Per dare voce a tutti i migranti: un incontro a Rieti

21 Gennaio 2020 – Rieti – Di migrazioni, nella Chiesa, si parlava solitamente in questo periodo, essendo collocata la relativa Giornata mondiale a gennaio. Dal 2019, su decisione di papa Francesco, è stata spostata all’ultima domenica di settembre.

Ma si è voluto comunque affrontare l’argomento in sede di “plenaria mensile” del clero della diocesi di Rieti. Ai suoi principali collaboratori, i preti e diaconi radunati a Contigliano per il consueto incontro del terzo giovedì del mese, il vescovo Domenico Pompili ha proposto una riflessione sulle tematiche migratorie, invitando a parlarne don Giovanni De Robertis, sacerdote barese che della Fondazione Migrantes della Cei è direttore generale.

Rispetto a un fenomeno epocale di sempre non è esente infatti la piccola Rieti. Non lo era ai tempi delle varie ondate migratorie che portarono tantissimi connazionali all’estero, quando anche dal territorio reatino emigrarono nelle Americhe prima, in altri Paesi europei poi, anche diversi reatini (e non va dimenticato come il santo prete Massimo Rinaldi, prima di tornare nella sua Rieti come vescovo, aveva condiviso per anni l’esperienza missionaria da scalabriniano fra gli italiani emigrati in Brasile), non lo è adesso rispetto ai nuovi emigrati, i giovani che in un’Italia – e il territorio reatino non è certo da meno – che offre meno prospettive devono cercare lavoro fuori confine. E non lo è più, come poteva essere (ma non del tutto) all’inizio, neppure come terra di approdo di stranieri, per quanto non raggiunga certo, fra migranti economici e rifugiati, i numeri delle grandi città.

«Quella delle migrazioni è una realtà che come poche altre sta trasformando profondamente il nostro Paese e l’Europa», ha spiegato De Robertis. E la Chiesa deve starci dentro con uno sguardo ampio, poiché non è «solo un fenomeno sociale, ma, come più volte hanno ricordato gli ultimi pontefici, un segno dei tempi, cioè una realtà teologica, dove Dio sta operando e ci sta parlando», anche se, va detto, è una realtà ancora «troppo poco ascoltata sia a livello politico che ecclesiale». E già, perché se il mondo politico vi si approccia in modo spesso ideologico o strumentale o, peggio, cavalcando il becero populismo, bisogna anche dire che le comunità cristiane ancora «vanno avanti come se queste 11 milioni di persone (circa 5,5 milioni di immigrati e altrettanti di emigrati) non esistessero».

Nonostante l’immancabile «serie di fake news molto diffuse nel nostro Paese» che altro non è l’immancabile elenco dei soliti stereotipi sui migranti, non si può fare a meno, come comunità cristiana, di approcciare il fenomeno, con la consapevolezza di quanto il discorso abbia un risvolto tanto sociale quanto pastorale. Sul primo aspetto, «dobbiamo cercare di aiutare le persone a passare dallo scontro al confronto», sforzandosi di superare le rigidità ideologiche, per esempio «quella che

impedisce a bambini nati e cresciuti in Italia di essere cittadini italiani. O quella che mantiene nell’irregolarità persone che lavorano da anni nel nostro Paese». E in questo le parrocchie «potrebbero diventare un luogo prezioso di incontro: oggi in Italia la vera differenza è fra chi ha incontrato e ascoltato gli immigrati da vicino, e allora parla di Ibraim, Leila e Yussuf, e chi ne parla per categorie e luoghi comuni».

Troppe, oggi, in Italia, le persone straniere con esistenze al limite: molte «senza titolo di soggiorno,

non per colpa loro, ma di leggi inadeguate, facile preda dello sfruttamento e della criminalità. E purtroppo gli ultimi decreti “sicurezza” aggravano questa situazione». Il problema è proprio «questa cattiva accoglienza che genera paura e ostilità, assieme a un diffuso rancore sociale a cui è stato indicato lo straniero come il colpevole di tutti i nostri mali. Per questo papa Francesco continua a ripetere che si tratta di coniugare insieme quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare».

C’è poi l’altro punto: la pastorale. «Lo straniero purtroppo anche nelle nostre comunità è visto non come un fratello attraverso cui il Signore ci parla, ma sempre come un disagio, un compito della Caritas tutt’al più, un tubo digerente. E un segno è l’assenza in molte diocesi dell’Ufficio Migrantes». Mentre questa presenza sempre più multietnica in Italia «è una occasione provvidenziale per interrogarci sulla nostra fedeltà al Vangelo»: non ci si può non chiedere «come mai fra coloro che frequentano le nostre parrocchie è più alto il numero di coloro che sono contrari all’accoglienza». Un’occasione per interrogarci «sul nostro modo di essere Chiesa, di vivere la missione cristiana, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso». Un cammino inevitabile, «da cui dipende in buona misura il futuro del cristianesimo nel nostro continente», ha detto don Gianni citando una recente esortazione del vescovo di Stoccolma, il cardinal Arborelius, a proposito di una

cristianità europea ormai agli sgoccioli cui nuova linfa può venire proprio dall’accogliere nel suo seno le nuove leve provenienti da altri continenti.

Insomma, «vivere la Chiesa della Pentecoste, dove le differenze vengono riconosciute e condivise per l’utilità comune, è anche a mio avviso il contributo più significativo che possiamo dare al Paese, perché la questione migratoria, prima di essere una questione sociale, politica, economica eccetera, è una questione di onore». (Zeno Bagni – Lazio Sette)

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