31 Maggio 2021 – Madrid – «Sì, ho avuto molta paura. Pensavo di morire in mare con la mia bambina. Poi ho visto il sub della Guardia Civil e ho cominciato a fargli segnali di soccorso. Mi ha preso la piccola che avevo sulle spalle e l’ha portata fra le braccia a riva. Non l’ho più rivisto da allora, ma da qui lo ringrazio profondamente. Ora c’è un po’ di luce nel nostro futuro».
Naima è la madre del fagottino di due mesi con la tutina a righe rosa strappato dieci giorni fa dall’agente del gruppo sommozzatori, Juan Francisco, alla morte nelle acque del Tarajal a Ceuta, durante la crisi che in 72 ore ha portato 10mila migranti a riversarsi a nuoto nell’enclave spagnola nel Maghreb. Quell’immagine del salvataggio ha fatto il giro del mondo con un clamore al quale Naima è rimasta aliena. Con i suoi tre figli di 2 mesi, 5 e 12 anni, si nasconde in un tugurio, per la paura di essere rimandata – come la gran parte dei suoi connazionali – dall’altro lato della frontiera, a Castillejo, Fnideq in arabo, il vecchio protettorato spagnolo e specchio povero di Ceuta, cresciuto in due decenni da 6mila a 77mila abitanti.
La madre marocchina ha raccontato la sua odissea alla tv La Sexta, riuscita a rintracciarla. «Ero disperata », assicura. «Non avevo più un lavoro, nulla da dare da mangiare ai miei figli, neanche il latte, e mi stavano per cacciare di casa. Quando ho saputo che la frontiera era aperta non l’ho pensato due volte e mi sono lanciata in acqua con i bambini. So che molti sono morti in mare e molti altri si sono suicidati. Ma non avevo altra scelta, per la fame». Naima era una delle tremila ‘porteadoras’, le donne-mule cariche di mercanzie che facevano la spola fra Castillejo e Ceuta con piccoli commerci e merci di contrabbando, fino a che il Marocco non ha chiuso i varchi del Tarajal, con una decisione unilaterale nell’ottobre 2019. Porre fine al contrabbando in prevalenza di piccoli elettrodomestici e abiti usati, ma anche beni di prima necessità come pannolini, alcol, prodotti igienici – la finalità con cui Rabat giustificò allora la misura. E di passo asfissiare l’enclave spagnola, che con Melilla il regno alauita rivendica come proprie. Ma nell’isolamento, aggravato dal prolungato sbarramento imposto dalla pandemia, a restare intrappolate nel nulla sono state le centinaia di ‘porteadoras’, come Naima, residenti a Castilejo o provenienti dall’interno e dall’Atlas per racimolare poche centinaia di dirham al giorno. Spesso giocandosi la vita nella calca per passare i controlli con i pesanti fardelli. Sono l’anello debole della catena della crisi diplomatica e politica fra il Marocco e la Spagna, lungi dall’essere risolta alla frontiera sud d’Europa. E a poco sono valse le proteste che a febbraio, al grido di ‘aprite la frontiera, avete ucciso Fnideq!’, hanno coinvolto i tanti marocchini costretti a chiudere negozi, decine di piccole botteghe, e le vendite ambulanti, che davano da campare non solo alla gente di Fnideq ma anche a quella della vicina Beliones. Assieme ai tanti stagionali o alle lavoratrici domestiche che ogni giorno passavano la frontiera per lavorare a Ceuta. A marzo, 300 contratti temporanei offerti da Rabat alle ‘porteadoras’ per lavorare nel settore tessile a Tangeri e alcuni impieghi come spazzine sono state una goccia d’acqua nel deserto. Servita comunque a contenere le manifestazioni. Naima guadagnava l’equivalente di 20 euro al giorno, sufficienti per sfamare i suoi tre bambini. Da oltre un anno neanche quelli. Per questo, quando il 18 maggio ha saputo che la gendarmeria marocchina aveva allentato i controlli per poche ore, non ha esitato a lanciarsi verso la scogliera del Tarajal, aggrappata con i figli a salvagenti giocattolo. Non poteva sapere che, in un cinico calcolo strategico, con migliaia di altri disperati era utilizzata da Rabat come ‘bomba umanitaria’ su Ceuta, per fare pressione su Madrid a fini politici. Ora, nascosta nell’enclave, chiede aiuto al governo spagnolo, perché – supplica – «mi dia un’opportunità e mi accolga con i miei figli». (Paola Del Vecchio)