13 Maggio 2024 –
Città del Vaticano – Mettiamoci nei panni dei suoi discepoli: lo hanno seguito, ascoltato, accompagnato lungo le strade della Palestina, fino a Gerusalemme per assistere alla sua morte. Tutti i loro sogni, le loro attese sono svanite in quel venerdì di sofferenza e di dolore. Poi la gioia di averlo ritrovato: non sono più “soli”, è tornato per loro e per quanti hanno creduto e vissuto le sue parole. Quaranta giorni dopo la Pasqua, di nuovo Gesù scompare in una nuvola, come leggiamo in Marco: è “elevato in cielo e sedette alla destra del Padre”. Quaranta giorni come il tempo da lui trascorso nel deserto, digiunando giorno e notte, come gli anni nel deserto trascorsi dal popolo di Israele. Antico e Nuovo Testamento che camminano assieme, per descrivere un tempo di attesa, ma anche di cambiamento, di conversione. Di nuovo un abbandono? No, ora hanno un compito ben preciso: “andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura […] mentre il Signore agiva insieme a loro”. E poi quelle parole di due uomini in vesti bianche: Gesù, che è stato in mezzo a loro, poi assunto in cielo, “tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo”. Ascensione, un guardare al cielo con i piedi piantati in terra; un camminare avendo come meta la Gerusalemme celeste; pellegrini provvisori in questo momento che trascorriamo sulle strade della vita terrena; tempo nel quale, nelle parole dell’autore sconosciuto di A Diogneto, i cristiani “dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo”. Non si tratta, dunque, di trascorrere la vita fermi a contemplare il cielo attendendo un segno, piuttosto siamo chiamati a guardare un po’ oltre il nostro naso, ad alzare gli occhi per cercare di scrollarci di dosso le nostre piccolezze, le nostre miserie. E quel ritorno al Padre, afferma Francesco nelle parole al Regina caeli, non è “uno staccarsi da noi, ma piuttosto come un precederci alla meta, che è il cielo”. Belle le due immagini che il Papa propone: salire verso la cima di una montagna, un camminare “con fatica e, finalmente, a una svolta del sentiero, l’orizzonte si apre e si vede il panorama. Allora tutto il corpo ritrova forza per affrontare l’ultima salita”. E poi la “cordata”: Gesù, “asceso al Cielo, trascina con sé come in una ‘cordata’. È lui che ci svela e ci comunica, con la sua Parola e la grazia dei Sacramenti, la bellezza della Patria verso la quale siamo incamminati”. E in questo salire insieme “il passo di uno è un passo per tutti” e “nessuno deve perdersi né restare indietro, perché siamo un corpo solo”.
L’Ascensione “non è un andarsene in una zona lontana del corso” scriveva Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazareth, ma “vicinanza permanente”. E poi c’è il compito che Gesù affida ai suoi, un agire “passo dopo passo, gradino dopo gradino”, ovvero, come leggiamo nel Vangelo, “annunciare il Vangelo, battezzare, scacciare i demòni, affrontare i serpenti, guarire i malati”.
Camminare e leggere i segni dei tempi, direbbe don Tonino Bello, perché “siamo stati mandati nel mondo non per rintanarci nelle nostre chiese e chiuderci per fare le nostre processioni all’interno”; siamo comunità, scriveva ancora, “non per noi, non per autoesaltarci, ma siamo cristiani per gli altri, per il mondo”. Il nostro camminare alla sequela di Gesù, dice Papa Francesco, significa “compiere le opere dell’amore: donare vita, portare speranza, tenersi lontano da ogni cattiveria e meschinità, rispondere al male col bene, farsi vicini a chi soffre”. Significa ancora non essere ancorati “alle cose che passano, o ai soldi, o ai successi, o ai piaceri”; non isolarsi, chiudersi, ma “amare i fratelli con animo grande e disinteressato e sentirli compagni di cammino”.
Nelle parole che pronuncia dopo la recita della preghiera mariana, il Papa rinnova il suo appello alla pace in Ucraina, Palestina, Israele e Myanmar; e rinnova il suo appello “per uno scambio generale di tutti i prigionieri tra Russia e Ucraina, assicurando la disponibilità Santa Sede a favorire ogni sforzo al riguardo, soprattutto per quelli gravemente feriti e malati. (Fabio Zavattaro – Sir)