Presentato questa mattina il Rapporto della Fondazione Migrantes
Roma – Il VI Rapporto Migrantes, dedicato ai 150 anni di vita dello Stato unitario e al corrispondente secolo e mezzo di emigrazione, si sofferma sulle relazioni che intercorrono tra la recente storia del Paese e i 4 milioni di residenti all’estero, i circa 30 milioni di connazionali emigrati nel corso di questo arco temporale e i 60-80 milioni di oriundi. Dell’emigrazione italiana non mancano di impressionare la durata di oltre un secolo, il numero delle persone coinvolte e anche la molteplicità degli sbocchi. Si può dire che gli italiani siano andati in tutte le parti del mondo: dai paesi più settentrionali dell’Europa ai paesi anche più distanti dell’Africa, fino ai lontani continenti americano, asiatico e australiano.
Nel 1907, il meridionalista Francesco Saverio Nitti scriveva che i lucani all’estero avrebbero raggiunto il numero di quelli rimasti in regione: ciò si è poi verificato non solo per la Basilicata ma per l’intero paese, se si conteggiano anche i discendenti degli emigrati.
Ma l’emigrazione non ha avuto solo una dimensione numerica: essa ha contribuito alla crescita del paese, alleviando il peso dei disoccupati, offrendo l’occasione per potenziare la marina mercantile,
generando l’invio di rimesse in patria (oltre che, all’occorrenza, il ritorno di esperienze professionali) e alimentando così il senso di appartenenza nazionale. È stato riconosciuto che i nostri emigranti sono partiti come appartenenti a una singola regione o a un singolo comune, ma all’estero, mentre erano impegnati nella conoscenza di altre terre, scoprirono l’Italia, soprattutto alla vigilia della prima guerra mondiale, come spiega Giuseppe Prezzolini (1963): «Gli italiani si chiamavano italiani ma non erano italiani. Ossia non avevano avuto una scuola nazionale che li avesse trasformati da poveri provinciali o municipali in cittadini di un paese che teneva un posto singolare nel mondo, perché erede di una civiltà. Di questa civiltà il povero contadino ignorava tutto. Non conosceva che il proprio villaggio (…) La sola vita sociale che lo innalzasse un poco al di sopra di quei limiti da gregge fu la religione cattolica». Pertanto, è «storicamente corretto ritenere (la Chiesa) strumento e simbolo di coesione nazionale grazie alle sue iniziative di solidarietà, di socialità, di promozione, di leadership». Insomma, l’emigrazione, con il contributo della Chiesa, ha forgiato l’identità del nostro popolo e il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana è stato creato, a Roma, proprio per evitare di disperdere questa memoria storica o di ridurla a folclore o aneddotica.
Il Rapporto Migrantes 2011 è ricco di dati, riferimenti biografici e bibliografici, notizie storiche ed esperienze personali che consentono di entrare nel merito di una storia fortemente significativa, collegandola con la situazione attuale per trarne indicazioni operative. Questa scheda è divisa in due parti. La prima si preoccupa di cogliere alcuni spunti rilevanti nella storia della nostra emigrazione, ponendo l’accento anche sui suoi aspetti problematici che videro molti connazionali soffrire per il trattamento ricevuto. La seconda parte attualizza questa diaspora mondiale e, ampliando il riferimento alle aree di destinazione e alle regioni di partenza, cerca di trarne riferimenti per l’attualità con le “parole giuste”, come si sta cercando di fare raccogliendo nel Primo Dizionario dell’Emigrazione Italiana il “lessico dell’emigrazione”, incentrato su concetti quali oceano, viaggio, nave, partenza, sfruttamento, religiosità popolare. Su tutto spiccano la speranza e la forza di riuscita, che inevitabilmente sono state – e ancora restano – l’anima di tutti gli spostamenti, a dimostrazione che la volontà di riuscire è in grado di superare ogni distanza.