Rimini – C’è una donna accanto alle rotaie, grossa, ben piantata sulle gambe divaricate, ha in mano tre bottiglie tenute insieme con lo spago. Verso lei avanzano le luci di un treno merci che rallenta nella vegetazione. Aggrappate al treno stanno centinaia e centinaia di persone: in alto sopra i vagoni e anche sul lato che guarda la donna, si allungano nel vuoto tenendosi a finestrini, maniglie. Il treno fischia e lei inizia a roteare in aria le bottiglie, sembra un lanciatore di pesi, la gente dal treno la vede, protende le braccia, lei rotea, rotea e poi lancia le bottiglie che sono afferrate da un groviglio di mani ed è il via per le donne che stanno dietro e lanciano altre bottiglie, sacchetti, cibo. I disperati del treno stanno cercando di raggiungere il confine del Messico per entrare negli Usa. Le donne sono di Veracruz, Messico. Le chiamano Las Patronas, le patrone. Sono le loro eroine.
La sala D3 del Meeting di Rimini è come sempre gremita per la rassegna di reportages internazionali a cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin. Il documentario Las Patronas, girato da Javier Garcìa, è la storia di un gruppo di donne messicane, contadine, che non hanno fatto finta di niente davanti al treno merci che passa dal loro villaggio e porta migliaia di persone dai Paesi del centroamerica fino al confine con gli Stati Uniti.
“Tanti anni fa il treno non portava gente – racconta la più anziana delle donne, magra, pelle incartapecorita da una vita passata a tagliare le canne da zucchero – poi hanno cominciato a salirci, sempre di più. Sembravano mosche incollate ai vagoni. Credo che quello che facciamo per loro sia dovuto all’insegnamento dei nostri genitori: rispettare le persone e soprattutto amarle. Amare non costa niente”.
L’inquadratura passa a un ragazzo: è sulla vetta del treno che sta andando, siede sopra il vagone in movimento, il vento gli fa sbattere la maglietta. “Quando non si può mantenere la famiglia si va fuori. Veniamo da Nicaragua, El Salvador, Guatemala, Honduras. Voglio andare negli Stati Uniti d’America per lavorare e dare da mangiare ai miei figli, non m’importa di avere la residenza, solo del loro futuro”. Salire sul treno non è facile. Chi ce l’ha fatta racconta di ragazzi che restano mutilati, o riescono a evitare per un soffio le ruote del treno. È da brivido lo spezzone in cui cercano di salire sul treno in corsa due genitori che si passano la bambina di pochi anni, urlante.
Spiega Norma Romero, anima delle Las Patronas: “Un giorno ci siamo avvicinate al treno e gli uomini ci gridavano: ‘Madre abbiamo fame’. Sono tornata a casa e ho detto: ‘Dobbiamo dargli del cibo’. Non sapevamo chi fossero”. Erano migrantes che affrontavano un viaggio di venti giorni sotto il sole, la pioggia, verso la speranza. Alcuni non mangiavano da cinque giorni, erano stanchi, affamati. La famiglia di Norma si mette all’opera: vengono preparate bottiglie d’acqua, riso, tortillas. Cuociono i fagioli con il pomodoro “per farli migliori”. Poi vanno ai binari.
“Quando il macchinista ci ha viste e il treno ha iniziato a fischiare la gente si è affacciata. Abbiamo iniziato a lanciare il cibo e l’acqua”. I vicini di casa volevano denunciarle. “Che male facevamo a dare da mangiare cibo nostro a gente affamata? Non c’erano organizzazioni umanitarie”. Era il 1995.
“Quando il macchinista ci ha viste e il treno ha iniziato a fischiare la gente si è affacciata. Abbiamo iniziato a lanciare il cibo e l’acqua”. I vicini di casa volevano denunciarle. “Che male facevamo a dare da mangiare cibo nostro a gente affamata? Non c’erano organizzazioni umanitarie”. Era il 1995.
Dovranno passare quasi vent’anni perché giungano riconoscimenti, vincano premi umanitari, siano chiamate nelle Università a testimoniare questo straordinario impegno. Nel frattempo arrivano altre persone ad aiutare, come la cognata: “Pensavo: perché dovrei farlo? Ma loro erano così felici mentre raccontavano delle persone del treno, volevo vedere anch’io quello che vedevano”.
Norma si commuove ricordando una storia che le è stata riportata: quella di un ragazzo che, sfinito dopo giorni di freddo e digiuno, si era addormentato felice perché grazie a loro aveva potuto sfamarsi. Ma il treno frenò bruscamente, lui cadde. I suoi compagni di viaggio raccontano che morì riconoscente, sapendo che nel mondo esiste gente di cuore. “Se non ci fossimo noi – commenta Norma – potrebbero pensare che non ci sia più speranza”.
Norma si commuove ricordando una storia che le è stata riportata: quella di un ragazzo che, sfinito dopo giorni di freddo e digiuno, si era addormentato felice perché grazie a loro aveva potuto sfamarsi. Ma il treno frenò bruscamente, lui cadde. I suoi compagni di viaggio raccontano che morì riconoscente, sapendo che nel mondo esiste gente di cuore. “Se non ci fossimo noi – commenta Norma – potrebbero pensare che non ci sia più speranza”.
Dopo tanti anni i migrantes sanno che sul loro cammino ci sono Las Patronas. “Non ci conoscono e si prendono cura di noi – afferma un migrantes dall’alto del treno – Ci salvano la vita e io prego Dio per loro”. A Norma e alle altre arrivano lettere di ringraziamento da chi ce l’ha fatta: ‘Ricevete i miei migliori auguri’, ‘Grazie di quello che fate’. “Ci saremo – afferma Norma, sicura e solida come quando si prepara al lancio dell’acqua – finché ci saranno i migrantes”. (D.T.)