31 Gennaio 2022 – Città del Vaticano – “Passando in mezzo a loro si mise in cammino”. La Chiesa è immagine di una comunità in cammino, “cantiere aperto”, che prende sul serio l’invito del Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes, di fare posto “nel cuore” alle gioie e speranze, alle tristezze e angosce degli uomini di oggi. Cammino “di fratellanza, di amore, di fiducia”, disse Papa Francesco affacciandosi dalla loggia centrale della basilica di San Pietro il giorno della sua elezione, 13 marzo 2013. Torna spesso, nelle parole del vescovo di Roma, il termine cammino, come a Firenze, al convegno ecclesiale, quando parlò di cambiamento d’epoca, di cammino sinodale, di una chiesa “inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”; una chiesa, una comunità, che non costruisce “mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”; che non ha paura degli ostacoli, perché le sfide diventano occasioni, nella certezza che Deus caritas est, Dio è amore.
Il Vangelo di questa domenica ci porta ancora nella sinagoga di Nazareth, tra le persone che lo hanno conosciuto fin dalla nascita. Gesù ha consegnato il rotolo della legge, dopo aver letto il passo del profeta Isaia, l’annuncio di un anno di grazia, ovvero il lieto messaggio ai poveri, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi. Parole che affascinano e stupiscono, ma anche inquietano, forse spaventano. Questo giovane, il figlio del carpentiere Giuseppe, annuncia una parola difficile da ascoltare per i suoi concittadini. Difficile soprattutto perché viene, come dire, da uno di casa, noto a tutti. All’inizio è la meraviglia: “gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, scrive Luca nel Vangelo; e più avanti: “tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Poi ecco lo sdegno “all’udire queste cose”.
Esito amaro, dice Papa Francesco all’Angelus, “anziché ricevere consensi, Gesù trova incomprensione e anche ostilità. I suoi compaesani, più che una parola di verità, volevano miracoli, segni prodigiosi. Il Signore non ne opera e loro lo rifiutano, perché dicono di conoscerlo già da bambino, è il figlio di Giuseppe. Così Gesù pronuncia una frase diventata proverbiale: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”.
Per le persone presenti nella sinagoga egli doveva essere soprattutto colui che curava le loro infermità e colmava i loro bisogni: “quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria”, leggiamo sempre in Luca. Gli abitanti di Nazareth hanno saputo quanto Gesù ha già compiuto, i segni già operati e ciò che chiedono è appunto altri segni che risolvano i loro problemi, lì dove è la sua casa, la sua gente, la sua patria.
Ma Gesù mette in primo piano l’altro termine, profeta; come per dire di essere pronto a compiere segni e guarigioni ma non per soddisfare solamente alcuni bisogni e richieste, piuttosto per rivelare che la parola, la promessa di Dio ha iniziato ad attuarsi nella storia: “oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito…”
Allora, perché andare incontro a questo esito, quando l’insuccesso “non era del tutto imprevisto”; Gesù “conosceva i suoi, conosceva il cuore dei suoi e sapeva il rischio che correva”. Perché “davanti alle nostre chiusure, non si tira indietro: non mette freni al suo amore. Davanti alle nostre chiusure, lui va avanti”, e oggi, afferma all’Angelus il Papa, “invita anche noi a credere nel bene, a non lasciare nulla di intentato nel fare il bene”.
L’importante è come accogliere: “non lo trova chi cerca miracoli”, dice Francesco, “chi cerca sensazioni nuove, esperienze intime, cose strane; chi cerca una fede fatta di potenza e segni esteriori. No, non lo troverà. Soltanto lo trova, invece, chi accetta le sue vie e le sue sfide, senza lamentele, senza sospetti, senza critiche e musi lunghi”. Il Signore “sempre ci sorprende” e ci chiede “di accoglierlo nella realtà quotidiana che vivi; nella Chiesa di oggi, così com’è; in chi hai vicino ogni giorno; nella concretezza dei bisognosi, nei problemi della tua famiglia, nei genitori, nei figli, nei nonni, accogliere Dio lì”. C’è bisogno di costruire cammini nuovi, “ricucire” i rapporti personali, le relazioni tra gli Stati, dice i Papa ai ragazzi dell’Acr. È la Chiesa del Concilio, popolo di Dio in cammino. (Fabio Zavattaro – Sir)