Il testo sarà pubblicato sul prossimo numero di “La Voce e il tempo”
Torino – L’episodio dello sgombero del campo rom in corso Tazzoli è certamente un fatto doloroso per chi lo abitava. Purtroppo il grande incendio che ha coinvolto una parte cospicua del campo ha certamente aggravato la situazione di pericolo: e dunque si capisce l’urgenza di decidere per la chiusura. Ma non possiamo dimenticare che altri campi rom sono nelle stesse condizioni di pericolo e degrado, con gravissimo disagio per le famiglie e soprattutto per i bambini e i ragazzi. L’ho detto altre volte: queste situazioni non possono essere affrontate soltanto come un problema di ordine pubblico. C’è un’emergenza culturale e sociale, e prima di tutto dobbiamo coinvolgere le stesse famiglie rom che sono disponibili, isolando i facinorosi e violenti che impongono comportamenti illegali e attività illecite.
E’ necessario che le istituzioni e in primo luogo il Comune che ne ha la responsabilità primaria civica e politica, concretizzi un progetto che metta al centro il bene delle persone e in particolare dei numerosi minori che occupano i campi e che offra alternative di inclusione sociale appropriate e rispettose della cultura e della mentalità e stile di vita propria di questo popolo.
La Diocesi di Torino insieme al volontariato e mi auguro anche alle Fondazioni, faranno la loro parte con quella necessaria collaborazione e impegno sperimentato più volte nella nostra città. All’inizio di questa primavera ho avuto modo di dialogare con i Comitati spontanei dei cittadini di Torino Nord. Voglio ricordare qui quanto scrissi loro: «Il punto di partenza non deve essere di condanna assoluta dei Rom, visti come una popolazione da rifiutare in ogni modo e da allontanare, senza averli ascoltati e senza averne riconosciuto anche i diritti propri di ogni persona. I comportamenti di alcuni di loro possono essere anche giustamente disapprovati, ma sempre con rispetto al principio fondamentale che la nostra fede e civiltà ci indica in simili casi: la via dell’accoglienza e dell’amore del prossimo ci deve guidare». Certo la tutela dei loro diritti va di pari passo con i doveri che ne conseguono e tutti sono chiamati a fare la loro parte e ad assumersi le necessarie responsabilità. Il progetto che ritengo possibile dovrebbe comportare spazi attrezzati dove sostare e trovare servizi essenziali per vivere dignitosamente, un lavoro onesto, la frequenza alla scuola per i minori e la cura della salute. Si tratta, come si può ben vedere, di una strategia complessiva, non di interventi d’emergenza. Una strategia che abbisogna dell’apporto di tutti e, prima ancora, di una cultura – di una «politica» – capace di andare oltre la paura del diverso, oltre il rifiuto. E anche, oltre l’assistenzialismo. Per questo non mi sembra adeguato il termine sgombero; preferirei che si parlasse di «cambiamento di abitazione». Non è solo una questione nominalistica ma sostanziale che esprime l’atteggiamento con cui si affrontano i problemi pure complessi di queste situazioni. Torino può vincere questa sfida che le procurerebbe un sicuro, autentico primato nazionale e internazionale. Torino ne ha le risorse e le potenzialità, politiche, culturali, sociali e religiose. Per mettere in atto questa strategia di inclusione il tempo, ormai, stringe. Anche perché rischia di aggravarsi il consenso verso provvedimenti drastici, (come di fatto è uno sgombero pure legittimo). Come se queste risposte dettate dall’emergenza fossero le uniche e vere soluzioni ai problemi dei rom ma anche dei rifugiati e immigrati e comunque verso ogni persona che viene rifiutata e scartata per le sue diversità. Abbiamo tutti una grande responsabilità per concorrere a consolidare un clima di moderazione e insieme di promozione della legalità, per emarginare le ragioni della rabbia e della protesta. Bisogna agire con concretezza e non lasciare sole la gente o dare l’idea che si possa allungare all’infinito le soluzioni dei problemi. Questo non vale solo per la questione dei rom o del Moi ma anche di certi quartieri della città che si sentono abbandonati, perché in questo modo si alimentano la divisione e la contrapposizione. Dio che ascolta il grido del povero di certo non resterà sordo all’invocazione di aiuto di quei figli che nel suo nome si impegnano a vivere insieme la carità, la giustizia e la solidarietà. (+ Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino)