26 Settembre 2021 –
La Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra oggi è la 107°: un dato eloquente, che parla di un impegno della Chiesa cattolica lungo tutto il Novecento, smentendo chi ripete che la sollecitudine per gli stranieri e gli esiliati è un’invenzione di papa Francesco.
Nello stesso tempo, il tema indicato dal Papa nel suo messaggio di quest’anno suona drammaticamente attuale e persino provocatorio: “Verso un noi sempre più grande”. La pandemia ha dimostrato che i destini di tutti sono intrecciati fra loro in modo inestricabile, eppure la tentazione di «nuove forme di auto-protezione egoistica» è sempre incombente. Parlare di immigrati e rifugiati, in effetti, è parlare di noi: delle nostre idee di comunità, di confini, di solidarietà, di sicurezza.
Le nazioni moderne, e anche il Welfare State, grande invenzione del secondo Novecento, si sono costruite attorno a una visione molto netta della coincidenza tra territorio, popolazione, cittadinanza. Il noi nazionale era ben distinto dagli altri, ossia dai cittadini di altre nazioni, e a volte contrapposto. Solo ai propri cittadini lo Stato prometteva protezione, diritti, partecipazione alle decisioni politiche.
L’immigrazione straniera ha scombussolato il quadro: stranieri, provenienti da Paesi più deboli, s’insediano nello spazio nazionale, inizialmente come lavoratori, poi come famiglie. Contribuiscono al benessere, e ottengono l’accesso a un pacchetto di diritti sociali: sanità, pensioni, scuola per i figli, servizi pubblici. Tra resistenze di vario genere, il noi nazionale è chiamato ad allargarsi. Se pensiamo ai matrimoni misti, alle seconde e terze generazioni, le distinzioni tra cittadini e residenti stranieri sono diventate via via più labili.
Dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, nasce l’Onu, si concorda e proclama la Dichiarazione universale dei diritti umani, viene firmata la convenzione di Ginevra a tutela dei rifugiati. Altri stranieri ottengono dei diritti, indipendentemente dal contributo fornito all’economia dei Paesi ospitanti: in quanto perseguitati, o semplicemente perché esseri umani rivestiti di diritti inalienabili. Pensiamo per esempio alla libertà di culto. Anche da questo versante, il noi si è allargato.
Questo ampliamento del noi ha subito tuttavia negli ultimi decenni diverse battute d’arresto. Basti considerare come il tema della sicurezza ha intaccato l’immagine degli immigrati e la disponibilità all’accoglienza dei rifugiati. O alla contrapposizione tra la protezione dovuta ai cittadini nazionali in difficoltà e quella richiesta da chi bussa alla porta dei confini.
Il mondo sviluppato vive oggi profonde tensioni, tra espansione e restrizione del noi. Due eventi recenti lo testimoniano: sul versante positivo, l’accoglienza ottenuta dai primi flussi di profughi afghani. Pochi hanno posto in dubbio l’obbligo morale dell’Occidente di proteggerli, anche se resta incerta la portata di quest’obbligo: solo i collaboratori delle potenze occidentali, o anche altri perseguitati, per esempio le donne che hanno perso il lavoro o non potranno studiare? E coloro che non possono professare la propria fede? Sull’altro piatto della bilancia troviamo invece le scene viste al confine tra Texas e Messico, come pure le gesta di Frontex ai confini orientali dell’Unione Europea, o i trattamenti dei richiedenti asilo al confine con la Bosnia o, ancora, nei centri di detenzione libici.
Il Papa non dice che occorre accogliere tutti, e nemmeno esistono del resto i fantomatici “tutti” che vorrebbero venire in Europa: gli immigrati internazionali dopo tutto sono il 3,6% della popolazione mondiale, e i rifugiati all’estero circa un decimo di questi. Ma il messaggio di Francesco ancora una volta spinge a elaborare regimi di mobilità meno sperequati a svantaggio della parte più debole dell’umanità: a concepire un quadro di regole e di canali per migrazioni «sicure, ordinate e regolari», come auspica il Global Compact dell’Onu. Che l’Italia non ha ancora firmato. (Maurizio Ambrosini – Avvenire)