23 Settembre 2021 – di don Giovanni De Robertis*
Il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato trae ispirazione da una preoccupazione e da un desiderio che papa Francesco aveva già espresso nella sua enciclica Fratelli tutti. La preoccupazione che, «passata la crisi sanitaria, (…) di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica», e il desiderio che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Egli così ci ha voluto «indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo». Dio infatti ha creato l’essere umano come un noi: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1,27-28). Dio ci ha creati maschio e femmina, esseri diversi e complementari per formare insieme un noi destinato a diventare sempre più grande con il moltiplicarsi delle generazioni. Dio ci ha creati a sua immagine, a immagine del suo Essere Uno e Trino, comunione nella diversità. Ed è ancora verso un noi che è orientata la storia umana, destinato ad includere tutti i popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3). Tuttavia «il tempo presente ci mostra che il noi voluto da Dio è rotto e frammentato, ferito e sfigurato». L’immagine di Dio, a causa del peccato, dell’individualismo radicale e di nazionalismi chiusi e aggressivi, si è frantumata. Agostino esprime bene questa nostra condizione, così come pure l’opera di Dio, con un gioco di parole indimenticabile: «Il nome stesso di Adamo, l’ho detto più di una volta, significa l’universo secondo la lingua greca. Comprende infatti quattro lettere: ADAM. Ora in greco il nome di ognuna delle quattro parti del mondo comincia con una di queste quattro lettere: l’Oriente si dice Anatolè, l’Occidente Dysis, il Nord Arctos, e il Mezzogiorno Mesembria; ciò che fa ADAM. Adamo stesso dunque è sparso ora su tutta la superficie della terra. Concentrato una volta in un solo luogo, è caduto e, spezzandosi, ha riempito tutto l’universo con i suoi frammenti. Ma la misericordia divina ha riunito da ogni parte questi frammenti, li ha fusi al fuoco della sua carità, ha ricostituito la loro unità spezzata. Opera immensa, è vero, ma nessuno ne disperi, è un’opera che Egli sa fare» (In Ioannem, trat.9 n.14). E noi tutti siamo chiamati a collaborare con Dio in quest’opera, a ricostruire l’unità spezzata, «a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità». A questo scopo in occasione della GMMR il Papa lancia un duplice appello. Anzitutto ai fedeli cattolici. A vivere quello che il loro nome esprime. Essere cattolici significa saper riconoscere e accogliere il bene ovunque esso sia, e rallegrarci di esso; significa essere docili allo Spirito che «ci rende capaci di abbracciare tutti per fare comunione nella diversità, armonizzando le differenze senza mai imporre una uniformità che spersonalizza». E proprio nell’incontro con la diversità dei migranti, nel dialogo interculturale e interreligioso ci è data l’opportunità di crescere in questa dimensione. Dobbiamo dunque rendere più cattoliche le nostre parrocchie, le comunità in cui ognuno di noi vive. Il secondo appello il Papa lo rivolge a tutti gli uomini e le donne del mondo perché imparino a vivere insieme in armonia e in pace, ad abbattere muri e a costruire ponti, per fare delle frontiere luoghi privilegiati di incontro e non di separazione. Ma tutto questo potrà avvenire solo se saremo capaci di sognare un futuro a colori per le nostre società. Ogni cambiamento ha inizio da un sogno, se no resta solo un sogno individuale, ma fatto insieme. È quel sogno di fraternità annunciato dai profeti, e più vicino a noi da Martin Luther King in quel famoso discorso dell’agosto 1963 con cui mi piace concludere queste mie brevi riflessioni: «E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno, I have a dream. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. I have a dream, ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. I have a dream, ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. I have a dream, ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere (…). È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi».
*Direttore generale Fondazione Migrantes