizzativa capace in soli cinque giorni di trasformare tre navi da guerra, la Vittorio Veneto, la Andrea Doria e la Stromboli, in ospedali da campo e accoglienti nursery per chi non parlava una parola di italiano. Una classe politica che non aveva timore di chiedere aiuto al Vaticano per avere interpreti vietnamiti (si immagini quali polemiche oggi potrebbe suscitare un fatto del genere). L’Italia accolse quella povera gente, pure essendo ancora relativamente povera. Ma non pensò al contingente. Pensava a quello che avrebbe potuto essere, al sogno di un’Italia di cui essere fieri.
Servirebbe tanto, oggi, una politica che ricominciasse a parlare di progetti a lunga scadenza, una classe dirigente che, da destra e da sinistra, volesse mettersi seriamente attorno a un tavolo riscoprendo il gusto dell’unica missione per la quale una élite in quanto tale trova la sua giustificazione, quella di assumersi la responsabilità di disegnare il futuro di una comunità.
Ecco cosa ci è successo, in fondo. È accaduto che, 40 anni dopo, abbiamo smesso di sognare. Di sognare un bel Paese. (Marco Bellini – Osservatore Romano)