22 Ottobre 2020 – Milano – L’immigrazione è forse l’argomento che più si è prestato negli ultimi anni alla diffusione di credenze e leggende lontane dai dati effettivi: in genere drammaticamente enfatiche, ripetute con tale frequenza da finire per essere prese per vere, e risolutamente riottose di fronte alle smentite fornite dalle fonti statistiche disponibili. Queste non sono perfette, ma di certo risultano più affidabili delle dicerie un tempo propagate di bocca in bocca, ora divulgate mediante i social media, e anche cavalcate da chi ha interesse ad accreditarle come veritiere.
Per fortuna ogni tanto arriva qualche studio a presentare i dati reali a chi vuole conoscere un po’ meglio il fenomeno, senza accontentarsi di seguire l’opinione corrente e gridata.
Un esempio è l’ultimo Rapporto immigrazione di Caritas-Migrantes, che reca il significativo sottotitolo ‘Conoscere per comprendere’. In un Paese di 60 milioni di abitanti in cui resta così diffusa la paura dell’’invasione’, fa impressione leggere per esempio che dal 2018 al 2019 i residenti stranieri sono aumentati soltanto di 47.000 unità, e i permessi di soggiorno di appena 2.500. Come se non bastasse, le nascite da cittadini stranieri (un dato difficile da smentire, o di cui sospettare una sottovalutazione) sono addirittura calate, da 68.000 nel 2017 a 63.000 nel 2019. Nel 2012 sfioravano quota 80.000. In entrambi i casi incidono le acquisizioni di cittadinanza, grazie alle quali i neo-italiani scompaiono dalle statistiche sugli immigrati, ma per sostenere la tesi dell’invasione ci vorrebbe ben altro. Ancora, i motivi del permesso di soggiorno sono da anni eminentemente familiari (quasi la metà del totale: 48,6%). Asilo e protezione internazionale concorrono per un modestissimo 5,7%, ponendo in luce quanto sia lontana dalla realtà l’equivalenza tra immigrati regolari e richiedenti asilo. Bisogna poi aggiungere che 1,5 milioni di cittadini comunitari non hanno bisogno di permessi, e di certo non chiedono asilo. Altri dati interessanti sono stati prodotti dalla Fondazione Leone Moressa, che si occupa periodicamente del rapporto tra i costi e i benefici dell’immigrazione per lo Stato italiano. Qui la notizia saliente, già evidenziata da questo giornale (Avvenire, ndr), riguarda il gettito che l’immigrazione arreca alle casse dello Stato italiano, grazie a imposte e contributi versati dai 2,5 milioni di immigrati regolarmente occupati: 500 milioni di euro nel 2019. A tanto ammonta il saldo tra spese sociali e prelievi fiscali e contributivi a carico dei cittadini stranieri. L’età media ancora giovane comporta un basso numero di pensionati (intorno al 4%) e un’incidenza sulla spesa sanitaria più bassa della media nazionale.
Al conto andrebbero aggiunte tre specificazioni. La prima si riferisce al fatto che alcune voci di spesa comportano a loro volta dei benefici per la collettività: per esempio l’inserimento scolastico di oltre 800.000 alunni stranieri, senza contare i naturalizzati, rappresenta di certo un costo, ma anche un’opportunità d’impiego per migliaia di insegnanti, tutti italiani. Grazie agli alunni di origine straniera inoltre rimangono in vita molte scuole, in quartieri di periferia e borghi spopolati. Stesso discorso per le nascite: costo sanitario, ma investimento sociale. La seconda specificazione rimanda a benefici più difficili da quantificare e riconducibili al ruolo dei 5,3 milioni d’immigrati come consumatori. Con i loro acquisti contribuiscono a far girare l’economia e aumentano il gettito dell’Iva. Se dispongono di un’auto o di una moto, facendo il pieno di carburante pagano altre tasse. Alcuni segmenti di mercato trovano negli immigrati un’importante quota di clienti: gli alloggi dei quartieri popolari, le auto usate, i discount di periferia.
In terzo luogo, non solo gli immigrati finanziano la spesa sociale, ma contribuiscono a contenerla. Più precisamente, le assistenti familiari (come le chiama il contratto di lavoro), dette comunemente badanti, aiutano le famiglie a mantenere gli anziani fragili a casa, abbassando il fabbisogno di strutture protette. Questi benefici però non sono eterni. La Fondazione Moressa rileva che la prevalenza di lavori poco qualificati e la scarsa mobilità sociale nel tempo possono intaccare l’apporto degli immigrati alle casse dello Stato e alla società italiana. Aggiungerei che anche gli immigrati sono destinati col tempo a invecchiare e ad ammalarsi maggiormente, con una progressiva crescita della spesa sociale loro destinata. Perché persista un saldo positivo per le casse dello Stato, occorre l’immissione di nuova immigrazione regolare e regolata, giovane e produttiva. Ma per accoglierla e valorizzarla occorre lungimiranza, e anche coraggio. La stessa lungimiranza e lo stesso coraggio che servono per valorizzare e non spingere a loro volta all’emigrazione le giovani generazioni di italiani. (Maurizio Ambrosini – Avvenire)