14 Ottobre 2015 –
In Svizzera la popolazione straniera più numerosa rimane quella degli italiani (15.3%). In questo Paese sono arrivati da gennaio a dicembre 2014, 11.092 italiani con un incremento del 7.7% rispetto al 2013 ha detto don Carlo de Stasio aggiungendo che le MCI in Svizzera hanno percorso “un cammino lungo e impegnativo segnato da tappe e passaggi che nel corso degli anni hanno orientato la direzione di marcia; hanno scritto una gran bella storia ispirata dalla passione per la vita dei nostri connazionali emigrati in territorio elvetico, dall’amore per il Signore e la passione per la Chiesa”. Nel corso di più di un secolo, si sono avvicendati tanti volti di missionari e religiose, laiche e laici che “con intelligenza, generosità e impegno hanno dato un contributo notevole al bene delle comunità emigrate italiane in Svizzera”, ha aggiunto don De Stasio evidenziando che i “modelli pastorali attuati costituiscono ancora un cardine della pastorale migratoria e producono un gran bene”. Oggi – ha spiegato – la Chiesa locale e, al suo interno, le missioni linguistiche, avvertono “la necessità di forme nuove di pastorale migratoria finalizzate a vivere la dimensione della cattolicità e della comunione in una Chiesa pellegrina e migrante, popolo di Dio in cammino, ma facciamo fatica ad accettare questa sfida e a intraprendere con audacia, coraggio e creatività percorsi nuovi, più rispondenti a ciò che lo Spirito suggerisce oggi”. Per poter realizzare una pastorale di comunione – secondo il coordinatore delle MCI in Svizzera – è “indispensabile” che tra la Chiesa in Svizzera e la Chiesa in Italia si “rafforzi la collaborazione non solo per il bene delle comunità di missione già radicate in territorio elvetico ma anche per la presenza significativa di nuovi migranti dall’Italia che influenza la pastorale ordinaria, interpella le Chiese locali di partenza e di arrivo ed esige cooperazione fraterna”. Don De Stasio auspica “un maggior dialogo e confronto” tra “Migratio” e “Migrantes”, gli organismi preposti dalle due conferenze episcopali ad orientare la pastorale con i migranti e a curare i rapporti e la formazione dei Missionari. “Spesso – ha spiegato – non si è interpellati nella decisione di chiudere, fondere, ridurre il personale di una missione o esigere l’avvicendamento di un missionario; la decisione compete alla Chiesa locale e alle amministrazioni della chiesa cantonale ma, in un clima di collaborazione e cooperazione è opportuno e auspicabile il confronto e il dialogo per giungere ad una decisione condivisa e motivata”. Padre Tobia Bassanelli ha presentato la situazione nelle Mci in Germania dove esistono 83 Mci con 70 sacerdoti tra religiosi e diocesani. L’impegno è quello di “essere vicini ai nostri connazionali, nonostante le difficoltà” dovute alla carenze di sacerdoti e collaboratori pastorali. Sono, infatti, “in aumento nelle nostre Mci – ha detto padre Bassanelli – sacerdoti non italiani”. In questi mesi – ha aggiunto – “abbiamo il cambio del sacerdote in una decina di Missioni. Sugli 11 sacerdoti loro assegnati solo 2 sono italiani. Questo fa capire che senza la solidarietà di altre Chiese oltre un terzo elle nostre comunità dovevano essere chiuse o accorpate ad altre”. Stesse difficoltà si registrano in Francia, ha spiegato il coordinatore don Federico Andreoletti. In Francia le Mci sono 14 seguite da 12 missionari tra sacerdoti diocesani e religiosi. In Belgio – ha detto mons. Giovanni Battista Bettoni, attualmente ci sono 19 punti di riferimento per gli italiani; della pastorale si occupano 2 suore e 10 missionari. In Lussemburgo esistono 3 Missioni Cattoliche Italiane con 3 preti italiani al servizio delle missioni; un quarto sacerdote (lussemburghese) si interessa del personale della commissione europea. In Olanda 3 punti di comunità con un sacerdote francescano. L’età media dei missionari è di circa 70 anni con due soli sacerdoti under 50. Mons. Bettoni ha ripercorso il cammino della Chiesa belga verso le comunità italiane che invita ad un cammino di “inserzione-comunione” e dall’altra “si vede come nella pratica si affidi una parrocchia ad una comunità di origine straniera”, ha detto mons. Bettoni esprimendo una preoccupazione comune in diversi paesi d’Europa. “E’ difficile – ha spiegato – vedere come si possa camminare verso una comunione con le comunità locali quando si affida una chiesa ad una comunità che sarà tentata di vivere isolata proprio perché si vede ‘investita dell’autorità come parrocchia territoriale’”. Mons. Bettoni denuncia “la situazione di secolarizzazione nella quale vive la chiesa locale e da cui non sono assolutamente esenti neanche le nostre comunità di origine italiana”: “fino a poco tempo fa erano le comunità locali che avevano questo problema …oggi anche le nostre comunità non sono più ‘un’isola felice e protetta’. Anche le nostre comunità hanno perso ‘la seduzione” per potere essere punto di attrazione per le nuove generazioni. Rischiamo di essere punti di appoggio per le generazioni che si possono davvero chiamare emigrate ma che ora stano via via scomparendo”. “Questa situazione – ha detto – ci interpella e ci chiede non di ‘contare le nostre forze rispettive’, ma di fare ‘forza comune’ per annunciare Cristo come Salvatore… non fermandoci a volte troppo in contrapposizioni e battaglie di parte” . “Credo – ha concluso – che la nostra specificità e l’arricchimento che possiamo portare alla chiesa é continuare a vivere e proporre come cammino di ‘ chiesa di oggi’ la possibilità della coesistenza di comunità ‘territoriali’ accanto a comunità ‘di elezione’ dove il legame non è il territorio ma un sentire e una appartenenza che si porta in cuore”. Da qui l’invito a “rimettere in moto” degli incontri di riflessione affinché le commissioni episcopali delle due chiese “possano individuare modi di vedere e di agire per il cammino futuro e della vita delle nostre comunità e della presenza di sacerdoti dall’Italia che le sostengono”.
In Gran Bretagna le Missioni Cattoliche Italiane sono attualmente costituite dalla comunità di San Pietro a Londra, dalla comunità dei padri scalabriniani, dalle MCI di Nottingham, Loughborough, Leicester, Lincoln, Bradford e Nord di Londra ha spiegato don Antonio Serra. Oltre alla celebrazioni liturgiche, alla preparazione e celebrazione di tutti i sacramenti nella parrocchia di San Pietro esiste da più di vent’anni una charity che si chiama St. Peter’s Projet che si preoccupa di accogliere e assistere italiani in difficoltà dal punto di vista sociale, economico e sanitario. Esiste un servizio di accoglienza con volontari una volta a settimana presso la cripta di una chiesa anglicana, dove è assicurato un pasto caldo, dialogo, e assistenza umana e spirituale ai giovani in disagio. Anche l’assistenza alle carceri non “è trascurata ma al momento. I cappellani delle carceri inglesi non registrano detenuti italiani a Londra ma solo quelli provenienti dall’est europeo”, ha detto don Serra aggiungendo anche che all’interno del progetto pastorale di immigrazione nella stessa parrocchia è nato un progetto di orientamento per gli immigrati dell’Italia che desiderano avere notizie circa la sistemazione, lavoro e studio a Londra. Il progetto si chiama “Benvenuto a Bordo”: ogni settimana partecipano all’iniziativa circa 40 ragazzi. Altra iniziativa, tra le tante citate dal sacerdote la nascita a Braford della mensa del povero. Ogni sabato viene offerto un pasto caldo a una sessantina di persone. “Tutte le spese sono sostenute dalla comunità”, ha detto. In Gran Bretagna secondo i dati del Consolato vivono 260 mila italiani iscritti all’AIRE, con un ritmo di 2000 iscrizioni al mese. Al di là dei numeri ufficiali, il Consolato, però, ha detto don Serra, stima che l’effettiva popolazione italiana in Gran Bretagna sia di circa 500/600 mila persone presenti principalmente a Londra, Manchester, Newcastle, Bristol, Cardiff, Liverpool e Leeds. I recenti flussi riguardano per il 65% giovani dai 18 ai 35 anni e di questi il 57% è laureato. “Per questo motivo – ha detto don Serra – risuona spesso nei media e anche nelle nostre riunioni l’espressione ‘fuga dei cervelli’, come se esistessero esseri umani di serie A – quelli col cervello e quelli di serie C. Io eviterei questa espressione, perché come Chiesa siamo chiamati ad avere cura della persona tutta intera, anche e soprattutto di quella che è partita dimenticando il suo cervello a casa”. L’inserimento di queste persone è “difficile e problematico” a partire dalla lingua: i laureati che arrivano in Gran Bretagna hanno una competenza linguistica “buona ma di tipo scolastico. Una volta arrivati si rendono conto che l’inglese parlato è tutt’altra cosa. Tanti altri, invece hanno una competenza linguistica molto scarsa e in non rari casi pari a zero”. “Poiché la conoscenza dell’inglese è precondizione indispensabile per l’inserimento lavorativo in Inghilterra, molti trovano lavoro come lavapiatti nei ristoranti gestiti da italiani stessi, oppure come manovali in imprese gestite da italiani. Questo tipo di inserimento e il lavoro in un contesto italiano – secondo il sacerdote – fa sì che gli italiani diventino sempre più ghettizzati, impossibilitati ad apprendere la lingua nonostante una presenza pluriennale. Infine, la facilità di reperimento della manodopera e la gestione dell’impresa secondo stili e consuetudini italiane, alcuni imprenditori tendono a sfruttare i giovani appena arrivati con salari bassi e orari di lavoro spesso anche doppi rispetto a quelli consentiti dalla legge. Al primo cenno di cedimento o di ribellione i giovani vengono cacciati via dall’oggi al domani senza alcun preavviso”. Questi dati, “seppur imparziali e frammentati sollecitano la Chiesa locale e la Chiesa Italiana a rivolgersi a questo fenomeno “con urgenza e con grande attenzione e premura pastorale”. L’attuale “massiccia ondata di nuova immigrazione dall’Italia, peraltro in continua crescita lasciano presagire l’urgente necessità di incremento di presenza di operatori pastorali e di strutture adeguate che sappiano rispondere puntualmente all’emergenza umanitaria in atto, con un implemento significativo nelle grosse città”. I nostri emigrati – ha concluso – non si spostano in barconi e fanno “poca notizia”, ma anch’essi sono “gli ultimi ai quali noi Chiesa abbiamo il compito, non come opzione ma come vocazione, di manifestare il volto misericordioso del Padre”.
Nel suo intervento il vescovo ausiliare di Friburgo mons. Alain de Raemy ha ricordato la sua esperienza di migrazione ed ha spiegato che oggi occorre essere presenti, svizzeri e italiani residenti nel Paese elvetico, con un’unica missione che si realizza in una Chiesa “comune” dove “nessuno è straniero”. È una sfida – ha aggiunto mons. De Raemy – che va affrontata. In Svizzera le Missioni cattoliche italiane vengono viste, purtroppo ancora oggi, come “stranieri ai quali si dà in prestito una sala, una chiesa. Questo è sbagliato. Nessuno è straniero nella Chiesa”. Il Convegno prevede oggi pomeriggio un pellegrinaggio a Concesio, luogo natale di Papa Paolo VI con la concelebrazione presieduta dal Vescovo di Brescia, mons. Luciano Monari e giovedì a Nigoline, patria del vescovo Geremia Bonomelli, con la concelebrazione presieduta dal Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, mns. Nunzio Galantino.
Chiuderà i lavori, venerdì 16 ottobre, l’intervento di Mons. Gian Carlo Perego, Direttore generale della Fondazione Migrantes.