Don Nicolini vita e missione al fianco dei rom

Roma – Appassionato al popolo rom. Don Bruno Nicolini ha dedicato tutta la sua lunga (conclusasi a 85 anni il 17 agosto 2012) e ricca vita a questa sfida per il mondo e per la Chiesa. Fin da giovane prete aveva avuto l’occasione di conoscere alcuni sinti e rom quando era a Bolzano, appena ordinato sacerdote nel 1950 e poi viceparroco sin dal 1958. Un caso, come spesso amava ricordare, che ha cambiato la sua vita. «Fui mandato a fare questo mestiere che non sentivo e probabilmente non desideravo e allora chiesi a Dio, se si era fatto uomo volentieri o controvoglia. La risposta era nella domanda. Valeva anche per me».
È stata una passione e una fede la sua, che lo ha accompagnato lungo tutta la vita. Papa Paolo VI lo chiamò a Roma nel 1964, proprio per gli zingari e così fu uno dei curatori dello storico incontro europeo di Pomezia del settembre 1965, nello spirito del Concilio Vaticano II, di cui l’anno prossimo ricorre il cinquantenario. Un incontro che don Bruno ricordava sempre come fosse avvenuto pochi giorni prima e che nella sua vita è stato il segno fondante di una Chiesa che, forse per la prima volta, era vicina a quel popolo che egli tanto amava. Le parole del papa furono per lui una grande sfida e nutrivano la sua passione, ma anche un grande orgoglio per essere stato compreso e incoraggiato, in tempi in cui non era facile, anche nella Chiesa, essere accanto ai poveri. In quell’incontro gli zingari donarono al papa una Madonna, fatta fare in legno da un artigiano della Val Gardena, incoronata da Paolo VI «Regina degli zingari», la cui piccola copia don Bruno ha tenuto sempre accanto a se, nella sua camera.
La sua passione si è fatta più intensa negli anni romani. Nacque l’Opus Apostalatus Nomadum poi confluito nell’attuale Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti. Don Bruno rimase a Roma, anziché tornare a Trento, per vivere la sua esperienza accanto ai Rom nella periferia della città, motivo che gli fu riconosciuto tanti anni dopo, anche attraverso il premio Campidoglio, nel 2006. Il cardinale Poletti, alla fine degli anni Ottanta, lo nominò cappellano degli zingari a Roma, e da quel momento cercò ancor di più di coinvolgere le parrocchie e gli organi istituzionali a prendere sul serio quella che lui viveva come una grande battaglia di dignità dell’uomo. Fu sua l’intuizione di suggerire al Papa il saluto in lingua romanes durante la benedizione Urbi et orbi, sin dal 1978. Nel gennaio 1984 riuscì a far visitare a Giovanni Paolo II il campo a Tor Bella Monaca, nell’ambito della visita alla parrocchia di Santa Rita. Un incontro festoso e immediato, di cui tanti rom conservano ancora vivo il ricordo. A Roma, dopo l’Opera Nomadi, creò il Centro Studi Zingari, per meglio approfondire e far conoscere il tema della cultura Rom e la storia sia nella città che a livello internazionale.
Una sua grande intuizione è stata anche quella di costruire una Chiesa a cielo aperto al Divino Amore, con l’idea che divenisse un luogo di pellegrinaggio, di incontro e di preghiera per i rom e i sinti, ma anche per far memoria di una storia troppo spesso dimenticata, quella del ‘porrajmos’. La chiesa è dedicata al beato Zeffirino patrono degli zingari che don Bruno ricordava ogni 4 maggio, memoria della beatificazione: «Amati figli del popolo, il beato Zeffirino è per voi luce nel vostro cammino». Alla fine della sua vita, negli ultimi anni, nella sua fragilità si è ritrovato a vivere in spirito di amicizia in una casa della Comunità di Sant’Egidio, dove ha potuto gustare il valore della compagnia ricordando e ripercorrendo il suo lungo cammino accanto ai rom e ai sinti.  (Susanna Placidi – Avvenire)