21 Luglio 2022 –
Leopoli – Non sono valigie di viaggiatori o turisti quelle che ancora si vedono alla stazione di Leopoli. Nell’atrio e nel piazzale di fronte si continua ad arrivare per fuggire dalla guerra ma anche per rientrare in Ucraina. Le partenze non hanno certo i numeri dei primi giorni del conflitto quando, come raccontano qui, «la città era un immenso aeroporto dove tutti si muovevano lungo le strade con valigie, zaini e sacchetti in mano». Ma l’esodo prosegue: soprattutto dall’Est e dal Sud del Paese, dove ai missili russi che cadono ogni giorno si aggiungono gli appelli delle autorità all’evacuazione delle zone “ad alto rischio”. E si lascia ancora il Paese. Non con i treni perché sono stati cancellati i convogli che collegano la città con la vicina Polonia, a meno di settanta chilometri. Ma con gli autobus che partono a decine ogni giorno. Verso Cracovia, verso Varsavia, persino verso il Portogallo. Ma anche per Kiev dove c’è chi ha scelto di tornare. Appena fuori la stazione tre gazebo sono i punti di primo soccorso per chi ha lasciato tutto. I volontari offrono tè freddo o piccoli panini. Accampati, nelle panchine intorno, tutti coloro che sono in attesa del loro futuro prossimo.
Certo, Leopoli resta la “capitale” dei rifugiati. Su poco meno di un milione di abitanti, i profughi sono 200mila: un quinto della “sua” gente. Sistemati ovunque: in edifici pubblici, nelle famiglie, nelle parrocchie ma soprattutto nelle scuole e nelle palestre. E adesso si profila un’emergenza nell’emergenza. «L’amministrazione comunale – racconta l’arcivescovo Mieczyslaw Mokrzycki che guida la Chiesa di rito latino – ha stabilito che dal 1° settembre riprendano le lezioni. E la domanda che tutti si fanno è: dove andranno quanti sono alloggiati nei plessi e negli impianti sportivi? Perché ogni scuola ha la sua palestra. E non solo vanno liberate le aule ma anche le strutture connesse. Si parla di migliaia di rifugiati da ricollocare». Per ora la risposta non c’è.
Ma c’è il “terrore” dell’inverno. Le temperature scendono fino a venti gradi sotto zero. «Si ipotizzano già problemi per il riscaldamento – spiega Mokrzycki –. E vale anche per noi come arcidiocesi che stiamo accogliendo oltre 4.500 sfollati in molte strutture sparse sul territorio. Però alcune diventano inadeguate quando le temperature crollano».
Appena dietro il palazzo arcivescovile il parco dedicato al padre culturale dell’Ucraina, Taras Shevchenko, è un gigantesco hub dell’ospitalità. Il dipartimento di fisica dell’Università con la sua palestra ha aperto le porte a centocinquanta famiglie. Si dorme sui materassi poggiati sopra il pavimento e su qualche bancale; si stendono i panni nei fili che vanno da un canestro alla pertica; si mangia su due casse di legno trasformate in tavola.
«È difficile vivere così – sostiene l’arcivescovo –. Se poi aggiungi il fatto che hai già esaurito tutti i risparmi e non hai un lavoro, la situazione è al limite della sopportazione. Per questo si sceglie di tornare. Almeno una famiglia ritrova la sua terra». In un angolo del parco è nato l’unico “villaggio prefabbricato” di Leopoli: l’ha donato il governo polacco, come indica la bandiera che al cancello sventola accanto a quella ucraina. Cinquantasei container con tre posti letto ciascuno sono le case dei rifugiati. Ma niente cucine e bagni: quelli sono in comune. Una mamma allatta un piccolo di pochi mesi mentre altri due figli giocano sull’asfalto. Accanto un anziano sulla sedia a rotelle si riscalda al sole. «Sono salvo – sussurra –. È ciò che conta di più». (Giacomo Gambassi – Avvenire)