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Giornata Vittime Immigrazione: ieri la celebrazione a Lampedusa
Lampedusa - "Mai più!". Sette anni dopo l’isola ricorda i 368 morti in uno dei più disastrosi naufragi del Mediterraneo e promuove in Europa la Giornata della memoria e dell’accoglienza. Sette anni fa avvenne il naufragio dopo il quale l’Europa decise: «Mai più!». Invece di stragi e naufragi ce ne sono stati ancora tanti, troppi.
Il 3 ottobre 2013, a poche centinaia di metri da Lampedusa, naufragava un barcone con a bordo 500 migranti, 368 dei quali perdevano la vita. In loro memoria (e degli altri 18.000 che sono morti tentando di attraversare il Mediterraneo negli ultimi 7 anni) ieri, dopo un momento di preghiera interreligiosa davanti alla Porta d’Europa cui ha assistito una piccola folla, il sindaco dell’isola Totò Martello ha lanciato una corona di fiori in mare nel punto esatto della sciagura. Il Comune di Lampedusa e Linosa è anche capofila del progetto europeo 'Snapshots fromthe Borders', che coinvolge 35 partner di 13 Paesi Ue (comprese 19 città e isole di confine) e punta a far dichiarare il 3 ottobre Giornata europea della memoria e dell’accoglienza. "Il 3 ottobre non è un giorno come tutti gli altri" recita infatti il titolo di un video diffuso per ricordare ciò che avvenne in quell’alba tragica.
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Ricordiamoci per davvero e interamente del 3 ottobre
Roma - È il caso ad ancorare un evento a una data, come la pallina cade nella casella numerata della roulette. Così nella storia di una comunità o di un singolo individuo, quel determinato giorno conserva per sempre l’impronta di ciò che vi è successo e diventa la chiave che ne riapre la memoria. E degli innumerevoli avvenimenti che si sono accalcati nel tempo su ogni giorno dell’anno, per uno che riemerge un altro cade nell’oblio a seconda del momento, perché come ci ha mostrato bene Italo Svevo il presente vince sempre sul passato e lo reinventa in base alle proprie necessità. Sempre per caso capita poi che una sovrapposizione di eventi conferisca a una certa data una singolare valenza simbolica, e il 3 ottobre è di certo una di queste.
La notte fra il 2 e il 3 ottobre del 1935 l’Italia fascista muoveva alla conquista dell’Etiopia. Dovrebbe essere una pagina di storia nota a tutti, ma non è scontato sia così, data la colpevole rimozione attuata sul nostro colonialismo e gli striminziti paragrafi che gli dedicano i manuali di scuola. Basterà ricordare che nei sette mesi del conflitto un esercito dotato di mitragliatrici e cannoni, aerei e blindati, oltre alle armi chimiche di cui fece massiccio uso, si scontrò con quello tribale del Negus che in larga parte disponeva solo di lance e frecce. La schiacciante superiorità numerica e tecnologica avrebbe fatto sì che le battaglie combattute per raggiungereAddis Abeba si trasformassero in autentici massacri, e va sottolineato come nei primi e più sanguinosi assalti venissero lanciati gli Ascari, truppe coloniali reclutate in Eritrea. I piedi scalzi, il fez rosso, sottili ed eleganti accanto a leoni e cammelli come li ritraevano i manifesti liberty, i francobolli e le carte dei cioccolatini dell’epoca, sarebbero stati sacrificati in 5.000, a fronte dei 2.000 caduti italiani, per non dire delle vittime etiopiche quantificate in centinaia di migliaia. E si trattava solo di un primo acconto del costo che il popolo eritreo avrebbe pagato in seguito. Come sappiamo infatti, crollato in poche settimane con l’offensiva inglese del 1941 l’impero di cartapesta voluto dal Duce, l’Eritrea sarebbe divenuta Protettorato britannico, quindi regione autonoma federata ma poi annessa all’Etiopia, e solo con tre decenni di sanguinosa guerra avrebbe raggiunto nel 1993 l’indipendenza.
Mi trovavo allora là per condurre una ricerca e potei toccare con mano l’entusiasmo che regnava per le strade di Asmara, Keren e Massaua. Un intero popolo in festa spingeva al potere i capi dell’esercito che lo avevano guidato alla vittoria. Ma come purtroppo è successo tante volte nelle aree più povere del pianeta, l’auspicato avvento della democrazia non è mai avvenuto e gli acclamati leader si sono trasformati in tiranni. Il presidente Afewerki, incapace di risollevare un’economia ridotta al collasso da mezzo secolo di continue guerre, ha scelto di mantenere uno stato di belligeranza con lo storico nemico etiopico.Il Paese è rimasto militarizzato, con uomini e donne a tutt’oggi tenuti a forza per otto o dieci anni nell’esercito in condizioni disumane, con città soggette a brutali rastrellamenti, senza alcuna speranza di lavoro, libertà o cambiamento. Per questo i giovani scappano, cercano di passare il confine e di raggiungere attraverso un infernale viaggio le coste della Libia, da dove tentare la traversata del Mediterraneo.Siamo così a un’altra notte fra il 2 e il 3 ottobre, questa volta del 2013, al barcone carico di ragazzi quasi tutti eritrei, disperati al punto da incendiare una coperta per segnalare la propria posizione, cosicché il precario natante prende fuoco e si rovescia al largo di Lampedusa. Le 368 vittime ne hanno fatto una delle più immani stragi di migranti fra le tante a cui assistiamo da anni, con uno stillicidio che ha trasformato in un cimitero subacqueo il Canale di Sicilia.
Fin troppo facile, se non pleonastico, evidenziare il rapporto fra le due date in questione. E farlo proprio oggi, mentre a Lampedusa, ancora una volta, con fedeltà, c’è chi ricorda quella strage in mare, a poche bracciate dalla nostra costa. E a chi fosse pronto a contestare i troppo diretti parallelismi, o reputi ingiustificato il senso di colpa dell’Italia e dell’intero Occidente verso i Paesi poveri, basterebbe ricordare il milione di morti in cui gli storici quantificano la presenza coloniale italiana in Africa, che in Eritrea è durata oltre mezzo secolo. Oppure mostrare le immagini degli ascari eritrei morti impugnando il tricolore con lo stemma sabaudo, accanto a quella delle centinaia di loro discendenti chiusi nelle bare messe in fila nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa, parimenti vittime ignare e innocenti di miseria, violenze e conflitti mossi da interessi altrui. (Alessandro Tamburini - Avvenire)
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R.I.
Giornata memoria vittime dell’immigrazione: dov’è tuo fratello?
Si celebra oggi la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita nel 2016, nel giorno di quel terribile naufragio del 3 ottobre 2013, nel quale persero la vita 368 persone, a pochi metri dall’Italia. Nello stesso anno, l’8 luglio, Francesco, all’inizio del suo pontificato, dedicò il suo primo viaggio da Papa, a Lampedusa per celebrare la Messa di suffragio per le vittime del mare. Nell’omelia di quel giorno risuonò nella piccola isola del Mediterraneo, porta d’Europa, la domanda del libro di Genesi che Dio rivolge a Caino,"Dov’è tuo fratello?".
Mi pare una significativa coincidenza che oggi in questa Giornata nazionale in cui si fa memoria delle vittime dell’immigrazione, il Papa ad Assisi firmi la sua terza enciclica dal titolo, Fratelli tutti, che verrà pubblicata domani, 4 ottobre. A Lampedusa papa Francesco ci ricordava che Adamo, dopo il peccato, perde il suo posto nella creazione e questo ingenera una serie di errori fino all’uccisione del proprio fratello.
L’ uomo vuole essere come Dio, vuole prendere il suo posto, è accecato dal potere e questo lo porta a spezzare anche quelle relazioni di fraternità che si trova a vivere e a guardare con sospetto l’altro che diventando nemico non è più fratello. In questa lunga catena di sangue si inseriscono anche tutte quelle morti di donne, bambini e uomini nei viaggi delle migrazioni, che in quasi 80 milioni di casi non sono scelti, ma forzati (come ci ricorda l’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). "Il Signore ci chiederà conto di tutti i migranti caduti nei viaggi della speranza. Sono stati vittime della cultura dello scarto", ricordava proprio papa Francesco il 23 agosto scorso all’Angelus.
Dov’è tuo fratello? Dove sono coloro che non solo non siamo capaci di chiamare fratelli, ma sono per tanti di noi migranti o stranieri, nella migliore delle ipotesi, irregolari o clandestini il più delle volte, perché non hanno diritto di cittadinanza, senza nome, senza volto, numeri vuoti, eccedenze di vite di scarto. In un mondo in cui la globalizzazione ci fa vicini, ma non ci rende fratelli, in cui è forte il rischio della globalizzazione dell’indifferenza, l’antidoto alla dimenticanza e al disinteresse verso uomini e donne in cerca di salvezza è il cammino della fratellanza. La cura della relazione con Dio, con gli uomini e le donne del nostro tempo e con il creato ci porta a sanare un mondo malato.
Fratelli tutti, nessuno escluso. Fratelli di tutte le fedi, forti della convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune come ci viene ricordato nel Documento sulla Fratellanza umana firmato nel 2019 ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar. La giornata della Memoria e dell’Accoglienza del 3 ottobre sia monito e invito a non dimenticare dov’è mio fratello,perché siamo tutti fratelli e sorelle. (Camillo Ripamonti - Avvenire)