15 Ottobre 2020 – Roma – A pochi giorni dalla Giornata Mondiale Missionaria, che si celebrerà domenica prossima, una domanda si pone: “ha senso ancora oggi nel 2020 parlare di missione? Ha senso ancora oggi parlare di missionari?”.
Il missionario, meglio il sacerdote, suora o laico/a, che si prende a cuore la cura spirituale dei propri connazionali residenti come lui/lei in una nazione altra dalla propria, è colui – spiega don Valeriano Giacomelli, delegato per le Missioni Cattoliche di Lingua Italiana in Romania – che dovrebbe “mostrare” gli effetti della “presenza di Dio nella sua vita, colui che è cosciente del fatto che il frequentare Dio, nutrirsi di Lui, Parola ed Eucarestia, accogliere Lui nel fratello e nella sorella che incontriamo ogni giorno, mettendosi al loro ‘servizio’, sia la cosa più normale, bella e saggia che una persona possa fare”. Per don Giacomelli occorre “primariamente informare”, cioè far giungere ai nostri connazionali, tramite il passaparola, tramite i normali mezzi di comunicazione e, “perché no, valorizzando e chiedendo ‘ospitalità’ ai vari gruppi social di associazioni italiane già presenti sul territorio, la notizia che, in questa o quella città, c’è una Messa in italiano, ci sono in lingua italiana delle iniziative di tipo aggregativo, catechetico/pastorali. Se si trovano le possibilità, dar vita a delle riviste o gruppi social come abbiamo fatto anche noi qui in Romania con il settimanale Adeste o con il Facebook”. Nella sua riflessione il sacerdote italiano, da oltre venti anni al fianco degli italiani che, per vari motivi, si ritrovano a vivere di passaggio o più o meno stabilmente in Romania, sottolinea che questa esperienza ha “accresciuto” la convinzione che, per “poter rafforzare e/o sostenere la vita di fede, speranza e carità dei nostri connazionali, occorre innanzitutto mettersi umilmente al loro fianco tramite un atteggiamento di ascolto empatico e, con tanta delicatezza, ma anche risolutezza, cercare di aprire loro la mente e il cuore affinché colgano la presenza di Dio che è un buon Padre che ricopre ogni persona del suo affetto e che viene sempre incontro a tutti per accoglierli o riaccoglierli”. “Accoglierli o riaccoglierli” è un’azione questa da parte di Dio che il “missionario” è “chiamato a mediare. Ci sono molti connazionali con i quali occorre primariamente avere un approccio umano e questo perché si tratta di persone che hanno trascurato, già dall’Italia, il loro rapporto di fede”. Per il delegato una sfida importante è quella legata ai giovani italiani che arrivano in Romania per frequentare le università romene in modo stabile o tramite il programma Erasmus: “anche nei loro riguardi credo sia importante andare là dove si trovano e cioè nelle università da loro frequentate e fare loro delle proposte concrete che siano anche di tipo caritativo oltre che spirituale”. Si dice convinto che oggi c’è necessità di essere “per strada” don Luigi Usubelli, missionario con gli italiani a Barcellona: “io, per ironia, mi definisco un ‘prete per strada’ e non un ‘prete di strada’ perché penso che c’è il modo di accogliere il dono dell’imprevedibile che lo Spirito ci suggerisce e ci propone. Bisogna camminare, stare – spiega – concretamente per strada, creare incontri, creare opportunità di incontro e raccogliere quelle opportunità che la vita ci offre”. Don Usubelli parla di “doppio movimento di missione con gli italiani all’estero oggi: radunare e raggiungere”. “Radunare i diversi livelli pastorali quindi fare comunità” e raggiungere cioè “recuperare questa dimensione di uscire e raggiugere le persone italiane che vivono qui con la nostra presenza discreta presente”. Per “chiamare – spiega il sacerdote italiano – bisogna mettersi ‘per’ e raggiungere le persone ed essere raggiungibili”. La scelta di andare a lavorare in Missione per don Pierluigi Vignola, missionario con gli italiani ad Amburgo – “è una scelta di chi dopo anni di servizio, e con una certa ‘base’ alle spalle, voglia fare l’esperienza nuova. Non mi sarei mai immaginato – dice – di venire in una terra la cui lingua per me è sempre stata ostica, e che mi si disse durante il dottorato di studiarla perché serviva per la Teologia. Mai fatto, ma era destino dover studiare il tedesco. Da qui nasce l’esperienza di chi ha avuto ed ha come preoccupazione principale ed attenzioni prioritarie le famiglie in una Missione con circa 30.000 persone: famiglie da istituire o sostenere e quelle da coinvolgere ed animare. Le famiglie italiane – aggiunge don Pierluigi – con la loro religiosità semplice e tanta devozione, non fa sentire il peso del servizio, anzi sempre più la gioia di trasmettere come gli apostoli la Parola di Dio”. Ecco allora che l’essere prete in missione diventa “ogni giorno sempre arricchente. Anche se non sono mancati e non mancano problemi e limiti, posso dire che in questi sei anni ho cercato di far entrare ancor più profondamente la missione nel cuore della nostra gente”. Effettivamente – aggiunge don Domenico Basile, missionario con gli italiani a Lucerna in Svizzera – può sembrare superfluo forse usare due termini come missione e missionario, soprattutto “per noi che viviamo in Svizzera. Potevano essere usati una volta per indicare l’opera evangelizzatrice di coloro che partivano per i continenti per annunciare il Vangelo di Gesù a quei popoli che mai avevano sentito parlare di Lui; ma oggi nel mondo della globalizzazione, molti dicono che non ha più senso parlare di missione e di missionari. Eppure, personalmente, penso che soprattutto oggi sia necessario appropriarsi del significato ‘genuino’ di questi due termini che non vanno mai persi (per brevità di spazio non posso dilungarmi sulla mia riflessione) ma penso che sia ‘urgente’ soprattutto oggi parlare di Missione e di missionari e non solo come presbiteri o consacrati, bensì come battezzati”. Don Basile è in Svizzera da 25 anni a servizio delle Comunità di lingua italiana e “il mio essere qui in questo contesto elvetico è come dice il papa Francesco ‘il riflesso della gratitudine di quanto si è ricevuto’: mai finirò di dire grazie al Signore per il dono del Battesimo e ancor più per il dono del Sacerdozio ministeriale”. È vero che la “nostra azione missionaria in Svizzera è cambiata, ma la nostra opera e proposta evangelica rimane sempre valida e attuale per i nostri tempi”.
Raffaele Iaria