9 Febbraio 2021 – Asti – Nella nostra città, Asti, ci sono diverse categorie di persone che vivono ai margini, persone invisibili in veri e propri ghetti, una fra tutte è rappresentata da coloro che abitano nelle case occupate, e poi ci sono categorie che diventano visibili solo quando emergono delle problematiche. Tra queste la comunità Rom. Ad Asti i campi rom sono ben nascosti dalla città, in periferia, in zone abbandonate a sé stesse dove abitano più di 260 persone, tra cui circa 130 minori.
Da diversi anni in tutta Europa si parla della necessità di superare i campi nomadi, ma è importante riflettere in quale modo possa avvenire tale superamento perché è innegabile la complessità della situazione e dei progetti di accompagnamento e sostegno a questa comunità, ma è necessario che il Comune e tutta la cittadinanza riflettano su cosa significhi superare i campi e le conseguenze di tali politiche.
Per parlare di superamento dei campi è necessario prima di tutto conoscere le comunità delle quali si parla, conoscere le condizioni del campo, cercare di ragionare senza basarsi su pregiudizi ma partendo dalla vita del campo e dai loro abitanti. Ad Asti si parla molto del campo di via Guerra, ma bisognerebbe prima andarci, parlare con le persone ed entrare in relazione con loro, persone che vivono in modo stanziale nella nostra città.
La situazione oggi al campo è precaria, la pandemia ha aggravato la condizione di vulnerabilità in cui già vessavano le persone del campo.
Nessuno vorrebbe vivere in condizioni igienico sanitarie così pesanti, particolarmente pessime per una parte del campo, ma nessuno ci starebbe se non avesse altra scelta.
Scelta dovuta ad una storia fatta di emarginazione e precarietà (non dimentichiamo che l’etnia rom fu anche perseguitata e deportata durante il periodo nazifascista) e determinata da una condizione di povertà obbligata dalla quale è molto difficile per loro uscirne con le proprie forze. I forti pregiudizi intorno a questa etnia non gli permettono di essere considerati degni della fiducia di un possibile datore di lavoro e ciò determina l’alto tasso di disoccupazione, nonostante alcuni dei giovani abbiano conseguito il diploma di scuola superiore, l’arrabattarsi in lavoretti come quello della raccolta del ferro e il vivere in condizioni così difficili anche dal punto di vista igienico sanitario.
Il nostro Comune da diverso tempo esprime la necessità di superare il campo rom ma dovrebbe essere prioritario prima attuare un percorso di inserimento sociale e una progettazione a lungo termine. Vediamo con grande scetticismo e disapprovazione la proposta di un trasferimento temporaneo in tendopoli o una “buona uscita” di qualche migliaio di euro perché possano scegliere di allontanarsi dal campo. Ammassare un tale numero di persone in tende non può rispettare condizioni dignitose di vita, per lo più con una sorveglianza h24 come fossero criminali all’interno di un carcere, nè si può pensare che possa essere una soluzione di breve durata perché per un nuovo spostamento sarebbe necessario un progetto sul futuro che gli permetta di vivere in legalità nel rispetto delle proprie scelte di vita.
Non è sufficiente il contributo di qualche migliaio di euro per l’acquisto di una casa, poiché è un’azione non sostenibile dalle famiglie rom, che non avrebbero le forze economiche di acquistare una casa e di mantenersi da soli senza prima un inserimento lavorativo.
Come accaduto in molte altre parti di Italia, la chiusura del campo senza una vera progettazione sociale significherebbe solo il trasferimento del problema in un altro territorio o nuclei famigliari per strada. Inoltre è importante considerare che all’interno del campo risiede un numero considerevole di minori in età scolare, sui quali il Comune ha investito attraverso diversi progetti fruttuosi che sarebbe opportuno incrementare, garantendo ai bambini la continuità scolastica.
Gli abitanti del campo di via Guerra sono persone, volti, storie e non si sgomberano le persone, si sgomberano le cantine: sulle persone si investe in progetti di inserimento sociale che possano assicurare un futuro ai suoi abitanti, possibile solo avendo un progetto su ogni famiglia che gli dia la possibilità di sostenersi e camminare autonomamente, superando un approccio assistenzialista e mettendo al centro la dignità della persona ed i diritti sia che viva in alloggio sia nel campo. Per vincere questa sfida occorre recuperare quella dimensione di fraternità della quale ci parla papa Francesco nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” ed investire in modo serio nel trovare una collocazione prima lavorativa e poi, eventualmente, abitativa per queste persone, per questi fratelli. (Ufficio Migrantes Asti)