Il Centro Astalli rilegge Hannah Arendt

23 Gennaio 2023 – Roma – C’è un libretto scritto ottant’anni fa che parla di oggi, anzi di domani. Dà espressione all’identità dei rifugiati, partendo dal rifiutarne la definizione: a “noi rifugiati” – questo il titolo – non piace essere chiamati ‘rifugiati’. Un annuncio che racchiude la dolorosa scissione di entrare in un Paese nuovo ed essere destinati a rimanervi, non potendo tornare nel proprio, dopo aver perso la casa e la propria piccola realtà familiare, il lavoro e il ruolo nella società, la lingua e la possibilità di esprimersi spontaneamente, i parenti e gli amici, l’intero proprio “mondo privato”. La contraddizione del ricostruirsi nel luogo di destinazione – del vivervi a lungo, dello sforzarsi di chiamarlo casa e di somigliare ai suoi abitanti – e ciononostante di restare stranieri. Visti come diversi, sempre in fondo “indesiderabili”. Sono le prime pagine scritte da Hannah Arendt da rifugiata negli Stati Uniti, nel 1943, dopo la fuga dalla persecuzione nazista in Europa. L’incontro, svoltosi nei giorni scorsi su iniziativa del Centro Astalli al Goethe-Institut di Roma, è stato l’occasione per rileggerle col pensiero al presente. E per scoprire che non raccontano il Novecento, ma il nostro tempo e il futuro, e non descrivono gli esuli ebrei né soltanto i profughi di tutte le religioni, nazionalità, idee, bensì ogni donna e ogni uomo.

Con la limpidezza di pensiero della studiosa, e la profondità dell’esperienza personale, Arendt indica la macchia che il rifugiato non riesce a lavare via: qualcosa dev’esserci nel suo passato o nella sua identità, perché si trovi in questa condizione. Il rifugiato legge l’accusa negli occhi dei nuovi vicini, si sente incolpato della propria sfortuna, e reagisce con uno sforzo di assimilazione. Un tentativo di liberarsi del sé e confondersi tra i cittadini di diritto, che tuttavia rimane un’aspirazione impossibile. Il pensiero ebraico influenza la filosofa: lo spiega Benedetto Carucci Viterbi, rabbino e biblista, che ricorda come in ebraico le parole abitare e straniero derivino dalla stessa radice. Il paradosso di Abramo che si presenta ai cananei come ‘straniero residente’ tra loro, sperimentato dagli ebrei nella Storia, coglie l’essenza dello stato di ogni immigrato: che svolge la sua vita in un luogo senza arrivare ad appartenervi mai, differenziato fisicamente, socialmente e giuridicamente, stretto tra barriere di documenti che dovrebbero aprirgli opportunità e invece lo discriminano.

Sono gli Stati nazionali ad aver costruito rifugiati, richiedenti asilo e migranti economici, per conservare la propria omogeneità etnica contro il movimento naturale delle persone, ma queste categorie non esistono nella realtà, chiarisce subito Donatella Di Cesare, filosofa e docente, curatrice di una nuova edizione di “Noi rifugiati”. Per questo le parole di Arendt valgono per chiunque sbarchi oggi sulle nostre coste o scenda dai nostri valichi. Anche chi aggira gli stratagemmi di deterrenza delle partenze, si sottrae alla cattura e al trattenimento violenti, si crea la sua strada nella sabbia, nella neve e nell’acqua e riesce infine ad attraversare la frontiera; anche chi, dopo l’ingresso, si sottrae all’irregolarità, evita o supera il passaggio della detenzione amministrativa – che tiene ristretto chi non ha commesso reati e somiglia così tanto all’internamento sperimentato da Arendt in quanto ebrea, nel campo di Gurs sui Pirenei – e si conquista un documento di soggiorno, anche questo immigrato resterà straniero. Non si radicherà, come fosse destinato a portarsi dentro quel confine che ha oltrepassato una volta, nota Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli.

Per questo, il diritto da garantire non è migrare, ma essere accolti. Senza la costrizione ad “integrarsi”, essere accettati con semplicità, ascoltati, ricevere le stesse opportunità dei cittadini per nascita, poter partecipare. Le persone migrano per tante ragioni, spiega Soumaila Diawara – lui, maliano, che lo ha fatto per scampare alla persecuzione politica – ma tutte fuggono dalla prospettiva della mera sopravvivenza. Nel Paese d’arrivo, chi migra cerca il diritto a vivere. A ottant’anni dal manifesto di questo bisogno, la migrazione resta una storia di lontananza nella vicinanza. C’è un modo per rovesciare lo stato delle cose e creare un mondo nuovo, ed è riconoscersi tutti nel “Noi” di Hannah Arendt. Scoprirsi nient’altro che “nudi esseri umani”, tutti ospiti tutti pellegrini, in cerca solo di protezione e della possibilità di una vita piena. (Livia Cefaloni)

 

 

 

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