23 Febbraio 2022 – Firenze – Libia e Italia sono incredibilmente vicine fra loro, e non solo perché a separarle ci sono poco più di 250 miglia marine (neppure 500 chilometri). Le unisce un passato condiviso, anche se spesso doloroso: la storia della dominazione coloniale italiana, conflittuale e violenta, chiusa nel 1951 con la proclamazione dell’indipendenza libica, ha pesato sulle relazioni tra i due Paesi che, tuttavia, non si sono spente mai. Anche nei momenti di tensione e isolamento internazionale vissuti durante la dittatura di Gheddafi, sono proseguiti gli scambi economici e culturali, testimonianza di interessi e radici comuni.
Così, quando con il rovesciamento del regime e la frammentazione territoriale e politica, non ancora risolta, la lunga costa libica, ormai libera da controlli, si è trasformata nel luogo di partenza ideale per i migranti diretti in Europa, l’Italia è parsa il partner naturale di una cooperazione per la gestione dei flussi, tanto più che era in Italia che quei migranti, i sopravvissuti al viaggio, venivano a sbarcare. Diversi accordi si sono succeduti, tracciando un’evoluzione delle strategie culminata nel Memorandum del febbraio 2017, tuttora in vigore.
Il suo cuore è il trasferimento degli oneri legati all’immigrazione (controlli dei documenti, ricezione ed esame delle domande di protezione, accoglienza, rimpatri) dal luogo di destinazione (l’Italia) al luogo di partenza (la Libia), mentre le autorità italiane si impegnano a supportare materialmente le attività necessarie, con mezzi e finanziamenti. Si chiama esternalizzazione delle frontiere, ad oggi è la politica europea ufficiale in materia migratoria (lo stesso schema è adottato, ad esempio, tra UE e Turchia) e il suo obiettivo dichiarato è evitare le morti in mare, prevenendo le partenze. È un obiettivo legittimo e doveroso, dalla prospettiva dei migranti prima che degli Stati, perché sono loro i primi ad aver diritto a una migrazione ordinata e sicura e ad un’accoglienza dignitosa. Solo che spesso ciò viene dimenticato: non si aprono canali d’ingresso alternativi, non si vigila sulla correttezza delle procedure d’asilo e l’unica cosa che sembra importare è l’alzata di una barriera sui confini europei, indifferente a quanto avviene al di là, nel mare, dove i migranti sono intercettati con le armi, e a terra, dove sono detenuti in condizioni disumane.
Cooperare è necessario quando le questioni travalicano i confini, ma il faro deve rimanere il rispetto della persona, dei diritti, della vita. La collaborazione italo-libica deve essere ripensata, lo chiedono da tempo organizzazioni umanitarie e organismi internazionali per la tutela dei diritti umani. Papa Francesco ha definito l’attuale sistema “criminale”. L’incontro di Firenze sul Mediterraneo, che si apre noggi, può essere il punto di partenza: in città arriveranno Vescovi dell’area nordafricana e mediorientale e alcuni Sindaci libici, riferimenti fondamentali in un territorio in cui, nella perdurante assenza di un solido potere centrale, gli unici decisori restano le autorità locali (non è un caso che l’attuazione dello stesso Memorandum abbia richiesto l’accordo con una delegazione di sindaci libici). È l’occasione per accantonare le difficoltà, e il distacco, dei rapporti intergovernativi e mettere in pratica la “diplomazia delle città”, o delle Chiese, come l’ha definita mons. Antonino Raspanti, vicepresidente della CEI, alla ricerca di soluzioni nuove, davvero umane. (Livia Cefaloni)