Rapporto Italiani nel Mondo: le esperienze di insediamento

L’Europa, maggiore teatro dell’emigrazione italiana

Roma – L’Europa ha costituito il massimo sbocco per l’emigrazione italiana e molti sono gli aspetti meritevoli di essere raccontati, del passato come dell’epoca attuale, in paesi con grandi o piccole collettività italiane. Tra le destinazioni del passato va ricordata Costantinopoli, centro di attrazione dal periodo delle Repubbliche Marinare fino al 1911, con la dichiarazione di guerra fatta dall’Italia all’Impero ottomano. Anche in l’Albania, Grecia e Corno d’Africa la nostra presenza fu legata agli eventi bellici. Il diplomatico R. Paulucci di Calboli, tra i più decisi oppositori

 
dell’emigrazione dei fanciulli italiani nelle vetrerie della Francia, nel 1909 pubblicava Larmes et sourires de l’emigration italianne. In quel periodo era forte il tasso di mortalità ma quello di natalità era ancor più elevato. Si era così generata una massa di minori in condizioni di estremo bisogno,
destinati all’estero a lavori pesantissimi, talvolta a rischio della stessa sopravvivenza, mentre le loro famiglie venivano tacitate con pochi soldi. In Germania, come ha posto in evidenza la strage di 6
persone in un ristorante, compiuta il 15 agosto del 2007 a Duisburg, la mafia calabrese è pesantemente penetrata nella società, tanto che, secondo la testata Die Zeit, di questo passo in pochi anni l’organizzazione criminale italiana «si mangerà la Germania» (1.000 sarebbero gli affiliati,
secondo la polizia), anche perché nel Paese non è previsto il reato di associazione mafiosa.
In Svizzera, tra il mezzo milione di italiani residenti, solo 200 mila hanno chiesto e ottenuto la cittadinanza del posto. In questo paese, spesso ambivalente, sono ricorrenti le campagne xenofobe, l’ultima delle quali ha rappresentato i frontalieri italiani come topi che mangiano il formaggio
svizzero. Quanto ai religiosi, si è passati da 88 missioni e 101 missionari nel 1997, a 47 missioni e 62 missionari, per lo più ultrasessantacinquenni, oggi. Anche nella comunità cattolica è difficile la composizione delle diversità linguistiche e culturali, nonostante l’unità della Chiesa non vada
intesa come uniformità bensì come integrazione organica delle legittime diversità, in un clima di pluralismo. Ma l’Europa, per gli emigrati italiani, non è rappresentata solo dai paesi che sono stati meta prevalente dei flussi. La Finlandia è un esempio di insediamento recente, seppure di proporzioni contenute, con circa 1.500 italiani che apprezzano l’alto livello qualitativo della società finlandese, che considerano di stimolo al rinnovamento di quella italiana.
Un sollecito, in tal senso, viene anche dall’Islanda, che si accredita per un impegno di sviluppo in condizioni climatiche estremamente difficili e dove gli italiani sono appena 181.
In Svezia, dove gli italiani sono 7 mila e gli oriundi circa 20 mila, la presenza dei cattolici italiani e dei loro missionari è stata quanto mai impegnativa.
L’italiano, la cultura, l’immigrazione come segno di continuità
Con il crollo del regime comunista, diversi albanesi sono emigrati in Italia, tra i quali anche diversi intellettuali. Tra questi molti, come Elvira Dones, scrivono oggi in italiano e hanno dato luogo alla categoria degli scrittori “viandanti”, in grado di apportare una forte carica innovativa alla promozione della lingua e della cultura del Belpaese. Ad esempio, a Frosinone vive, dal 1993, Gezim Hajdari, classe 1957, considerato uno dei maggiori poeti viventi contemporanei, che scrive in italiano e in albanese, quasi per collegare le due terre (“scrivo in italiano e mi tormento in albanese”). Nella poesia Corpo presente (1999), parla dell’esilio: “Fuggo senza sosta/nelle terre straniere, nei templi/e non trovo a chi consegnare il mio/segreto d’uomo”.
Gli immigrati utilizzano sempre più l’italiano come strumento di espressione, anche a livello letterario. Goran Bregovič, il noto cultore serbo-croato della musica zigana e popolare, presentando a Tirana un suo concerto nel 2007, si è rivolto ai partecipanti in italiano sicuro di essere capito da tutti, come effettivamente è stato. In Albania è ricorrente lo studio dell’italiano nelle università e nelle scuole, e così anche negli altri paesi balcanici, così come sono diverse le emittenti che usano l’italiano. Più in generale, nell’area adriatica sono molte le persone italofone, non solo per il passato storico e l’italianizzazione forzata del Peloponneso e dell’Albania, ma anche per le recenti vicende migratorie e per il fatto che la televisione italiana è stata tra le prime a trasmettere in quell’area. Questa eredità è meno riscontrabile attualmente nel Corno d’Africa. A Mogadiscio, nel 1936, su 50 mila abitanti erano 20 mila gli italiani; ad Asmara, nel 1938, su una popolazione di 98 mila persone, gli italiani erano 53 mila. Più che sull’educazione, per fare nuove classi dirigenti, si insistette sull’apprendimento dell’italiano, ma il tempo passato e la diffusione dell’arabo e dell’inglese hanno fatto scomparire del tutto le tracce rimaste dell’italiano. L’italiano, anche se è la quarta lingua più studiata nel mondo, conosce un calo di diffusione e necessita di essere incentivato con misure specifiche, tenendo conto che un più positivo andamento della vita economica e politica in Italia avrebbe un impatto positivo anche a questo livello.
Un’integrazione costata tante sofferenze
Bisogna interrogarsi sull’insegnamento che può venire da un paese come gli Stati Uniti, dove oltre 100 milioni di residenti possono far risalire la loro origine a un loro parente che è passato per la grande area di registrazione a Ellis Island. In una prima fase, i migranti furono a lungo abbandonati al loro destino, senza protezione nei circuiti di sfruttamento dei “bossis”, e il disprezzo nei loro confronti comportava anche una scarsa considerazione per l’Italia che invece, dopo le faticose vicende unitarie, ne aveva estremo bisogno per accreditarsi a livello internazionale. Alla fine dell’Ottocento vi era una spirale di esclusione, analfabetismo e scarsa mobilità sociale che favoriva la vocazione al crimine come unica occasione per affermarsi. Il Times ha collocato quattro italoamericani tra i 10 più influenti gangster della storia mondiale, mentre Wikipedia annovera più
di 600 gangster di origine italiana tra quelli che hanno operato negli Stati Uniti negli ultimi 150 anni. Il salesiano don Raffaele Maria Piperni, denominato “l’ambasciatore di don Bosco a San Francisco” (dove morì nel 1929 apprezzato da tutti, cosa insolita nel contesto californiano, irlandesizzato anche nelle sue istituzioni ecclesiastiche e poco aperto ai cattolici), così scriveva all’inizio della sua esperienza (1897): «Gli italiani sono così in bassa stima presso tutti, che i buoni arrossiscono di chiamarsi italiani. Il nome italiano è nome di spregio, le accusazioni fatte contro di loro sono di essere incivili e senza religione, bestemmiatori e irrispettosi. I buoni ne soffrono assalissimo, per grazia di Dio non sono pochi».
Il peso del passato è duro a morire. Secondo un recente sondaggio della Response Analysis Corporation, il 74% degli statunitensi adulti crede che la maggior parte degli italoamericani sia direttamente associato alla criminalità organizzata o abbia comunque avuto dei rapporti con essa. Da un’analoga indagine condotta dalla Niaf (National Italian American Foundation) risulta che, tra i giovani statunitensi, il 44% ritiene che gli italiani siano tutti boss di Cosa Nostra quando, invece, tra oltre 20 milioni di italoamericani stabilmente residenti pare che gli affiliati alle famiglie mafiose siano circa 2 mila. Come si vede, si cede ancora alla tentazione di qualificare i buoni e i cattivi con il marchio della nazionalità, come del resto si fa in Italia nei confronti degli immigrati.
Gli Stati Uniti d’America non furono l’unico caso di avversione agli italiani. Ad esempio, all’inizio del XIX secolo, le autorità italiane, attraverso rapporti dettagliati, avevano accertato le poco allettanti condizioni contributive, i rischi di lavoro e l’infima considerazione in cui gli italiani erano tenuti anche in Sudafrica, paese verso il quale, nonostante la pressante richiesta di lavoratori italiani per le miniere e i campi, vennero scoraggiati i flussi, i quali sono stati, invece, più intensi nel secondo dopoguerra. Non sono neppure mancati i riconoscimenti dell’apporto dato dagli italiani in
piccoli paesi dove i flussi sono stati contenuti. In Ecuador la presenza italiana è iniziata verso la metà del secolo XIX e, per quanto numericamente poco consistente (13.468 residenti nel 2010), ha contribuito a livello architettonico, artistico-musicale, scientifico, imprenditoriale (con l’esperienza delle piccole e medie imprese), dei servizi (quelli bancari, ad esempio) ed ecclesiale tramite diversi ordini religiosi. Anche in Costa Rica attualmente la presenza si riduce a 20 mila persone, sebbene si contino ben 350 mila oriundi e 300 aziende, in prevalenza nella capitale S. José. Qui si ricorda
il famoso sciopero: “Helga de los Tutiles” (lo sciopero dei “tutti lì”) ad opera di 1.500 mantovani, impegnati nella costruzione della ferrovia, negli anni 1888-89, che segnò l’inizio
del sindacalismo nel paese. Durante la seconda guerra mondiale si verificò l’internamento di molti italiani con privazione dei loro beni, essendo il paese alleato degli Stati Uniti, ma poi i contatti si sono normalizzati e i flussi sono continuati. Molti costaricensi si sono formati in Italia, presso le università di Milano e Bologna, e intensa è la richiesta di tecnologia italiana (ad esempio per la costruzione delle centrali idroelettriche e di quelle per l’energia eolica).
Il Brasile come esempio di accoglienza e di tolleranza
Il Brasile è l’esempio di una grande emigrazione in un grande paese. Le persone di origine italiana sono 25 milioni e di esse 6 milioni sono concentrati nella città di San Paolo, dove rappresentano il 55% degli 11 milioni di residenti: insieme a New York e a Buenos Aires, si tratta perciò dell’area
di massima concentrazione italiana all’estero. A San Paolo nel 1888 venne creato il Centro di accoglienza dei migranti, in grado di ospitare da 5 a 8 mila persone: fino al 1978 vi passarono 2,5 milioni di migranti di ben 60 nazionalità diverse.
La nostra emigrazione fu richiamata sul posto per sostituire gli schiavi nelle attività agricole e promuovere l’industrializzazione, diventando superiore a quella di ogni altro gruppo nazionale, tanto che, all’inizio del XX secolo, non era chiaro se a San Paolo la lingua comune fosse il portoghese o uno dei tanti dialetti italiani. Al lavoro agricolo i meridionali preferivano le città, dove svolgevano piccoli mestieri artigianali, più volentieri senza la famiglia, nell’intento di poter guadagnare di più e più velocemente per poi tornare in patria. Non tutti riuscivano ad affermarsi, ma
vi erano anche dei casi clamorosi, gli unici reclamizzati dai subagenti di emigrazione nella loro propaganda, come quello del conte Francisco Matarazzo, partito da Salerno nel 1881, che costituì un impero economico di così straordinaria grandezza da destare stupore al giorno di oggi. L’Argentina, invece, per ragioni di concorrenza nell’accaparrarsi la manodopera, denigrava le possibilità offerte dal Brasile. Mons. Scalabrini denunciò, fin dal 1880, le condizioni di
sfruttamento degli italiani che si dirigevano in Brasile usufruendo del passaggio gratuito, ma solo nel 1920 un decreto del ministro Prinetti vietò il reclutamento con la formula del viaggio pagato.
Attualmente il Brasile, a differenza degli Stati Uniti, non attira più i flussi migratori di una volta, sia per consistenza numerica che per tipologia di migranti (oggi per lo più imprenditori), e si colloca tra le prime dieci economie del mondo per il suo promettente sviluppo. La sua storia, come società tra le più meticce del mondo, porta a riflettere sull’accoglienza degli immigrati, la predisposizione alla tolleranza e la fusione delle diversità.