6 Dicembre 2021 - Roma - In questa seconda domenica di Avvento Luca ci presenta Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti veterotestamentari, che inizia la sua attività nel deserto di Giuda: voce che grida nel deserto, che chiede che ogni monte e colle sia abbassato: “le vie tortuose diverranno dritte e quelle impervie, spianate”. Invito alla conversione, avvento di Dio nella storia umana.
Papa Francesco è in Grecia, ha visitato i migranti del campo profughi di Mitylene, prima di celebrare Messa nella Megaron Concert Hall di Atene. Anche la sua, oggi, è una voce che grida nel deserto, che chiama l’Occidente a non alzare muri di egoismo, a guardare i volti dei bambini che giocano tra i container del campo, che attraversano il Mediterraneo, diventato “mare mortuum”, cimitero senza lapidi: “troviamo il coraggio di vergognarci davanti a loro, che sono innocenti e sono il futuro. Interpellano le nostre coscienze e ci chiedono: ‘Quale mondo volete darci?’ Non scappiamo via frettolosamente dalle crude immagini dei loro piccoli corpi stesi inerti sulle spiagge”.
Il deserto di una Europa delle divisioni, che alza nuovi muri, che vive il naufragio di civiltà e l’arretramento della democrazia. Il deserto di chi ha una cecità interiore, che guarda al migrante come a un peso da gestire o da delegare agli altri.
Il paradosso del deserto, di un Dio che non parla ai potenti del tempo, ma sceglie un uomo “sconosciuto e solitario”. Dio sorprende, ricorda Francesco; “le sue scelte sorprendono: non rientrano nelle previsioni umane, non seguono la potenza e la grandezza che l’uomo abitualmente gli associa. Il Signore predilige la piccolezza e l’umiltà”.
Nell’Antico Testamento il deserto è il luogo decisivo dell’incontro con Dio, il luogo della prova e del rischio della fede, ma anche luogo dell’attenzione di Dio che dona l’acqua e fa scendere un pane dal cielo. Nel Nuovo Testamento è il luogo dove Giovanni può ascoltare la parola che diventa evento. Dio, allora come oggi, “volge lo sguardo dove dominano tristezza e solitudine. Possiamo sperimentarlo nella vita”, dice il Papa. “Egli spesso non riesce a raggiungerci mentre siamo tra gli applausi e pensiamo solo a noi stessi; ci riesce soprattutto nelle ore della prova. Ci visita nelle situazioni difficili, nei nostri vuoti che gli lasciano spazio, nei nostri deserti esistenziali”.
Non mancano momenti in cui si ha l’impressione di trovarsi in un deserto, ma è proprio lì che “si fa presente il Signore, il quale, spesso, non viene accolto da chi si sente riuscito, ma da chi sente di non farcela. E viene con parole di vicinanza, compassione e tenerezza”. Nella Chiesa, ricordava papa Benedetto XVI, “è sempre in atto una lotta tra il deserto e il giardino, tra il peccato che inaridisce la terra e la grazia che la irriga perché produca frutti abbondanti di santità”. Il tempo di Avvento è, dunque, tempo di ascolto della parola, capace di “raddrizzare le nostre vite”.
Ecco allora la seconda parola che Francesco consegna nella sua omelia: conversione. Tematica “scomoda” afferma; “come il deserto non è il primo luogo nel quale vorremmo andare, così l’invito alla conversione non è certamente la prima proposta che vorremmo sentire. Parlare di conversione può suscitare tristezza; ci sembra difficile da conciliare con il Vangelo della gioia”. Ma c’è un errore di fondo, afferma, perché questo accade “quando la conversione viene ridotta a uno sforzo morale, quasi fosse solo un frutto del nostro impegno”, quando ci basiamo “tutto sulle nostre forze”.
Convertirsi è “pensare oltre, cioè andare oltre il modo abituale di pensare, al di là dei nostri soliti schemi mentali. Penso proprio agli schemi che riducono tutto al nostro io, alla nostra pretesa di autosufficienza. O a quelli chiusi dalla rigidità e dalla paura che paralizzano, dalla tentazione del “si è sempre fatto così, perché cambiare?”, dall’idea che i deserti della vita siano luoghi di morte e non della presenza di Dio”. Convertirsi, allora, significa “non dare ascolto a ciò che affossa la speranza, a chi ripete che nella vita non cambierà mai nulla – i pessimisti di sempre. È rifiutare di credere che siamo destinati a affondare nelle sabbie mobili della mediocrità”. (Fabio Zavattaro – Sir)
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La Domenica del Papa: Chi è il cieco oggi?
25 Ottobre 2021 - Città del Vaticano - Cammino, strada. Parole che tornano nella narrazione dei Vangeli ma anche nella vita della Chiesa. A Taranto si è conclusa la 49ma Settimana sociale dei cattolici, mentre è iniziato, da alcuni giorni, ufficialmente, il cammino del Sinodo dei vescovi. Nel suo messaggio alla Settimana, papa Francesco propone tre segnali stradali: attenzione agli attraversamenti, divieto di sosta, e, soprattutto, obbligo di svolta. Segnali che vogliono dire cammino, strada da percorrere, attenzione all’altro. Cammino è anche una delle prime parole che Francesco pronuncia appena eletto, quando, affacciandosi alla loggia centrale della basilica vaticana, aveva parlato di inizio di un cammino, vescovo e popolo.
Cammino dunque. Marco, nel Vangelo, ci dice che Gesù è a Gerico, la città più antica al mondo, porta della Giudea, ultima tappa del cammino verso Gerusalemme; vi giunge con i suoi discepoli, ma subito parte, quasi a dire che non vi è nulla che possa trattenerlo in quel luogo. Invece, ecco che lo sguardo coglie un uomo che “sedeva lungo la strada a mendicare”: è il figlio di Timeo, Bartimeo, è cieco. In una società dell’immagine, l’idea del cieco del racconto evangelico ci fa dire: chi è il cieco oggi? Colui che non ha la vista, ma anche chi non usa la propria vista, chi dimentica l’uomo lasciato ai margini della strada.
In questa domenica, giornata missionaria, papa Francesco all’Angelus invita a guardare alle migliaia di migranti, rifugiati e altri bisognosi di protezione in Libia: “non vi dimentico mai - ha detto - sento le vostre grida e prego per voi". Parla di “veri lager” e chiede alla Comunità internazionale di "mantenere le promesse di cercare soluzioni comuni, concrete e durevoli"; ancora, di “dare priorità al soccorso di vite umane in mare con dispositivi di salvataggio e di sbarco prevedibile, garantire loro condizioni di vita degne, alternative alla detenzione, percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo".
Bartimeo rappresenta un po’ tutti noi, distratti come siamo dai nostri egoismi, sordi alle voci che un po’ ci disturbano perché chiedono accoglienza, attenzione. Voci di quelle moltitudini che affollano le strade d’Europa.
Grida Bartimeo: “figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Il cieco, ai tempi di Gesù, era considerato un peccatore, e non era bene stare troppo vicino a chi è tale. Grida, dunque, Bartimeo perché non può perdere l’occasione di incontrare questo guaritore, figlio di Davide. Molti lo rimproveravano perché tacesse, ci racconta Marco. Il Signore, invece, chiede ai suoi di andarlo a chiamare: è la “medicina della misericordia” nell’espressione di papa Roncalli. I discepoli lo chiamano dicendo “coraggio, alzati”. E lui non ha dubbi: si alza e lascia l’unica cosa preziosa che possiede, il mantello per ripararsi dal freddo.
A Bartimeo Gesù rivolge una domanda che tutto sommato possiamo ritenere inutile, perché egli sa cosa vuole il povero che ha di fronte: che cosa vuoi che io faccia per te? La risposta è semplice, essenziale: “abbi pietà di me, abbi pietà di tutto ciò che sono”. Bartimeo è cieco, la sua vita dipende dalla generosità degli altri. Alla gente chiede spiccioli, a “colui che può tutto, chiede tutto”, dice Francesco; chiede “misericordia per la sua persona, per la sua vita. Non è una richiesta da poco, ma è bellissima, perché invoca la pietà, cioè la compassione, la misericordia di Dio, la sua tenerezza”. Al Signore manifesta tutto, “la sua cecità e la sua sofferenza”; la cecità era la “punta dell’iceberg, ma nel suo cuore ci saranno state ferite, umiliazioni, sogni infranti, errori, rimorsi”.
Così il Papa chiede di riflettere sulla nostra preghiera personale: “mettiamo nella preghiera anche la nostra propria storia, le ferite, le umiliazioni, i sogni infranti, gli errori, i rimorsi?” Ancora, “è coraggiosa, ha l’insistenza buona di quella di Bartimeo, sa “afferrare” il Signore che passa, oppure si accontenta di fargli un salutino formale ogni tanto, quando mi ricordo? Quelle preghiere tiepide che non aiutano per niente”. Quando la fede è viva, afferma ancora Francesco, “la preghiera è accorata: non mendica spiccioli, non si riduce ai bisogni del momento”. Gesù “non vede l’ora di riversare la sua grazia e la sua gioia nei nostri cuori”, ma “siamo noi a mantenere le distanze” per “timidezza, pigrizia, incredulità”. (Fabio Zavattaro - Sir)
La domenica del Papa: immergersi nella vita degli altri
18 Ottobre 2021 - Città del Vaticano - Per ben due volte Gesù deve ricordare ai suoi il tema del servizio, e della netta incompatibilità con il potere. Nelle letture non è difficile vedere una tentazione che anima il nostro tempo, e che Marco mette in primo piano nella richiesta dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, quando chiedono a Gesù di essere scelti per sedere uno alla sua destra l’altro alla sua sinistra nel Regno di Dio.
“Come fossero primi ministri, una cosa del genere”, afferma papa Francesco all’Angelus, davanti a oltre 20 mila persone. Una richiesta, quella di Giacomo e Giovanni, che, come dire, porta alla mente la categoria degli arrivisti, arrampicatori sociali, di coloro che per far carriere sono disposti a passare sulla testa degli altri. Tentazione che si oppone alla logica del servizio che anima la via di Gesù: “la vera gloria – afferma il Papa – non si ottiene elevandosi sopra gli altri, ma vivendo lo stesso battesimo che egli riceverà, di lì a poco, a Gerusalemme, cioè la croce”.
Il profeta Isaia, è la prima lettura, descrive la figura del servo di Jahwé: “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”. Ecco il grande paradosso: non è brigando per ottenere potere e successo che si distingue il discepolo. È la logica delle beatitudini. Don Tonino Bello diceva: “non abbiamo più i segni del potere. Se noi potessimo risolvere tutti i problemi degli sfrattati, dei drogati, dei marocchini, dei terzomondiali, i problemi di tutta questa povera gente, se potessimo risolvere i problemi dei disoccupati, allora avremmo i segni del potere sulle spalle. Noi non abbiamo i segni del potere, però c'è rimasto il potere dei segni, il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia”.
Torniamo al Vangelo di Marco. Siamo di fronte a due logiche diverse: i discepoli vogliono emergere e Gesù vuole immergersi. Francesco si sofferma su questi due verbi. Il primo, emergere, esprime quella mentalità mondana da cui siamo sempre tentati: vivere tutte le cose, perfino le relazioni, per alimentare la nostra ambizione, per salire i gradini del successo. “La ricerca del prestigio personale può diventare una malattia dello spirito, mascherandosi perfino dietro a buone intenzioni”. C’è il rischio, per il Papa, di inseguire solo “la nostra affermazione”. Succede anche nella Chiesa, quando “noi cristiani, che dovremmo essere i servitori, cerchiamo di arrampicarci, di andare avanti”. La domanda che dobbiamo porci allora è: “perché porto avanti questo lavoro, questa responsabilità? Per offrire un servizio oppure per essere notato, lodato e ricevere complimenti?”.
Contro questa logica mondana Gesù contrappone la sua: “invece di innalzarsi sopra gli altri, scendere dal piedistallo per servirli; invece di emergere sopra gli altri, immergersi nella vita degli altri”. Così chiede di “preoccuparsi della fame degli altri, preoccuparsi dei bisogni degli altri, che dopo la pandemia sono aumentati. Guardare e abbassarsi nel servizio, e non cercare di arrampicarsi per la propria gloria”.
Allora, come immergersi, si chiede il Papa: “con compassione, nella vita di chi incontriamo”. Pensiamo a chi “lavora e non riesce ad avere il pasto sufficiente per tutto il mese”. Avere compassione, “non è un dato di enciclopedia: ci sono tanti affamati, sono persone”. Gesù “si è avvicinato con compassione”, e si è “immerso fino in fondo nella nostra storia ferita […] non è rimasto lassù nei cieli, a guardarci dall’alto in basso, ma si è abbassato a lavarci i piedi”. Certo serve impegno, afferma Francesco, “serve impegno, ma non basta”. Da soli è difficile, però abbiamo dentro una forza che ci aiuta: il battesimo”.
Del servire ha parlato anche in basilica nell’omelia per l’ordinazione di due nuovi vescovi, tra cui il suo cerimoniare, monsignor Marini. A loro raccomanda quattro vicinanze: vicinanza a Dio nella preghiera; vicinanza agli altri vescovi, “mai sparlare dei fratelli vescovi, mai”; vicinanza ai sacerdoti; e, infine, “vicinanza al santo popolo fedele di Dio”. (Fabio Zavattaro - Sir)
La domenica del Papa: il vero volto di Dio “è amore e accoglienza”
11 Ottobre 2021 - Città del Vaticano - “Per la strada”, scrive Marco nel suo Vangelo. Lungo la strada che sale a Gerusalemme, percorsa da Gesù e dai suoi discepoli, avviene un incontro: un giovane ricco – “possedeva molti beni”, leggiamo nella pagina del capitolo 10 – gli corre incontro, si inginocchia e lo chiama “maestro buono”. Un giovane. Non ha un nome quell’uomo, è solo un tale ed è molto ricco. Tutto qui, il denaro si è mangiato il suo nome, per tutti è semplicemente il giovane ricco. Nel Vangelo altri ricchi hanno incontrato Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. E hanno un nome perché il denaro non era la loro identità. Che cosa hanno fatto di diverso questi, che Gesù amava, cui si appoggiava con i dodici? Hanno smesso di cercare sicurezza nel denaro e l'hanno impiegato per accrescere la vita attorno a sé. È questo che Gesù intende: tutto ciò che hai donalo ai poveri. Più ancora che la povertà, la condivisione. Più della sobrietà, la solidarietà.
Nella domenica in cui Francesco apre, in San Pietro, la XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, un percorso che vedrà le chiese impegnate fino a ottobre 2023 – non una “convention ecclesiale”, o un “convegno di studi”, ma un cammino fatto di incontro, ascolto reciproco e discernimento - ecco che torna l’immagine del camminare, la strada. L’incontro avviene, come leggiamo in Marco, per la strada: Gesù “si affianca al cammino dell’uomo e si pone in ascolto delle domande che abitano e agitano il suo cuore”. In questo modo, afferma papa Francesco nell’omelia in San Pietro, “ci svela che Dio non alberga in luoghi asettici, in luoghi tranquilli, distanti dalla realtà, ma cammina con noi e ci raggiunge là dove siamo, sulle strade a volte dissestate della vita”.
Se i padri conciliari, nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, hanno voluto scrivere che la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, ecco l’Assemblea dei vescovi, dal titolo “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, si pone lungo questa prospettiva perché fare Sinodo “significa camminare sulla stessa strada, camminare insieme”. In perfetto stile ignaziano, Francesco suddivide la sua riflessione – “un test sulla mia fede” – in tre diversi momenti, a partire dalla domanda del giovane: “che cosa devo fare per avere la vita eterna?”; e sottolinea, in primo luogo, l’aspetto commerciale della richiesta del giovane: “dover fare”, “per avere”. La religiosità del giovane, dice Francesco è “un dovere, un fare per avere; ‘faccio qualcosa per ottenere quel che mi serve’”. Ecco il “rapporto commerciale con Dio, il do ut des. La fede, invece, non è un rito freddo e meccanico, un ‘devo-faccio-ottengo’. È questione di libertà e di amore”. Se la fede, dice il Papa “è principalmente un dovere o una moneta di scambio, siamo fuori strada, perché la salvezza è un dono e non un dovere, è gratuita e non si può comprare. La prima cosa da fare è liberarci di una fede commerciale e meccanica, che insinua l’immagine falsa di un Dio contabile, un Dio controllore, non padre”.
Il passo del Vangelo ci dice anche che Gesù prima ancora di chiamare alla sequela – “va', vendi quello che hai, dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi” – ama colui che invita a essere suo discepolo: “fissò lo sguardo su di lui, lo amò”. Il vero volto di Dio “è amore e accoglienza”. Ecco da dove “nasce e rinasce la fede: non da un dovere, non da qualcosa da fare o pagare, ma da uno sguardo di amore da accogliere”.
Infine, dono e gratuità. Forse è quello che manca anche a noi, dice il vescovo di Roma.
“Spesso facciamo il minimo indispensabile, mentre Gesù ci invita al massimo possibile. Quante volte ci accontentiamo dei doveri – i precetti, qualche preghiera e tante cose così – mentre Dio, che ci dà la vita, ci domanda slanci di vita”.
“Una fede senza dono e gratuità è incompleta è una fede debole, ammalata. Potremmo paragonarla a un cibo ricco e nutriente a cui però manca sapore, o a una partita ben giocata ma senza gol”. Una fede “senza dono, senza gratuità, senza opere di carità alla fine rende tristi”. Non una cosa meccanica, non un “rapporto di divere o di interesse con Dio”, ma dono da alimentare “lasciandomi guardare e amare da Gesù”. (Fabio Zavattaro - Sir)
La domenica del Papa: fragilità, momento di crescita
4 Ottobre 2021 - Città del Vaticano - Gesù si indigna, leggiamo in Marco, e subito il nostro pensiero va alle domande capziose dei farisei, che non perdono occasione per metterlo alla prova. Così questa domenica, con la norma mosaica del ripudio, la liceità del divorzio; norma che è stata scritta da Mosè “per la durezza del vostro cuore”, risponde loro il Signore. Si indigna invece con i suoi discepoli; si indigna, dice papa Francesco all’Angelus, “non con chi discute con lui, ma con chi, per sollevarlo dalla fatica, allontana da lui i bambini”. Nei Vangeli, il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente; di chi deve fare affidamento non sulle proprie forze, ma su ciò che deve attendere e ricevere da altri. Due domeniche fa, Marco, nel suo Vangelo, ci ricordava come Gesù, preso un bambino “lo pose in mezzo”, cioè al centro della comunità, come simbolo della vita nuova.
Chi cerca Dio, afferma papa Francesco, lo trova “nei piccoli, nei bisognosi: bisognosi non solo di beni, ma di cura e di conforto, come i malati, gli umiliati, i prigionieri, gli immigrati, i carcerati”. E aggiunge: “chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”. Riflessione sulla piccolezza come via per accogliere il Signore. “Il discepolo – ha detto il Papa – non deve solo servire i piccoli, ma riconoscersi lui stesso piccolo. È il primo passo per aprirci al Signore. Spesso, però, ce ne dimentichiamo. Nella prosperità, nel benessere, abbiamo l’illusione di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di non aver bisogno di Dio. Dobbiamo cercare la nostra piccolezza e riconoscerla. Lì troveremo Gesù”. Gesù si indigna perché “ogni affronto fatto a un piccolo, a un povero, a un bambino, a un indifeso, è fatto a lui”, ci ricorda il Papa.
Riconoscersi piccoli “punto di partenza per diventare grandi”. Cresciamo, dice ancora il Vescovo di Roma, “non tanto in base ai successi e alle cose che abbiamo, ma soprattutto nei momenti di lotta e di fragilità. Lì, nel bisogno, maturiamo; lì apriamo il cuore a Dio, agli altri, al senso della vita”. Dobbiamo aprire gli occhi, afferma papa Francesco all’Angelus: “quando ci sentiamo piccoli di fronte a un problema, piccoli di fronte a una croce, a una malattia, quando proviamo fatica e solitudine, non scoraggiamoci. Sta cadendo la maschera della superficialità e sta riemergendo la nostra radicale fragilità: è la nostra base comune, il nostro tesoro, perché con Dio le fragilità non sono ostacoli, ma opportunità”. Dal Papa anche l’invito a una “bella preghiera: Signore, guarda le mie fragilità; elencale davanti a lui. Questo è un buon atteggiamento davanti a Dio. Infatti, proprio nella fragilità scopriamo quanto Dio si prende cura di noi”.
Contrarietà e situazioni che rivelano la nostra fragilità sono “occasioni privilegiate” per fare esperienza dell’amore del Signore che “ci stringe a sé, come un papà con il suo bambino”; la cui tenerezza “si fa ancora più presente” proprio “nei momenti bui o di solitudine”. Diventiamo grandi, afferma il Papa, “non nell’illusoria pretesa della nostra autosufficienza – questo non fa grande nessuno – ma nella fortezza di riporre nel Padre ogni speranza. Proprio come fanno i piccoli”. Accogliere nella piccolezza, dunque, senza fare affidamento sulle proprie forze. Dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo, è il Regno di Dio.
Dono, accoglienza. Parole chiave delle letture di questa domenica: la Genesi, la lettera agli Ebrei, il Vangelo di Marco. Così nel primo libro della Bibbia, dove l’alterità tra uomo e donna, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione, unità nella differenza – “i due saranno un’unica carne” – e segno dell’alleanza, del rapporto con il creatore. Anche la donna, nata dalla costola di Adam addormentato, è dono, anzi aiuto, nelle parole di Dio. In un tempo in cui troppo spesso la donna è vittima di violenza, proviamo a soffermarci sulle parole del Talmud che Roberto Benigni ha letto, tra applausi e commozione, sette anni fa: “State molto attenti a non far piangere una donna: che poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell'uomo, non dai suoi piedi perché dovesse essere pestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale... un po' più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata”. (Fabio Zavattaro – Sir)
La Domenica del Papa
27 Settembre 2021 - Città del Vaticano - Quattro verbi nelle parole di Papa Francesco all’Angelus, domenica in cui si celebra la Giornata del migrante e del rifugiato: chiudere, dividere, escludere e giudicare. Marco, nel suo Vangelo, ci fa riflettere sul significato di essere discepoli di Gesù, di essere cioè parte di una comunità nella quale riconoscersi e camminare assieme; cammino di crescita e maturazione, senza chiusure “Verso un noi sempre più grande”, tema della Giornata.
Tempo complesso in cui i segni sono troppi e spesso confusi, un mondo povero di certezze stabili e di conseguenza forte è la difficoltà di prendere decisioni che vadano nella giusta direzione. Il rischio è quello di chiudersi a riccio di fronte alle novità e alle paure. Le letture di questa domenica ci offrono dei criteri guida: Giacomo, nella sua lettera, pronuncia una dura critica verso coloro che abusano del potere e dei soldi per opprimere i poveri e gli ultimi. Non è la prima volta che Francesco chiede maggiore attenzione per coloro che sono esclusi, scartati, in una società dove sempre più ampia è la forbice delle diseguaglianze. Così nel brano dei Numeri, e nel Vangelo, ci viene chiesto di non essere mai invidiosi della generosità divina, mai considerare il dono di Dio un privilegio esclusivo.
I discepoli impediscono a un uomo di scacciare i demoni solo perché non fa parte del loro gruppo; come dire, hanno paura della ‘concorrenza’. Ma il Signore li invita non ostacolare chi si adopera per il bene “perché concorre a realizzare il progetto di Dio”, spiega papa Francesco, che aggiunge: “invece di dividere le persone in buone e cattive, tutti siamo chiamati a vigilare sul nostro cuore, perché non ci succeda di soccombere al male e di dare scandalo agli altri”. I discepoli, commenta, “pensano di avere l’esclusiva su Gesù”, si sentono “prediletti e considerano gli altri come estranei”.
Ogni chiusura esclude l’altro, “chi non la pensa come noi”, e questo “è la radice di tanti mali della storia: dell’assolutismo che spesso ha generato dittature e di tante violenze nei confronti di chi è diverso”. Anche nella Chiesa c’è il rischio – opera del diavolo, del divisore – di creare gruppi che credono di detenere la verità, e così “invece di essere comunità umili e aperte, possiamo dare l’impressione di fare ‘i primi della classe’ e tenere gli altri a distanza”. Francesco dice ‘no’ alla “patente di credenti”, invece che “cercare di camminare con tutti”. No a una appartenenza che escluda l’altro: “questo è un peccato. Esibire la ‘patente di credenti’ per giudicare ed escludere”. No a comunità cristiane “luoghi di separazione e non di comunione. Lo Spirito Santo non vuole chiusure; vuole apertura, comunità accoglienti dove ci sia posto per tutti”. Attenti a giudicare tutto e tutti, “il rischio è quello di essere inflessibili verso gli altri e indulgenti verso di noi”. Francesco chiede così a Dio che ci “preservi dalla mentalità del ‘nido’, quella di custodirci gelosamente nel piccolo gruppo di chi si ritiene buono: il prete con i suoi fedelissimi, gli operatori pastorali chiusi tra di loro perché nessuno si infiltri, i movimenti e le associazioni nel proprio carisma particolare”. Le difficoltà, i problemi nascono proprio nel momento in cui ci lasciamo vincere dalla paura dell’altro, delle diversità, delle differenze; quando, convinti di essere nella verità, allontaniamo il nostro prossimo; quando ci poniamo su un piedistallo perché convinti di essere superiori.
Dopo la recita della preghiera mariana dell’Angelus, Francesco rivolge la sua attenzione alla Giornata del migrante e del rifugiato, occasione per aggiungere un quinto verbo: accogliere. È appena il caso di ricordare che il primo viaggio da Papa, poco dopo la sua elezione, è stato nell’isola di Lampedusa, luogo simbolo della “globalizzazione dell’indifferenza”. Così chiede di “camminare insieme, senza pregiudizi e senza paure, ponendosi accanto a chi è più vulnerabile: migranti, rifugiati, sfollati, vittime della tratta e abbandonati. Siamo chiamati a costruire un mondo sempre più inclusivo, che non escluda nessuno”. Poi l’invito a avvicinarsi al monumento, sul lato sinistro del colonnato, la barca con i migranti, soffermandosi sullo sguardo di quelle persone, “e a cogliere in quello sguardo la speranza che oggi ha ogni migrante di ricominciare a vivere”. (Fabio Zavattaro – Sir)
Servire, liberi dalla tentazione del potere
20 Settembre 2021 - Città del Vaticano - Per la strada, lungo la via; parole che ricorrono spesso nella narrazione di Marco. Immagine reale come la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli. Questa domenica l’evangelista racconta che Gesù e i dodici stanno attraversando la Galilea per fermarsi a Cafarnao. Immagine simbolica dell’itinerario che ogni singolo deve compiere per essere definito un discepolo del Signore. È lungo la via che il discepolo impara a camminare sulle tracce del Cristo, ne conosce il volto, il segreto del suo cammino, la meta cui tende tutta la sua vita. È lungo la via che il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua fragilità, e capisce che il Signore sempre cammina avanti.
Anche in questa pagina del Vangelo si affaccia la debolezza umana. Gesù, scrive Marco, aveva raccontato ai suoi discepoli, per la seconda volta, cosa accadrà al figlio dell’uomo: “viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Parole oscure per quanti lo seguivano. Consegnare, uccidere, risorgere: è in questi tre verbi che si riassume la vicenda pasquale di Gesù, e che nella Bibbia troviamo nelle storie dei profeti, inviati da Dio per comunicare la sua parola agli uomini. Avvenimenti incomprensibili per i discepoli, che, infatti, discutono, “per la strada”, non di quanto hanno ascoltato dal maestro, ma di chi tra loro è il primo, il più importante. Così una volta giunti nella casa a Cafarnao, per la vergogna lasciano senza risposta la domanda di Gesù: “di cosa stavate discutendo per la strada?”. Ancora una volta il Signore stravolge la logica umana e dice loro: essere più grande non vuol dire prevalere sull’altro. “Il valore di una persona – ricorda papa Francesco all’Angelus – non dipende più dal ruolo che ricopre, dal successo che ha, dal lavoro che svolge, dai soldi in banca”. Ciò che conta è essere segno concreto per il prossimo, perché “la grandezza e la riuscita, agli occhi di Dio, hanno un metro diverso: si misurano sul servizio. Non su quello che si ha, ma su quello che si dà. Vuoi primeggiare? Servi. Questa è la strada”. La parola servizio, oggi “un po’ sbiadita, logorata dall’uso”, ha un significato “preciso e concreto”, e non è una “espressione di cortesia”. Servire è camminare lungo la strada segnata da Gesù: “la nostra fedeltà al Signore dipende dalla nostra disponibilità a servire”. E questo costa, dice il Papa, “sa di croce”, ma crescendo la “cura e la disponibilità verso gli altri” si diventa più liberi. “Più serviamo, più avvertiamo la presenza di Dio. Soprattutto quando serviamo chi non ha da restituirci, i poveri, abbracciandone le difficoltà e i bisogni con la tenera compassione: e lì scopriamo di essere a nostra volta amati e abbracciati da Dio”.
Marco, nel Vangelo, ci offre una immagine che più di tante parole ci fa capire come il Signore legge il potere: l’immagine di un bambino, piccolo, probabilmente povero; uno scarto potremmo dire con il linguaggio di Francesco. Quel bambino è innalzato come risposta alla discussione “per la strada” degli apostoli.
Nel Vangelo, “il bambino non simboleggia tanto l’innocenza, quanto la piccolezza. Perché i piccoli, come i bambini, dipendono dagli altri, dai grandi, hanno bisogno di ricevere. Gesù abbraccia quel bambino e dice che chi accoglie un piccolo, un bambino, accoglie lui”. Si deve servire, evidenzia Francesco, soprattutto “coloro che hanno bisogno di ricevere e non hanno da restituire. Accogliendo chi è ai margini, trascurato, accogliamo Gesù. E in un piccolo, in un povero che serviamo riceviamo anche noi l’abbraccio tenero di Dio”.
È la chiesa del grembiule cara a don Tonino Bello. Essere il più grande, per Gesù, non è porsi sopra gli altri, sgomitare, ma essere ai piedi dell’altro.
Servire significa essere liberi dalla tentazione del potere. Così Francesco pone domande – “che noi possiamo farci” – ai fedeli: “seguo Gesù, mi interesso a chi è più trascurato? Oppure, come i discepoli quel giorno, vado in cerca di gratificazioni personali?”. Ancora: “intendo la vita come una competizione per farmi spazio a discapito degli altri […] dedico tempo a qualche ‘piccolo’, a una persona che non ha i mezzi per contraccambiare? Mi occupo di qualcuno che non può restituirmi o solo dei miei parenti e amici?”. (Fabio Zavattaro – Sir)