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E’ morto Pier Giorgio Liverani, già direttore di “Avvenire”

7 Settembre 2022 - Roma - Si è spento ieri sera, nella sua casa a Roma, all'età di 93 anni, Pier Giorgio Liverani. Giornalista e scrittore ha diretto il quotidiano "Avvenire" dal 1981 al 1983. Per lo stesso giornale è stato un editorialista curatore e autire della rubrica  Controstampa. I funerali a Roma domani alle 15,30 nella chiesa di Santa Francesca Cabrini. Alla famiglia la vicinanza della nostra testata. (R.I.)

Migrantes Abruzzo Molise rilancia la Campagna “Lanterne Verdi”

29 Dicembre 2021 - Pescara - Il Servizio Migrantes regionale della Conferenza Episcopale Abruzzese e Molisana rilancia ed affida alla libertà delle comunità locali l’iniziativa “Lanterne Verdi” sposata dal quotidiano Avvenire. Recepisce la dichiarazione di accompagnamento all’iniziativa della Fondazione Migrantes della CEI. "La campagna Lanterne Verdi rappresenta un ulteriore occasione per richiamare l’attenzione sul mondo della migrazione oggi e per ricordare i Diritti fermati alle frontiere di alcuni Paesi europei. Sono i Diritti di persone in fuga perché la loro casa è stata distrutta dalle guerre e dai disastri naturali, da torture e violenze: persone che hanno perso tutto. Sono i Diritti di 84 milioni di persone. Per loro il semaforo è sempre rosso. Nessuno può passare, cercare la libertà, la sicurezza e la pace che sono Diritti per ogni persona, ogni famiglia" scrivono mons. Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne e e incaricato dei vescovi di Abruzzo-Molise per la Migrantes e la direttrice regionale Migrantes Lidia Di Pietro. Per i migranti "non c’è posto. Alle frontiere della nostra 'casa comune', l’Europa - aggiungono in una nota -  si soffre, si muore di fame e di freddo: si muore anche di delusione e di disperazione. Il Mediterraneo, la nostra frontiera con il continente africano è un cimitero senza lapidi, come ha ricordato Papa Francesco. Alle frontiere dell’Europa si sono alzati 10 muri e i sono chiuse le porte ai Diritti, alla Democrazia". Con l’adesione alla campagna "Lanterne  Verdi" la Migrantes Abruzzo-Molise invita "ad accendere la luce verde al semaforo delle frontiere, così che cessi la sofferenza, la morte e siano tutelati i diritti di chi è in cerca di asilo, di protezione e di sicurezza". (R.I.)  

Avvenire: la sede di Milano illuminata di verde

23 Dicembre 2021 - Milano - La sede del quotidiano Avvenire è illuminata di verde. L'iniziativa - che durerà fino al 10 gennaio - nell'ambito della campagna "Diamo luce alla solidarietà" nata sulle pagine del giornale cattolico e alla quale hanno aderito cittadini, movimenti, associazioni e anche la Fondazione Migrantes (https://www.migrantesonline.it/2021/12/20/migrantes-accendere-la-luce-verde-al-semaforo-delle-frontiere/): accendere una luce verde alle finestre, sui balconi, sui presepi e sugli alberi natalizi, in segno di solidarietà alle migliaia di migranti costretti a vivere nelle aree di confine tra la Bielorussia e Polonia e Lituania. La lanterna verde, simbolo della campagna,  è dall'avvio, disegnata sulla testata cartacea e online del quotidiano diretto da Marco Tarquinio.

Vera libertà è fraternità

14 Settembre 2021 - Come un saggio importante, che intreccia attualità e memoria per provare a pensare il domani, il viaggio di papa Francesco a Budapest e in Slovacchia può essere letto a capitoli. Ognuno in se stesso un valore e una sfida: pace, fraternità, dialogo, cultura dell’incontro, contemplazione, vita attiva. A tenerli insieme, filo rosso prezioso e fragile, l’educazione alla libertà, un bene tanto difficile da conquistare e riconquistare, quant’è semplice perderlo o abbruttirlo in una sua distorsione. La storia è piena zeppa di spazi di confronto ridotti a fortino e anche i cortili più ampi, se li circondi di spine intrecciate tra loro e pezzi di vetro, diventano prigioni. Il rischio è grande soprattutto in quelle realtà dove il terrore e i totalitarismi hanno puntato in primis sull’asservimento delle coscienze, lasciandosi dietro un’eredità di paura su cui oggi cattivi maestri possono elaborare nuove-vecchie frontiere di divisione. E il pensiero va subito alle politiche di chiusure nei confronti di rifugiati e profughi, la cui ragione è da ricercare nella volontà di blindare una «cosiddetta identità», come l’ha chiamata il Papa a Budapest, considerata a rischio e per questo da picchettare in «una rigida difesa». Non che la fede cristiana non sia attaccata, ha più volte ribadito Francesco, ma qui si tratta di individuare con chiarezza gli avversari, senza lanciare accuse 'nel mucchio', a maggior ragione verso uomini e donne che già hanno pagato prezzi intollerabili all’odio, evitando al tempo stesso di mettersi al servizio di chi, mascherato dietro una presunta difesa di interessi nazionali o identitari, crea nuovi egoismi e piccona il senso sociale. In proposito, nel discorso ai vescovi ungheresi il Papa è stato chiaro: anche se inizialmente può fare un po’ paura, la diversità rappresenta una grande opportunità per aprirsi al cuore del messaggio evangelico, che è una chiamata all’amore. Detto in un altro modo, la croce di Cristo, mentre esorta a mantenere salde le radici, invita ad aprirsi agli assetati del nostro tempo. Cioè a bagnare e quindi restituire vita a tutte le aridità di oggi, a cominciare dall’animo che si spegne quando non sa più riconoscere nell’altro un fratello. Un pericolo presente ovunque, non solo nell’Oriente d’Europa, ma che qui, forse per un retaggio culturale, forse a causa di storiche, ingiuste penalizzazioni economico-sociali, appare più rimarcato. Dietro la porta, a bussare ogni giorno con maggiore forza c’è infatti il rischio di deturpare il volto della libertà, che per sua natura cresce nella partecipazione e nel sentire comunitario, trasformandolo in corse solitarie o in cooperazioni tra gruppi più o meno grandi, che dall’oggi al domani possono peraltro cambiare linea e scoprirsi nemici. La tentazione allora, pur se non detta, non formalizzata, e forse neppure riconosciuta davvero, è quella di ritrovarsi in balìa di un nemico per certi versi peggiore della persecuzione ateista, una schiavitù che viene da dentro, tutta interiore. Subdola, pericolosa in quanto fondata su muri che ci costruiamo da soli, giorno per giorno, mattone dopo mattone, violenza sopra violenza. Succede quando pretendiamo di semplificare troppo ciò che è complesso, quando si arma la disperazione, quando vengono disegnati fantasmi intorno alle fragilità per loro natura più tristi e cupe. È la condizione di chi, parafrasando la lezione del 'grande inquisitore' in Dostoevskij, scopriamo disposto a barattare l’autonomia di pensiero e l’azione che ne deriva, per un po’ di pane e di sicurezza. Perché non lo si dice ma la schiavitù, almeno quella a buon mercato, che blandisce e accarezza mentre toglie aria ai polmoni, è più comoda della libertà. Garantisce tranquillità, evita il mal di cuore, chiude gli occhi (e la bocca e le orecchie) di fronte all’orrore. Significa quieto vivere, calma, dondolìo sognante nell’inerzia del tempo che avanza. L’esatto contrario del cristianesimo che, nella logica di un Dio il cui nome è amore, non può che mettere al centro la persona, che chiede il coraggio di scelte e rinunce forti, che punta all’unità implorata da Gesù nel Vangelo di Giovanni. Non piccole comunità indifferenti l’una all’altra, ma la fraternità tra tutti i membri della stessa famiglia umana. La nostra libertà, ci insegna il Vangelo, passa dalla libertà del fratello e della sorella, specie i più fragili, e non potrà essere mai piena senza di lui. Senza di lei. (Riccardo Maccioni – Avvenire)

Dalla Libia al Lago Trasimeno: la sfida di Alieu e della sua kora

24 Giugno 2021 - Roma - Da un barcone per fuggire dalla Libia e cercare una nuova vita, a una barca di pescatori umbri dove suonare la sua musica. La sua nuova vita. Dalle enormi e pericolose acque del Mediterraneo a quelle ospitali del Lago Trasimeno. È la storia di Alieu Saho, giovane gambiano di 23 anni, un ragazzo con la musica nel sangue. La sua è una famiglia di musicisti e lui fin da piccolo suona la kora, strumento africano a corde di grande sonorità, suoni che arrivano dal profondo del continente e che Alieu ha scelto di far conoscere. Sfidando il lungo viaggio dei migranti. «Ho iniziato a suonare questo strumento quando avevo 5 anni. Con mio padre abbiamo fatto tanti festival insieme in Gambia, Senegal e Mali. Io oggi voglio portare la mia musica in tutto il mondo, voglio che chi non conosce la kora venga a conoscenza di questo strumento. È anche per questo che ho fatto questo lungo viaggio dal Gambia a qua». Un viaggio simile a quello di tanti altri migranti come lui. «Non è stato troppo difficile nel mio caso il viaggio con la barca, è stata molto lunga e dura la parte precedente del viaggio: sono passato in Senegal, qualche giorno in Mali, poi Nigeria e su verso nord piano piano». Un viaggio cominciato cinque anni fa. Poi Alieu, come tanti immigrati, per due anni gira l’Europa in cerca di fortuna. Ma sempre con la musica in testa. Ora da tre anni vive a Roma dove collabora con molti musicisti, col nome d’arte Kora Hero. E grazie alla musica, ha ritrovato il sorriso. Sabato scorso ha partecipato al Blues Lake Drops, evento organizzato a Castiglione del Lago da Trasimeno Blues nell’ambito della Festa della musica. «Suonare oggi qui su una barca dei pescatori mi fa ricordare quando stavo sul barcone per venire in Italia, è una emozione meravigliosa». Ha suonato il suo strumento su una barca al largo. Infatti anche quest’anno si è ripetuta la scelta, che risale allo scorso anno, di far suonare i musicisti al largo, per garantire il distanziamento. Per Alieu rappresenta davvero un ritorno alla vita, perché può tornare ad esprimere la sua arte e a trasmettere il suo desiderio di speranza e riscatto. Da un barcone della speranza alla barca della realtà. Che Alieu trasmette con la sua musica che evoca sonorità africane e quelle del Blues dirompente. Musica che emoziona. Ancor più su questa barca della tradizione dei pescatori del Trasimeno. Quei pescatori che proprio il 19 giugno 1944, coincidenza, salvarono dalla deportazione 22 ebrei, portandoli via con le loro barche. Due storie di libertà che si incontrano così come le tradizioni musicali che qui si contaminano. Il Trasimeno Blues, negli ultimi anni, ha scommesso sulla ricerca delle connessioni tra il Blues del Mississippi e quello delle sue origini primordiali, proprio quello di Alieu 'Kora Hero'. «È molto particolare che Alieu si sia ritrovato qui a suonare su una barca di pescatori anche per rivivere le sensazioni che ha vissuto con il suo viaggio; oggi rivive questa esperienza con gioia – sottolinea Gianluca Di Maggio, direttore del Trasimeno Blues e organizzatore dell’evento ' Blues Lake Drops' – . Per lui questo concerto è una sorta di 'ritorno alla vita', una possibilità sia di esprimere la propria arte ma anche di trasmettere agli altri le proprie emozioni, la propria voglia di riscatto unita ai sentimenti di speranza». (A.M. Mira – Avvenire)  

Ue: ridistribuzione migranti e solidarietà grandi assenti

23 Giugno 2021 - Bruxelles - La migrazione, come chiesto dall’Italia, arriva sul tavolo del Consiglio Europeo che si tiene domani e venerdì. Non però nel senso che avrebbe auspicato il governo, e cioè con un focus sulla solidarietà con i Paesi in prima linea come l’Italia, o almeno un meccanismo provvisorio di ridistribuzione dei migranti. «Il fenomeno migratorio – ha avvertito ieri il Capo dello Stato Sergio Mattarella – è mondiale e imponente e va affrontato in maniera globale, in modo necessariamente integrato». Pesano le elezioni in Germania a settembre e in Francia il prossimo anno. Certo è che nella bozza di conclusioni (di cui Avvenire ha copia) non c’è il benché minimo riferimento a solidarietà o ridistribuzione. Piuttosto i 27 leader domani si concentrano sul tema che li trova d’accordo: la «dimensione esterna» del fenomeno migratorio, e cioè cooperare con i Paesi di origine e transito per bloccare «a monte» i flussi verso l’Europa, che si vuole sempre più «fortezza». Anche Roma si è ormai rassegnata che oltre, almeno a questo vertice, non si andrà. «Come chiesto a maggio – ha dichiarato il sottosegretario agli Affari Europei Enzo Amendola – il prossimo Consiglio europeo avrà tra le priorità il tema immigrazione. Lavoriamo perché l’Ue abbia una dimensione esterna e costruisca accordi con i Paesi di origine e di transito. Soluzioni strutturali e non emergenziali, per salvare vite umane». Nella bozza si afferma anzitutto che «gli sviluppi su alcune rotte danno adito a preoccupazioni e richiede una continua vigilanza e un’azione continua». Proprio ieri Frontex, l’agenzia delle frontiere esterne Ue, ha affermato che nei primi cinque mesi del 2021 l’aumento più cospicuo di arrivi si registra proprio nel Mediterraneo centrale: 15.717 in più in tra gennaio e maggio 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020, con un aumento del 151%. «Per prevenire la perdita di vite e ridurre la pressione sulle frontiere esterne – recita ancora la bozza – saranno intensificati partenariati e cooperazioni reciprocamente benefici con i Paesi di origine e transito, come parte integrale dell’azione esterna dell’Unione Europea». Si tratta di «affrontare tutte le rotte nella loro integralità», affrontando le cause prime, sostenendo rifugiati e sfollati «nella regione», aiutando a combattere i trafficanti e migliorare il controllo alle frontiere di questi Paesi, ma anche «assicurando rimpatri e riammissioni», uno dei nodi centrali per l’Ue. Nella bozza i leader chiedono alla Commissione e all’Alto rappresentante Ue di «rafforzare azioni concrete» con questi Pae- si, identificando una lista di Stati prioritari (a Bruxelles si parla di Stati come Senegal, Mauritania, Niger, Etiopia, Tunisia, con molti c’è già una stretta cooperazione). Inoltre nella bozza si chiede di utilizzare almeno il 10% dello Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione (Ndici, che in totale ammonta a 79,5 miliardi di euro), più però altri fondi da trovare in altri strumenti. Sullo sfondo, si guarda alla Libia, con l’ipotesi di ripetere l’accordo già siglato con la Turchia, che ospita oltre tre milioni di profughi siriani ed è sostenuta con 6 miliardi di euro dall’Ue (programma in scadenza, la bozza chiede alla Commissione di presentare al più presto una proposta per proseguirlo). Gli ultimi sviluppi in Libia lasciano ora sperare i 27 leader, che ribadiscono «l’impegno dell’Ue al processo di stabilizzazione». (Giovanni Maria Del Re – Avvenire)    

La tragedia del piccolo Artin: trovato morto nel mare del Nord

8 Giugno 2021 - Milano - Erano quasi arrivati. Il sogno di una vita nuova, lontano dalla guerra e dalle violenze, stava per realizzarsi. Ma non è stato così. Il piccolo Artin e la sua famiglia di origine curdo iraniana non ce l’hanno fatta. Proprio nell’ultimo miglio. La loro barca, partita da Dunkerque, in Francia, alla fine non è mai arrivata in Gran Bretagna. Si è capovolta nel Canale della Manica, trascinandosi l’intera famiglia partita dal villaggio natale tre mesi prima. È il triste e drammatico epilogo dell’esodo di Rasoul Iran-Nejad, di 35 anni, della madre Shiva Mohammad Panahi, 35, della figlia più grande Anita, di 9 anni e di Armin, sei, tutti morti, come il più piccolo della famiglia, Artin, di soli 15 mesi. Il naufragio, ricostruisce la Bbc, è avvenuto lo scorso 27 ottobre. Altri quindici migranti furono portati in ospedale e sulla tragedia è stata aperta un’inchiesta a Dunkerque dalla procura francese. Il corpicino del piccolo Artin è stato trovato la notte di Capodanno sulla costa sud-occidentale della Norvegia, vicino a Karmoy. È di pochi giorni fa invece il risultato del test del Dna comunicato dalla polizia norvegese. Per giungere all’identificazione è stato ottenuto un profilo del Dna e alla famiglia è stato comunicato che si trattava effettivamente di Artin, aggiunge la stessa fonte, citando poi una dichiarazione della polizia in cui si afferma che «professionisti qualificati del dipartimento di scienze forensi dell’ospedale universitario di Oslo sono riusciti a recuperare i profili del Dna corrispondenti». I resti del bambino verranno ora riportati in Iran per essere seppelliti. La famiglia di Artin veniva dalla città di Sardasgt, nell’Iran occidentale, vicino al confine con l’Iraq, ed era giunta in Francia dopo essere passata per la Turchia e l’Italia. I curdi iraniani sono una minoranza emarginata dal punto di vista politico ed economico nel loro Paese e a migliaia si affidano ogni anno ai trafficanti per cercare di raggiungere l’Europa. La famiglia di Artin aveva fatto scalo anche in Italia, a Taranto, dove era giunta a bordo di un veliero. Qui aveva tentato la difficile risalita dello Stivale e il passaggio (altrettanto difficoltoso) della frontiera francese, non si sa se attraverso Ventimiglia o, più probabile fra agosto e settembre, da Bardonecchia al Monginevro. Al campo di Dunkerque, in Francia, dove la famiglia è rimasta alcuni giorni in attesa del passaggio sul barcone, si ricordano ancora del piccolo Artin, particolarmente vivace e sempre allegro. «Sono sia felice che triste», ha raccontato alla Bbc Niyaht, la zia di Artin rintracciata dalla polizia norvegese. «Felice che il corpo di Artin sia stato finalmente trovato, e triste naturalmente perché ci ha lasciato per sempre». Fra i tanti messaggi ricevuti prima della partenza dalla Francia, il padre di Artin aveva scritto ai parenti informandoli del viaggio pericoloso che si apprestavano ad affrontare attraverso la Manica ma aggiungendo anche «non abbiamo scelta». «Se vogliamo andare con un camion, abbiamo bisogno di più soldi e ora non li abbiamo» aveva scritto. Una scoperta amara per la famiglia del bambino, i cui resti saranno rispediti in Iran per la sepoltura da parte dei familiari prima angosciati dalla scomparsa di Artin, ora addolorati per la sua fine spaventosa in una delle rotte più pericolose. (Daniela Fassini – Avvenire)      

La morte di Musa, dimenticato

25 Maggio 2021 - Torino - Era in attesa di essere rimpatriato, Musa Baide, 23 anni, originario della Guinea. Ma non ce l’ha fatta, non riusciva a superare lo stato di choc determinato dopo quel terribile pestaggio, a Ventimiglia, due settimane fa. Si è tolto la vita domenica notte nel Cpr di Torino. Si trovava in isolamento per motivi sanitari e si è impiccato usando le lenzuola in dotazione nella sua camera. Musa non si era più ripreso da quella terribile aggressione subita a Ventimiglia lo scorso 9 maggio. Le immagini erano rimbalzate sui social: tre italiani che lo prendevano a bastonate. Per quei cazzotti in testa e in faccia, per quei calci all’addome inflitti quando il ragazzo era già a terra sono stati denunciati a piede libero per rispondere del reato di lesioni aggravate. Il ragazzo, che era irregolare sul territorio nazionale e che era già stato espulso dall’Italia, avrebbe tentato di rubare il telefono cellulare a uno dei tre all’interno di un supermercato. Musa Baide era stato portato in ospedale a Bordighera e dimesso con prognosi di 10 giorni per lesioni e trauma facciale: si sarebbe dovuto nuovamente procedere all’espulsione, ma il suo gesto ha posto fine alla sua difficile vita. La procura di Torino ha avviato degli accertamenti sul caso. «È un segno molto doloroso. Ho deciso di fare una preghiera particolare per questo fratello. La faremo con la Comunità di Sant’Egidio lunedì prossimo. Vogliamo suscitare in tutta la città una presa di coscienza dell’impegno che serve per far sì che queste persone si trovino nella condizione di non arrivare a questo punto. Se ci arrivano vuol dire che sono veramente disperate, è evidente. Dobbiamo dare loro la possibilità di sentirsi accolte e sostenute» ha dichiarato l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia. «Una vicenda triste e grave – commenta Maurizio Marmo, Caritas Intermelia – capiremo nei prossimi giorni se ha avuto cure e assistenza adeguate». Perché per il garante dei detenuti, Mauro Palma, il giovane non è stato seguito in modo corretto. «Una persona affidata alla responsabilità pubblica – dice Palma – deve essere presa in carico e trattenuta nei modi che tengano conto della sua specifica situazione, dell’eventuale vulnerabilità e della sua fragilità. Questo non è avvenuto». Per Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) questa vicenda tiene in sé "tre questioni gravissime”: «Innanzitutto vorremmo sapere per quale motivo a questa persona non è stato dato un permesso di soggiorno per rimanere in Italia in quanto vittima di violenza – sottolinea –. Non solo, tenuto conto del paese di provenienza, il suo rimpatrio era a rischio. E, dunque, non capiamo perché la prefettura di Imperia abbia emanato un permesso di espulsione in violazione dell’articolo 19 del Testo Unico». «La cosa più grave – conclude Schiavone – è che lì proprio non doveva stare». (D. Fas. - Avvenire)    

Regolarizzazioni, segnale ai lavoratori

17 Maggio 2021 - Milano - Con una circolare datata 11 maggio 2021, il Ministero dell’Interno ha superato il precedente provvedimento con cui impediva la regolarizzazione ai cittadini stranieri irregolari che avevano aderito alla campagna lanciata dal governo ma che, nelle more della procedura di emersione, avevano perso il lavoro per scadenza di un contratto a tempo determinato. La nuova circolare consente in questi casi «il subentro nella procedura di un nuovo datore di lavoro» che andrà a completare la pratica di emersione. Il Viminale inoltre prevede la possibilità del subentro di un nuovo datore di lavoro anche per quei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia avvenute «per cause non di forza maggiore». Infine, qualora non vi sia un nuovo datore di lavoro disponibile ad assumere il cittadino straniero che ha avviato l’iter di regolarizzazione, il ministero dell’Interno prevede che sia rilasciato di un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Una disposizione che si è resa necessaria «anche a causa delle gravi conseguenze che il perdurare dell’emergenza pandemica ha provocato nel mercato del lavoro». Sono state quindi accolte le richieste presentate al governo, al Viminale e agli altri ministeri competenti nelle scorse settimane dai sindacati e diverse associazioni impegnate nella tutela dei migranti, tra cui l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Amnesty International, Medu, Centro Astalli, Fondazione Migrantes, Sant’Egidio, Cnca e la campagna 'Ero Straniero'. Quest’ultima, lo scorso marzo, aveva denunciato con un dettagliato rapporto la lentezza con cui sta procedendo l’esame delle oltre 207mila domande presentate da altrettanti cittadini stranieri impiegati nei campi, nel lavoro domestico e di cura. L’analisi delle domande di emersione procede lentamente in tutta Italia a causa soprattutto delle disposizioni adottate da Prefetture e Questure per ridurre il contagio da Covid-19: l’esigenza di ridurre al minimo le presenze all’interno degli uffici obbliga a ridurre considerevolmente gli appuntamenti che è possibile fissare in una sola giornata. L’altro fattore che incide notevolmente su questi ritardi è la carenza di personale. A questo ultimo aspetto, tuttavia, dovrebbe dare un contributo positivo l’assunzione (ormai quasi ultimata) degli 800 interinali assunti appositamente per lo svolgimento delle procedure di regolarizzazione. Intervenendo nel dibattito con un’intervista ad Avvenire, il Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, aveva parlato di «adempimenti complessi» e di «ritardo indiscutibile. Siamo al 12% dei provvedimenti esaminati: circa 23mila definiti positivamente, 2.700 rigetti e 800 rinunce». Non è l’unico aspetto, quello delle regolarizzazioni, che coinvolge i cittadini stranieri presenti nel nostro Paese. Due giorni fa, in visita nella Marsica, il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, ha sottolineato che le misure previste nel Decreto sostegni bis dovrebbero essere approvate la prossima settimana. «Il testo è pronto e ci sarà il bonus per i braccianti». Gli imprenditori agricoli dell’area del Fucino, in provincia dell’Aquila, da quasi un decennio fanno ricorso a decine di braccianti stranieri specializzati. Gli ultimi arrivi dal Marocco, sempre con voli charter, risalgono alla scorsa settimana. A 10 mesi dalla sanatoria, però, i lavoratori stranieri sono ancora in attesa della regolarizzazione. «La gestione delle molte domande è stata piuttosto complessa – ha dichiarato il ministro sulla regolarizzazione di questi lavoratori –. Bisogna superare un po’ la politica dell’emergenza. Noi stiamo lavorando nel ministero proprio per avere un quadro ordinato delle necessità dei lavoratori in agricoltura, in modo da poter programmare per dare una risposta alle aziende». (Ilaria Sesana - Avvenire)    

Una lavanderia speciale che aiuta i migranti

13 Aprile 2021 - Milano - Capita di trovare anche pupazzi e peluche nei cestelli delle lavatrici di una lavanderia davvero speciale sull’isola greca di Lesbo. «È la parte più tenera della nostra attività: i giocattoli di pezza arrivano da noi davvero sporchi perché i bambini del campo li tengono con loro a lungo. Adoro il momento in cui li riconsegniamo perfettamente puliti». Si intuisce che sorride mentre parla al telefono, Rebecca Lally, 23 anni, coordinatrice di 'The Lava Project', Ong che offre un servizio di lavanderia per indumenti di rifugiati con malattie cutanee, scabbia soprattutto, triste effetto collaterale della permanenza nell’hotspot europeo di Kara Tepe. «C’è scabbia un po’ dappertutto fra le tende, noi trattiamo i panni dei casi più seri. I più colpiti sono i bambini, perché la loro pelle è più sottile» aggiunge. A cinque minuti d’auto dall’accampamento, 'The Lava Project' ha uno spazio con quattordici grandi lavatrici, in fila una dopo l’altra. «In meno di due anni abbiamo lavato 21.200 sacchi di biancheria. Al momento siamo quattro volontari da Gran Bretagna, Irlanda, Usa e Grecia, e due volontari richiedenti asilo dalla Somalia. Ai tempi di Moria coinvolgevamo più rifugiati del campo, ma ora non si può uscire liberamente da Kara Tepe, che pure non è un campo chiuso ma che in qualche modo intrappola le persone. Ora chi viene da noi vive fuori». Il nuovo accampamento non è migliore di quello vecchio e infatti sono in molti a chiamarlo Moria 2. «Dal punto di vista igienico, la situazione è critica come nel precedente sito. La percentuale di popolazione con scabbia o altre malattie della pelle sembra la stessa. Ci sono meno casi solo perché la popolazione di Kara Tepe è minore». Delle dodicimila persone rimaste per strada all’indomani dei roghi che rasero al suolo Moria, restano oggi sull’isola in 6.900. Dopo sei mesi senza acqua corrente (i primi senza nemmeno la possibilità di fare una doccia) ora il campo verrà collegato alla rete idrica. «Le persone erano costrette a lavare i propri indumenti in mare o usando bottiglie, perché non c’era acqua sufficiente per lavare se stessi». Con il sopraggiungere della pandemia, le lavatrici di 'The Lava Project' si sono riempite di mascherine di stoffa, fornite agli abitanti del campo da un’altra Ong e lavate periodicamente. Mentre Rebecca e i suoi volontari passavano da un lavaggio all’altro, lunedì scorso la commissaria per gli affari interni dell’Ue Ylva Johansson ha visitato l’isola. Ha annunciato 250 milioni di euro di finanziamenti per cinque nuove strutture nell’Egeo. Tra i tanti appelli rivolti alla rappresentante europea, c’è stato quello durissimo di Medici senza Frontiere: «Finché l’Unione darà la priorità a contenimento e rimpatrio dei migranti alla frontiera esterna rispetto a protezione e a un’accoglienza dignitosa, chi cerca sicurezza in Europa continuerà a soffrire» ha scritto Hilde Vochten, coordinatrice medica di Msf sull’isola. Se si «insiste, per compromesso politico, a replicare lo stesso modello che ha già creato tanti danni e sofferenze, le promesse fatte resteranno solo parole vuote». Finché sarà così, i volontari di 'The Lava Project' non smetteranno di caricare lavatrici, assicurare un po’ di igiene e soprattutto provare a dare l’accoglienza umana che manca. (Francesca Ghirardelli – Avvenire)      

“Dateci garanzie per il futuro”

12 Aprile 2021 -

Milano - Poche settimane prima che scoppiasse l’emergenza Covid 19, Silvia S. ha avuto bisogno di un’assistente per il padre anziano appena dimesso dall’ospedale: «Abbiamo fatto una prova con una ragazza moldava da poco in Italia e ai primi di marzo ha iniziato a lavorare con noi». Maria (abbiamo deciso di chiamarla così) però è irregolare. O meglio, lo era quando ha incontrato Silvia e la sua famiglia: «Abbiamo subito aderito alla regolarizzazione, il 30 luglio abbiamo presentato la domanda». Otto mesi dopo Silvia e Maria stanno ancora aspettando la convocazione dalla Prefettura di Milano per completare il percorso di emersione.

Otto mesi durante i quali non sono mancate le difficoltà: «All’Asl non ci hanno dato la tessera sanitaria per Maria, abbiamo dovuto insistere per fargliela avere. Anche il codice fiscale provvisorio che le hanno dato ha creato dei problemi – racconta Silvia –. Maria ha due figli piccoli nel suo Paese, non li vede da più di un anno e non può uscire dall’Italia fino a quando non avrà il permesso di soggiorno. Sta persino pensando di rinunciare al lavoro e tornare in Moldavia se la situazione non si risolverà in tempi brevi».

Quella di Maria è una delle 200mila vite sospese tra i cittadini stranieri che hanno aderito alla procedura di emersione lanciata dal Governo nel maggio 2020. La denuncia sui ritardi lanciata da 'Ero Straniero' sta producendo i primi risultati, visto che al 6 aprile sono diventate 16.781 le domande definite positivamente (1.783 i dinieghi, 594 le rinunce) e nel frattempo sono state operate assunzioni di personale a tempo determinato per sbrigare più pratiche: finora su 800 individuati, ne sono stati assunti 492.

Ciononostante, la regolarizzazione va avanti piano. Una situazione che sta causando seri disagi ai lavoratori 'emergenti' come Manuel, peruviano: da novembre 2019 lavora come badante per una persona anziana, che però poche settimane fa gli ha annunciato di voler interrompere il rapporto di lavoro. «Anche se il datore di lavoro si è impegnato a completare l’iter, Manuel dovrà affrontare una serie di problemi – racconta Edda Pando, dello sportello Arci 'Todo Cambia' di Milano –. Non potrà avviare un altro contratto regolare fino a quando non sarà completata la procedura: ha due figli da mantenere e sarà costretto a lavorare in nero. Inoltre, ha già versato un anno e mezzo di contributi, ma se verrà licenziato non potrà ricevere il sussidio di disoccupazione». Anche Emma lavora come badante da gennaio 2020: «La sua datrice di lavoro ha presentato domanda per la regolarizzazione impegnandosi a sottoscrivere il contratto in un secondo momento, una possibilità prevista dalla norma, ma non lo ha ancora fatto – spiega Edda Pando –. Inoltre, minaccia di non presentarsi in prefettura per completare l’iter ricattando Emma, che vorrebbe cambiare lavoro ma non può farlo». Molto frequenti sono anche i casi in cui il datore di lavoro è deceduto e il 'regolarizzando' si trova in un limbo. «Non può instaurare un nuovo rapporto di lavoro fino a quando non si è concluso l’iter. Inoltre, il lavoratore avrebbe diritto alla disoccupazione: il problema è che non si riesce a inviare la richiesta» sintetizza Carla Puccilli, del patronato Acli di Milano. «Se una procedura pensata per durare pochi mesi si prolunga all’infinito genera molti problemi – aggiunge l’avvocato Francesco Mason, che sta seguendo diversi casi tra Venezia, Padova e Treviso –. La domanda di emersione dovrebbe permettere di ottenere qualsiasi diritto legato alla condizione di lavoratore ma, di fatto, molti uffici non la accettano. Un mio cliente, ad esempio, aveva la necessità della patente per raggiungere la sede di lavoro, ma la motorizzazione gli ha negato la possibilità di fare l’esame». Un ulteriore elemento che complica le pratiche di emersione è la richiesta di attestare l’idoneità alloggiativa da parte di chi ha presentato la domanda di adesione, pena il rigetto della stessa: «Molte persone che hanno fatto domanda di emersione risiedono in Cas che non sono in grado di fornire questo documento – spiega ancora Mason –. Lo stesso vale per chi viene ospitato da amici o condivide una stanza con altre persone. Chiedere l’idoneità alloggiativa a una persona che sta facendo una domanda di emersione non ha senso se consideriamo l’obiettivo della procedura di far emergere persone irregolarmente soggiornanti in Italia, che spesso si trovano in situazioni abitative precarie». (Ilaria Sesana – Avvenire) 

 

Torino: “Rinati” nella notte di Pasqua

7 Aprile 2021 - Torino - «Questo per me è un nuovo inizio, finalmente anche io sono cristiano, cammino ora per una nuova strada». Frank è emozionato e commosso. È uno dei 12 catecumeni che dopo due anni di formazione e discernimento, nella Cattedrale di Torino, la notte di Pasqua, nella celebrazione presieduta dall’arcivescovo, mons. Cesare Nosiglia, hanno ricevuto i Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Frank ha 22 anni è camerunense ed è arrivato nel capoluogo piemontese 5 anni fa: minore non accompagnato. «Ho lasciato la mia famiglia per sperare in un futuro migliore in Italia e ho vissuto nel viaggio esperienze terribili che non auguro a nessuno, sono arrivato in Libia, poi mi sono imbarcato e sono finito a Torino». Senza nessuno, accolto in una struttura comunale dove i volontari di Sant’Egidio passano per portare la cena ai senza dimora, Frank viene avvicinato. Gli viene proposto di frequentare i corsi di italiano e inizia un’amicizia che suscita un desiderio: «Ho incontrato in loro persone fantastiche che mi hanno aiutato e mi sembrava impossibile che con poco riuscissero ad aiutare gli altri con gioia. Ho toccato davvero con mano come la felicità sia un pane che si mangia insieme». Frank inizia così a frequentare la preghiera della Comunità, poi si mette a disposizione per il servizio serale con i senza dimora finché esprime a una volontaria, ora la sua madrina, il desiderio di ricevere l’Eucaristia ed inizia con il Servizio diocesano per il catecumenato il percorso biennale. «Un cammino che in questi due anni – spiega Monica Cusino, che nell’équipe diocesana segue in particolare gli accompagnatori dei catecumeni – è stato particolarmente complesso per il Covid». Biennio complesso, ma non per questo meno ricco e fecondo, perché i membri dell’équipe e gli accompagnatori non si sono mai arresi e per ogni catecumeno hanno trovato occasioni e strumenti per approfondire i fondamenti della vita cristiana e per condividerne il cammino ascoltando e «facendo emergere – sottolinea il responsabile don Andrea Fontana – quello che anche e soprattutto in tempo di Covid è un grande segno di speranza per le nostre comunità per le quali i catecumeni sono una vera ricchezza: il fatto che la Grazia continua a riversarsi e a essere accolta. Il virus non ferma i progetti di Dio, la sua chiamata a seguirlo e nemmeno il desiderio di uomini e donne di conoscerlo». «Quest’anno – prosegue Cusino – i catecumeni sono 40 e posso dire che tutti hanno trovato ciò che cercavano. Molti hanno scoperto il 'tesoro nascosto' della loro esistenza, chi desiderava un senso alle prove della vita ora lo ha scoperto». Come Frank, molti gli stranieri, ma anche italiani che hanno scoperto la fede in una proposta di matrimonio o nel vuoto lasciato da un lutto. «La celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, nella notte pasquale – ha ricordato loro mons. Nosiglia – assume un significato forte e pregnante per tutta la Chiesa. Viviamo allora con profonda letizia e gioia questo momento decisivo per la vostra vita, cari amici, sentendolo parte integrante della nostra fede comune, che tutti ci unisce in Cristo e ci fa una cosa sola». Una letizia che i catecumeni ora porteranno nelle proprie comunità e famiglie. Così anche Frank che prima della celebrazione è riuscito a parlare con la sua mamma in Camerun. Parole gioiose poi condivise con gli amici di Sant’Egidio, «la mia seconda famiglia», e infine anche con gli anziani della casa di riposo dove lavora come oss (operatore socio sanitario): «Ora anche con loro che sono soli a causa della pandemia posso portare l’abbraccio di Dio». (Federica Bello – Avvenire)    

Profugo ucciso in Croazia da mina antiuomo

9 Marzo 2021 - Milano - Cercavano di sfuggire alla polizia che pattugliava la foresta di Saborsko, poco dopo essersi lasciati alle spalle il confine bosniaco, in un’area dove nessun croato mette piede da anni per non rischiare di innescare una delle 20mila mine antiuomo di cui è disseminata l’area. Ma proprio uno degli ordigni ha dilaniato un pachistano e ferito una decina di altri migranti. Il gruppo aveva approfittato del rialzo delle temperature, con la neve che oramai è quasi completamente sparita, per tentare la traversata verso la Slovenia, in direzione dell’Italia. Le notizie che arrivano sono ancora incomplete. L’intervento degli sminatori per soccorrere gli stranieri coinvolti nell’esplosione non è stato semplice. Gli specialisti hanno dovuto bonificare e tracciare un percorso per raggiungere i feriti. (Su www.avvenire.it un video dell’accaduto).  

Oim: stop ai respingimenti in Ue

12 Febbraio 2021 - Bruxelles - Stop ai respingimenti alle frontiere esterne dell’Ue. Dopo le denunce di media e Ong, a farsi sentire è l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim). «L’Oim – si legge in una dichiarazione – continua a ricevere rapporti ben documentati su violazioni dei diritti umani e di violazione del diritto internazionale e delle convenzioni, incluso la Convenzione europea sui diritti umani». L’organismo cita anche le sue «dirette interazioni con migranti, testimonianze, fotografie condivise con le Ong e i media» che «continuano a testimoniare il livello di brutalità a cui (i migranti, ndr) sono stati sottoposti prima di esser respinti ai confini marittimi e terrestri». «L’uso di forza eccessiva e di violenza contro i civili – ha dichiarato Eugenio Ambrosi, capo dell’Ufficio regionale Oim per Ue, Norvegia e Svizzera – è ingiustificabile». Il riferimento è ovviamente alle notizie di brutali respingimenti da parte delle autorità croate al confine bosniaco, come quelle al confine serbo di quelle ungheresi o nell’Egeo da parte delle autorità greche. «L’Ue – sottolinea Adalbert Jahnz, portavoce della Commissione Europea, responsabile per il settore migrazione – condanna qualsiasi respingimento. Tuttavia la responsabilità del rispetto del diritto internazionale, che vieta i respingimenti, e delle leggi nazionali e Ue alle frontiere è degli Stati membri». Jahnz precisa comunque che la Commissione sta finanziando un meccanismo di monitoraggio dei diritti umani al confine croato. C’è però anche il ruolo di Frontex, l’agenzia Ue per le frontiere esterne, presente con i suoi funzionari ai confini più «caldi» e in fase di potenziamento (passerà da 1.500 a 10.000 funzionari entro il 2027). Già nel 2019 vari media denunciarono l’inazione di funzionari dell’agenzia di fronte a violazione di diritti umani, poi lo scorso autunno sono arrivate le accuse di Der Spiegel e altri media di un presunto diretto coinvolgimento di Frontex in respingimenti nell’Egeo da parte delle autorità greche. Sottoposto al fuoco di fila del Parlamento Europeo, il direttore esecutivo Fabrice Leggeri ha dichiarato che «non ci sono prove». Vari europarlamentari hanno già chiesto le sue dimissioni. Un’inchiesta è in corso, il gruppo di lavoro che se ne occupa presenterà il 26 febbraio un rapporto al consiglio d’amministrazione dell’agenzia (in cui siedono gli Stati membri e la Commissione). Aspetto delicato: in un documento interno, il gruppo di lavoro lamenta che l’agenzia si è mostrata reticente nel fornire tutti i dati necessari. E intanto in corso è anche un’inchiesta dell’agenzia antifrode Ue Olaf. Sempre più impaziente e irritata è anche la commissaria europea competente, Ylva Johansson, per la quale il ruolo di Frontex è cruciale ed ogni dubbio deve esser chiarito. La commissaria, in un’intervista a Euronews, punta il dito contro Leggeri: «avremmo dovuto avere in servizio (nel personale di Frontex, ndr) 40 osservatori dei diritti umani (alle frontiere, ndr), siamo a zero». (Giovanni Maria Del Re - Avvenire)  

La doppia sfida degli imprenditori stranieri

5 Febbraio 2021 -

Milano - Tornare nel Paese di origine per mettere a frutto quello che si è imparato in Italia, o per realizzare un’idea rimasta troppo a lungo nel limbo delle buone intenzioni. Oppure mettere alla prova il proprio spirito imprenditoriale sul mercato italiano. Sono le aspirazioni di molti migranti di origine africana, che hanno trovato una sponda in un programma di formazione e mentoring finanziato dalla Commissione Europea all’interno del progetto Bite ( Building Integration Through Entrepreneurship) e realizzato in Italia da Etimos Foundation in collaborazione con Fondazione Ismu e E4Impact. Si va da chi vuole aprire in Italia un fast food di prodotti africani a chi punta ad avviare una residenza per anziani in Camerun, un allevamento di pollame in Burkina Faso, o infine importare dal Senegal anacardi biologici prodotti dall’azienda di famiglia. Ma per dare gambe a queste idee bisogna acquisire una capacità imprenditoriale, conoscere le normative, districarsi nei meandri della burocrazia. Ai candidati selezionati è stata offerta la possibilità di partecipare a corsi di formazione a Milano e Padova, grazie ai quali hanno imparato a formulare un business plan e ad acquisire le competenze necessarie sotto la guida di esperti che li hanno accompagnati passo dopo passo a costruire un trampolino da cui spiccare il salto nel mondo dell’ intrapresa. «Sono molti i migranti di origine africana residenti in Italia da lungo tempo che associano uno spirito imprenditoriale a una grande determinazione e possono diventare incubatori di lavoro, qui o nei Paesi di origine, dove molti vorrebbero tornare per contribuire allo sviluppo delle loro terre – spiega Marco Santori, presidente di Etimos Foundation –. I corsi che abbiamo organizzato, della durata di un anno e mezzo, hanno rappresentato per loro una sorta di 'scuola d’impresa' che ha offerto conoscenze ed expertise per dare solidità alle aspirazioni che li animano». (G. Paolucci - Avvenire)

I bambini di Lesbo prigionieri nel fango

25 Gennaio 2021 - Milano - La più grande paura di Mohammed, 9 anni, è che qualcuno entri di notte nella tenda dove dorme con il padre, la madre e i due fratelli più piccoli. Fuori dal telone bianco che da ottobre è casa loro, ci sono altre 7.300 persone accampate in 700 tende uguali. Suo padre Ahmad A. condivide lo stesso timore, resta sempre all’erta per evitare che «ladri alla ricerca di telefoni e di soldi entrino all’interno». La famiglia è afghana, della provincia di Herat, e ora vive nel nuovo campo per rifugiati che sull’isola greca di Lesbo ha sostituito la vecchia e sovraffollata tendopoli di Moria, bruciata a settembre. Il nuovo accampamento, chiamato Kara Tepe o Mavrovouni, è conosciuto anche come Moria 2, perché le condizioni di vita pessime che Moria riservava a chi aveva la sfortuna di finirci dentro sono le stesse che si ritrovano anche qui. Servizi carenti (271 bagni chimici, uno ogni 27 residenti, secondo l’Unhcr), freddo e fiumi di fango alle prime gocce di pioggia, tende divelte dal vento, che nel nuovo campo soffia con più forza, visto che il mare è a pochi metri dagli alloggi. Per sollecitare le autorità europee a portare via da quest’isola, una volta per tutte, i bambini come Mohammed e le loro famiglie, questa settimana Avvenire ha pubblicato la lettera aperta di un gruppo di cittadini e personalità del mondo della cultura e dell’educazione che avevano fatto appello al presidente del Parlamento Ue David Sassoli. La risposta del leader dell’Europarlamento è arrivata: vi si ammette un «deficit insopportabile di sovranità europea che costituisce un danno umanitario» e una «mancanza di poteri dell’Unione Europea in materia di immigrazione e di asilo» di fronte all’«egoismo dei Governi nazionali, sempre più riluttanti (…) a trasferire quote di sovranità». Il problema non è, tra l’altro, circoscritto solo a Lesbo. Circa 18.500 richiedenti asilo risiedono nelle isole dell’Egeo, di cui bambini e ragazzi rappresentano il 27% e tra loro quasi 7 su 10 hanno meno di 12 anni. «Molti governi hanno paura di mostrarsi generosi nei confronti di chi fugge dalla fame». In una lettera pubblicata venerdì da Avvenire, il presidente del Parlamento Ue David Sassoli critica le chiusure di fronte ai bambini profughi a Lesbo. - . Mentre l’Europa cerca di trovare una soluzione che sembra tardare (ormai da cinque anni), Ahmad A. pensa a crescere i suoi tre figli e tenerli d’occhio il più possibile: «Ho paura che vadano in bagno da soli, le toilette sono lontane dalla tenda, li accompagno sempre io» ci dice al telefono e il pensiero va alle indagini della polizia sul caso di violenza sessuale subita da una bambina trovata priva di sensi nei bagni una sera di dicembre. A preoccupare maggiormente Morteza H., anche lui afghano, è invece la salute di suo figlio Martin che ha 4 mesi, ha tosse e mal di gola, «ma il medico che lo ha visitato e visto paffuto ha detto che va tutto bene. Eppure tossisce parecchio». Intanto, le temperature di notte in questo periodo arrivano a 4 o 5 gradi e per questa settimana sono previsti cinque giorni consecutivi di precipitazioni. Avevamo parlato con questo neo-papà lo scorso ottobre, alla nascita di Martin, suo primo figlio. Pochi giorni dopo il parto in ospedale, mamma e neonato erano stati rimandati in tenda. «Da allora le uniche novità sono state l’arrivo delle docce (a lungo del tutto assenti, costringendo le persone a lavarsi in mare) e i pallet che ora sono posizionati sotto le tende. Ma quando piove forte, l’acqua raggiunge lo stesso l’interno degli alloggi» racconta. «Per il vento forte la mia tenda, come altre, è stata sradicata. L’ho rimessa in piedi. Quando arriva la pioggia, il terreno è troppo molle e non adatto, non drena, dunque non va bene per piantarci i teloni. Il vento li solleva». Vite nel fango, che l’Europa non vede. Non era semplice nemmeno con temperature buone, ma ora che è arrivato l’inverno tenere un neonato in una tenda è un tormento: «Fa freddo, quindi mia moglie e io ci chiediamo di continuo se Martin sia caldo abbastanza, se si stia ammalando, se riceva latte a sufficienza. Viene allattato al seno, mia moglie sta bene, ma quando noi adulti non abbiamo abbastanza cibo, lei ha un po’ meno latte». Altro problema sono i vestiti, perché un bambino così piccolo «cresce di continuo e ha bisogno di abbigliamento sempre diverso» aggiunge Morteza, che riceve abiti usati da Ong come Refugee4Refugees e Team Humanity. Non lontano dal nuovo accampamento di Kara Tepe, proprio accanto al parcheggio del supermercato Lidl, c’è quello “vecchio”, un campo più piccolo gestito dalla municipalità di Mitilene, capoluogo dell’isola. È stato creato anni fa per i casi più fragili. Non ci sono tende, ma piccoli box prefabbricati. Lì vive con la sua famiglia Youssef al-H., siriano di Aleppo. All’esterno, con pallet coperti da un telo blu, ha allestito una specie di divano, davanti al fuoco. Ci mette la pentola su cui cucina nuovamente il cibo del campo, per aggiungere sapore e «renderlo commestibile». Fanno così tutte le famiglie. Grazie a MSF Youssef al-H. è riuscito ad avere un posto qui: ha un cancro, che cura con infusioni settimanali, e un problema cardiaco genetico ereditario, lo stesso riscontrato anche in sua figlia Lara di 13 anni. Con loro, oltre alla madre, ci sono anche i gemelli Muhammad e Abdo di 14 anni e la piccola Sarah, un mese e mezzo di vita. «Durante la guerra sono stato ferito, e Muhammad, uno dei gemelli, mi ha visto sanguinare. Da allora, ancora oggi, di notte si sveglia terrorizzato» racconta. Da quando ha messo piede a Lesbo dice di tentare di prendere un appuntamento in ospedale per far visitare Lara, che per i suoi problemi cardiaci in Siria era stata sottoposta a un intervento. «Non ci sono ancora riuscito» dice, e continua il suo racconto. «Nel campo non ci sentiamo sicuri, c’è gente violenta. Il prefabbricato è piccolo, ci stanno solo i 5 letti. I bambini vanno a scuola, ma non capisco, pare che qui sia sempre vacanza e le lezioni saltano». Youssef al-H. ha avuto il primo rigetto della richiesta di asilo e da sei mesi la famiglia è senza aiuto economico. «Non so perché abbiano rigettato la domanda, mi hanno detto che la Turchia è un paese sicuro ma non è così». Ci ha vissuto per 7 anni e mezzo, ma un giorno, mentre faceva la spesa, è stato fermato, arrestato e deportato in Siria. «Sono rientrato in Turchia con 1.500 dollari in tasca, ho raggiunto la mia famiglia, e ho deciso di portarli tutti in Grecia». Da allora è passato un anno e mezzo e la loro vita si è fermata dentro un campo, in un box prefabbricato, su quest’isola. (Francesca Ghirardelli – Avvenire)  

Ecco l’Italia degli immigrati oltre forzature e dicerie

22 Ottobre 2020 - Milano - L’immigrazione è forse l’argomento che più si è prestato negli ultimi anni alla diffusione di credenze e leggende lontane dai dati effettivi: in genere drammaticamente enfatiche, ripetute con tale frequenza da finire per essere prese per vere, e risolutamente riottose di fronte alle smentite fornite dalle fonti statistiche disponibili. Queste non sono perfette, ma di certo risultano più affidabili delle dicerie un tempo propagate di bocca in bocca, ora divulgate mediante i social media, e anche cavalcate da chi ha interesse ad accreditarle come veritiere. Per fortuna ogni tanto arriva qualche studio a presentare i dati reali a chi vuole conoscere un po’ meglio il fenomeno, senza accontentarsi di seguire l’opinione corrente e gridata. Un esempio è l’ultimo Rapporto immigrazione di Caritas-Migrantes, che reca il significativo sottotitolo 'Conoscere per comprendere'. In un Paese di 60 milioni di abitanti in cui resta così diffusa la paura dell’'invasione', fa impressione leggere per esempio che dal 2018 al 2019 i residenti stranieri sono aumentati soltanto di 47.000 unità, e i permessi di soggiorno di appena 2.500. Come se non bastasse, le nascite da cittadini stranieri (un dato difficile da smentire, o di cui sospettare una sottovalutazione) sono addirittura calate, da 68.000 nel 2017 a 63.000 nel 2019. Nel 2012 sfioravano quota 80.000. In entrambi i casi incidono le acquisizioni di cittadinanza, grazie alle quali i neo-italiani scompaiono dalle statistiche sugli immigrati, ma per sostenere la tesi dell’invasione ci vorrebbe ben altro. Ancora, i motivi del permesso di soggiorno sono da anni eminentemente familiari (quasi la metà del totale: 48,6%). Asilo e protezione internazionale concorrono per un modestissimo 5,7%, ponendo in luce quanto sia lontana dalla realtà l’equivalenza tra immigrati regolari e richiedenti asilo. Bisogna poi aggiungere che 1,5 milioni di cittadini comunitari non hanno bisogno di permessi, e di certo non chiedono asilo. Altri dati interessanti sono stati prodotti dalla Fondazione Leone Moressa, che si occupa periodicamente del rapporto tra i costi e i benefici dell’immigrazione per lo Stato italiano. Qui la notizia saliente, già evidenziata da questo giornale (Avvenire, ndr), riguarda il gettito che l’immigrazione arreca alle casse dello Stato italiano, grazie a imposte e contributi versati dai 2,5 milioni di immigrati regolarmente occupati: 500 milioni di euro nel 2019. A tanto ammonta il saldo tra spese sociali e prelievi fiscali e contributivi a carico dei cittadini stranieri. L’età media ancora giovane comporta un basso numero di pensionati (intorno al 4%) e un’incidenza sulla spesa sanitaria più bassa della media nazionale. Al conto andrebbero aggiunte tre specificazioni. La prima si riferisce al fatto che alcune voci di spesa comportano a loro volta dei benefici per la collettività: per esempio l’inserimento scolastico di oltre 800.000 alunni stranieri, senza contare i naturalizzati, rappresenta di certo un costo, ma anche un’opportunità d’impiego per migliaia di insegnanti, tutti italiani. Grazie agli alunni di origine straniera inoltre rimangono in vita molte scuole, in quartieri di periferia e borghi spopolati. Stesso discorso per le nascite: costo sanitario, ma investimento sociale. La seconda specificazione rimanda a benefici più difficili da quantificare e riconducibili al ruolo dei 5,3 milioni d’immigrati come consumatori. Con i loro acquisti contribuiscono a far girare l’economia e aumentano il gettito dell’Iva. Se dispongono di un’auto o di una moto, facendo il pieno di carburante pagano altre tasse. Alcuni segmenti di mercato trovano negli immigrati un’importante quota di clienti: gli alloggi dei quartieri popolari, le auto usate, i discount di periferia. In terzo luogo, non solo gli immigrati finanziano la spesa sociale, ma contribuiscono a contenerla. Più precisamente, le assistenti familiari (come le chiama il contratto di lavoro), dette comunemente badanti, aiutano le famiglie a mantenere gli anziani fragili a casa, abbassando il fabbisogno di strutture protette. Questi benefici però non sono eterni. La Fondazione Moressa rileva che la prevalenza di lavori poco qualificati e la scarsa mobilità sociale nel tempo possono intaccare l’apporto degli immigrati alle casse dello Stato e alla società italiana. Aggiungerei che anche gli immigrati sono destinati col tempo a invecchiare e ad ammalarsi maggiormente, con una progressiva crescita della spesa sociale loro destinata. Perché persista un saldo positivo per le casse dello Stato, occorre l’immissione di nuova immigrazione regolare e regolata, giovane e produttiva. Ma per accoglierla e valorizzarla occorre lungimiranza, e anche coraggio. La stessa lungimiranza e lo stesso coraggio che servono per valorizzare e non spingere a loro volta all’emigrazione le giovani generazioni di italiani. (Maurizio Ambrosini – Avvenire)  

L’accoglienza che ci fa ‘fratelli tutti’

15 Ottobre 2020 - Roma - Ci si occupa di dargli cibo e un tetto. Ma a volte si trascurano gli aspetti psicologici di chi arriva sulle nostre coste. Così, ad esempio, a Lampedusa c’è un progetto che si occupa di questo. Come pure la formazione professionale di chi arriva attraverso la rotta balcanica ad Udine. O ancora i laboratori agricoli con i lavoratori nei ghetti del metapontino, l’assistenza ai minori e la promozione culturale delle donne rom in Albania. Sono queste alcune delle 130 esperienze della Campagna 'Liberi di partire, liberi di restare', ma più di tante spiegazioni parlano i gesti. "Il risultato più bello è vedere adesso i nostri giovani che lavorano nei campi invitati alle cene dai colleghi, oppure le ragazze strappate alla tratta che vivono in parrocchia invitate a pranzo la domenica anche dai parrocchiani più scettici all’inizio". Don Antonio Polidoro, direttore dell’ufficio Migrantes di Matera, racconta del ghetto di 500 persone che si era creato anche a seguito dei decreti sicurezza. Da lì il progetto con cui si è cercato di integrare molti di loro nella raccolta delle fragole. Parla invece delle "ferite invisibili" che cerca di curare con il progetto portato avanti sull’isola porta d’Europa Germano Garatto, coordinatore Re-agire con i migranti onlus, "dell’amarezza di un continente che non si aspettavano così, della consapevolezza di quanto le famiglie d’origine hanno riposto anche economicamente nella loro partenza, del loro sentirsi in retrocessione sociale, non liberi in quella che consideravano patria di diritti". A Udine è stato attivato invece il progetto “Liberi di stare bene”, dove l’accoglienza si fa attraverso i laboratori di cucina, sartoria e falegnameria. "Consideriamo l’accoglienza una forma di resistenza culturale – ha spiegato il vice direttore Caritas Paolo Zenarolla – le nostre comunità vengono alimentate dalla cultura del rifiuto". In Albania, invece, grazie a borse di studio alcune ragazze sono riuscite a laurearsi e si cerca di aiutare i giovani a non andare via. "Gli scafisti si stanno riorganizzando, siamo preoccupati – ha ammesso padre Antonio Leuci, direttore di Caritas Albania – Mentre tutti vanno via, noi Chiesa restiamo a lottare e soffrire con il popolo». E ci sono ancora tanti progetti in corso. "Speriamo di aver contribuito ad innescare prassi virtuose – la conclusione di Don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo –. Far percepire i migranti come fratelli e non come nemici". (Alessia Guerrieri - Avvenire)

Il profumo di pane…

14 Luglio 2020 - Roma - “A giudicare dalle anticipazioni, se saremo tra i vivi la ripartenza sarà graduale e complessa. Dovremo abituarci a convivere ancora con le mascherine, ci misureremo spesso la temperatura, una app traccerà il livello e la geografia del contagio. Sarà una normalità diversa da quella di prima. Difficile dire se e quanto ci abitueremo. Molto dipende da come stiamo vivendo questo periodo, dallo stress accumulato, dal grado di umanità che abbiamo fatto emergere”. Siamo al 16 aprile, a metà del “tempo sospeso” del lockdown imposto dall’epidemia da Covid 19. Da qualche mese il periodo di confinamento è terminato anche se il contagio continua e l’invito è sempre quello dell’essere attenti. Un tempo, quello del lockdown che il giornalista di “Avvenire”, Riccardo Maccioni, ha voluto raccontare, giorno per giorno in “Dalla strada arriva profumo di pane” edito da Ares. In quel 16 aprile Maccioni si fa una domanda che rimane ancora attuale: “quanta libertà siamo disposti a barattare in cambio della sicurezza, a quale livello massimo crediamo possa arrivare il controllo della nostra autonomia”. E la speranza che “l’adattamento cui siamo stati costretti dall’emergenza diventi scuola per la ritrovata quotidianità. Forse - scrive -  un patto con noi stessi però possiamo farlo, possiamo decidere su cosa tenere gli occhi aperti per evitare di doverli chiudere domani davanti agli effetti del nostro disinteresse”. Dopo averci, ogni giorno consegnato “pillole” di saggezza,  racconti - dalla sua finestra di casa, al mattino presto -   emozioni e affidato le sue riflessioni, sempre di speranza, il “Diario” di Maccioni si conclude il 5 maggio quando scrive: “Ora che le nostre città sono ripartite, possiamo con più libertà guardare indietro. Dentro l’isolamento forzato del ‘tutti in casa’, per vedere se le cose che ci sono mancate, alla prova della realtà erano davvero così importanti”. Una lettura che non può mancare alla riscoperta di qualcosa di nuovo e di bello da vivere di nuovo insieme dopo questo tempo “sospeso” e le tante domande …

Raffaele Iaria