Firenze – L’azione educativa rivolta ai minori Rom in Italia deve voltare pagina. È questa la conclusione a cui sono giunti gli esperti, le associazioni professionisti e i ricercatori presenti al Convegno appena concluso a Sesto Fiorentino (sala parrocchiale della pieve di San Martino), dal titolo “Il bambino Rom: dalla pedagogia zingara a pratiche educative innovative”.
Promosso da Associazione 21 luglio, Ass. Articolo 34, Ufficio Migrantes di Firenze, Rete Reyn, Gruppo Mosaico al Margine e Movimento di Cooperazione Educativa; presenti una sessantina di convegnisti, arrivati da varie città.
La relazione chiave, presentata dallo storico di UNIFI, Luca Bravi, ha evidenziato il filo rosso che lega lo sterminio di Auschwitz delle famiglie Rom, alle azioni “rieducative” divenute prassi negli anni Ottanta. I “campi nomadi” e le “classi differenziali” hanno rappresentato l’espressione di pratiche discriminatorie, promosse con le migliori intenzioni, che hanno considerato il bambino Rom come un alunno diverso. Azioni pedagogiche differenziate sono ancora presenti in varie parti d’Italia. Spesso sono difficili da riconoscere e da criticare, in quanto camuffate come pratiche che pur fondando sull’idea di inclusione, operano di fatto una involontaria ghettizzazione. Non è un caso che oggi nelle Linee guida del MIUR, il bambino Rom venga presentato come “poco incline a prestare attenzione al discorso anonimo e astratto presentato dall’insegnante all’intera classe”. Tutto ciò smentito dalle 12 esperienze educative presentate nel Convegno (Bolzano, Mazzara del Vallo, Pescara, Roma, Pusa), dimostranti la necessità di un cambiamento di approccio, in discontinuità col passato. Oggi, in Italia, non sono più un’eccezione quella ragazze e quei ragazzi Rom iscritti all’Università. Ciò è stato possibile grazie a pratiche educative innovative e a politiche non segreganti. Molte e stimolanti le prospettive aperte a Sesto Fiorentino. (Maurizio Certini)