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Milano - Poche settimane prima che scoppiasse l’emergenza Covid 19, Silvia S. ha avuto bisogno di un’assistente per il padre anziano appena dimesso dall’ospedale: «Abbiamo fatto una prova con una ragazza moldava da poco in Italia e ai primi di marzo ha iniziato a lavorare con noi». Maria (abbiamo deciso di chiamarla così) però è irregolare. O meglio, lo era quando ha incontrato Silvia e la sua famiglia: «Abbiamo subito aderito alla regolarizzazione, il 30 luglio abbiamo presentato la domanda». Otto mesi dopo Silvia e Maria stanno ancora aspettando la convocazione dalla Prefettura di Milano per completare il percorso di emersione.
Otto mesi durante i quali non sono mancate le difficoltà: «All’Asl non ci hanno dato la tessera sanitaria per Maria, abbiamo dovuto insistere per fargliela avere. Anche il codice fiscale provvisorio che le hanno dato ha creato dei problemi – racconta Silvia –. Maria ha due figli piccoli nel suo Paese, non li vede da più di un anno e non può uscire dall’Italia fino a quando non avrà il permesso di soggiorno. Sta persino pensando di rinunciare al lavoro e tornare in Moldavia se la situazione non si risolverà in tempi brevi».
Quella di Maria è una delle 200mila vite sospese tra i cittadini stranieri che hanno aderito alla procedura di emersione lanciata dal Governo nel maggio 2020. La denuncia sui ritardi lanciata da 'Ero Straniero' sta producendo i primi risultati, visto che al 6 aprile sono diventate 16.781 le domande definite positivamente (1.783 i dinieghi, 594 le rinunce) e nel frattempo sono state operate assunzioni di personale a tempo determinato per sbrigare più pratiche: finora su 800 individuati, ne sono stati assunti 492.
Ciononostante, la regolarizzazione va avanti piano. Una situazione che sta causando seri disagi ai lavoratori 'emergenti' come Manuel, peruviano: da novembre 2019 lavora come badante per una persona anziana, che però poche settimane fa gli ha annunciato di voler interrompere il rapporto di lavoro. «Anche se il datore di lavoro si è impegnato a completare l’iter, Manuel dovrà affrontare una serie di problemi – racconta Edda Pando, dello sportello Arci 'Todo Cambia' di Milano –. Non potrà avviare un altro contratto regolare fino a quando non sarà completata la procedura: ha due figli da mantenere e sarà costretto a lavorare in nero. Inoltre, ha già versato un anno e mezzo di contributi, ma se verrà licenziato non potrà ricevere il sussidio di disoccupazione». Anche Emma lavora come badante da gennaio 2020: «La sua datrice di lavoro ha presentato domanda per la regolarizzazione impegnandosi a sottoscrivere il contratto in un secondo momento, una possibilità prevista dalla norma, ma non lo ha ancora fatto – spiega Edda Pando –. Inoltre, minaccia di non presentarsi in prefettura per completare l’iter ricattando Emma, che vorrebbe cambiare lavoro ma non può farlo». Molto frequenti sono anche i casi in cui il datore di lavoro è deceduto e il 'regolarizzando' si trova in un limbo. «Non può instaurare un nuovo rapporto di lavoro fino a quando non si è concluso l’iter. Inoltre, il lavoratore avrebbe diritto alla disoccupazione: il problema è che non si riesce a inviare la richiesta» sintetizza Carla Puccilli, del patronato Acli di Milano. «Se una procedura pensata per durare pochi mesi si prolunga all’infinito genera molti problemi – aggiunge l’avvocato Francesco Mason, che sta seguendo diversi casi tra Venezia, Padova e Treviso –. La domanda di emersione dovrebbe permettere di ottenere qualsiasi diritto legato alla condizione di lavoratore ma, di fatto, molti uffici non la accettano. Un mio cliente, ad esempio, aveva la necessità della patente per raggiungere la sede di lavoro, ma la motorizzazione gli ha negato la possibilità di fare l’esame». Un ulteriore elemento che complica le pratiche di emersione è la richiesta di attestare l’idoneità alloggiativa da parte di chi ha presentato la domanda di adesione, pena il rigetto della stessa: «Molte persone che hanno fatto domanda di emersione risiedono in Cas che non sono in grado di fornire questo documento – spiega ancora Mason –. Lo stesso vale per chi viene ospitato da amici o condivide una stanza con altre persone. Chiedere l’idoneità alloggiativa a una persona che sta facendo una domanda di emersione non ha senso se consideriamo l’obiettivo della procedura di far emergere persone irregolarmente soggiornanti in Italia, che spesso si trovano in situazioni abitative precarie». (Ilaria Sesana – Avvenire)
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La doppia sfida degli imprenditori stranieri
Milano - Tornare nel Paese di origine per mettere a frutto quello che si è imparato in Italia, o per realizzare un’idea rimasta troppo a lungo nel limbo delle buone intenzioni. Oppure mettere alla prova il proprio spirito imprenditoriale sul mercato italiano. Sono le aspirazioni di molti migranti di origine africana, che hanno trovato una sponda in un programma di formazione e mentoring finanziato dalla Commissione Europea all’interno del progetto Bite ( Building Integration Through Entrepreneurship) e realizzato in Italia da Etimos Foundation in collaborazione con Fondazione Ismu e E4Impact. Si va da chi vuole aprire in Italia un fast food di prodotti africani a chi punta ad avviare una residenza per anziani in Camerun, un allevamento di pollame in Burkina Faso, o infine importare dal Senegal anacardi biologici prodotti dall’azienda di famiglia. Ma per dare gambe a queste idee bisogna acquisire una capacità imprenditoriale, conoscere le normative, districarsi nei meandri della burocrazia. Ai candidati selezionati è stata offerta la possibilità di partecipare a corsi di formazione a Milano e Padova, grazie ai quali hanno imparato a formulare un business plan e ad acquisire le competenze necessarie sotto la guida di esperti che li hanno accompagnati passo dopo passo a costruire un trampolino da cui spiccare il salto nel mondo dell’ intrapresa. «Sono molti i migranti di origine africana residenti in Italia da lungo tempo che associano uno spirito imprenditoriale a una grande determinazione e possono diventare incubatori di lavoro, qui o nei Paesi di origine, dove molti vorrebbero tornare per contribuire allo sviluppo delle loro terre – spiega Marco Santori, presidente di Etimos Foundation –. I corsi che abbiamo organizzato, della durata di un anno e mezzo, hanno rappresentato per loro una sorta di 'scuola d’impresa' che ha offerto conoscenze ed expertise per dare solidità alle aspirazioni che li animano». (G. Paolucci - Avvenire)
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Raffaele Iaria