Quando la morte parla di vita…

1 Aprile 2021 – «Di buon mattino, le donne si recarono alla tomba portando con sé gli aromi… ma non trovando il corpo del Signore Gesù, corsero a darne l’annuncio». È questo il passaggio del Vangelo, che viene in mente, quando prendo il tempo di contattare per un saluto le famiglie dei nostri missionari defunti. E senti parlare le donne di casa… Sì, parlano di una vita piena, dove «tutto è compiuto». Nel segno dell’amore. Di un vuoto immenso, ma anche di una presenza misteriosa che continua. Parlano dei loro missionari.

«Sa, così ho preso il gusto di pregare sempre le lodi, ogni mattino». Ve lo dice con pudore e una piccola gioia nascosta. È la cognata, al termine del suo racconto. Ad Anguillara veneta, paesaggio ispirato dal calmo, maestoso e abbondante scorrere dell’Adige. Con decisione, poi, vi indica un grande fico ombroso, proprio davanti casa. «Ecco, sotto lì, ogni mattina, padre Gino si sedeva d’estate, quando era con noi, per recitare le sue preghiere». La loro vecchia cucina contadina ha preso una strana e nobile aria di pinacoteca: sulle pareti quadri belli, contemplativi, dal tratto un po’ naïf, frutto della vena pittorica del missionario. Nell’aria sono rimaste ancora sospese le sue parole di quando era in America, da dove arriva, ogni tanto, una telefonata per dire grazie, «di averlo conosciuto sul nostro cammino». Sorprendente maniera di esprimersi da un altro continente, che tocca il cuore. Ma, soprattutto, nell’animo dei suoi resta una convinzione. Padre Gino Marzola la ripeteva spesso come un mantra: «L’unica cosa nella vita di cui non ho rimpianti è di essermi fatto missionario scalabriniano». Oh sì, padre Gino, da lassù continua a pregare per i tuoi fratelli scalabriniani. Per una vita intensa, senza rimpianti!

Vanda, ancora dopo anni, raccontandovi la storia si emoziona. Era da poco arrivato, entusiasta, padre Angelo, giovane missionario, alla sua missione di Marchienne-au-Pont, in Belgio. E quasi subito dopo, scoppia la tragedia.  Quella di Marcinelle: una delle più gravi tragedie minerarie della storia. Era l’8 agosto 1956. Vi morirono tra i tanti ben 136 italiani. E lui, il giovane missionario, eccolo con la sua moto a fare la spola continuamente tra le famiglie e la miniera. Per informare, consolare, sostenere, benedire. Prendersi cura, insomma, di troppe famiglie italiane emigrate, sprofondate in un mare di disperazione. Un vero trauma anche per lui. Vissuto, però, con altrettanta forza d’animo. Poi, poco dopo, lui stesso si ammala di una malattia rara, che solo al giorno d’oggi potrebbe essere curata. Lourdes lo vede tra i suoi pellegrini. Alla grotta depone la sua foto: un volto bello, spirituale, lineamenti dolci, occhi luminosi, e un cuore da combattente. Muore a 30 anni. A Arco, durante la malattia, qualcuno annota: «È un esempio a tutti per la sua pazienza: mai si lamenta di cose o persone, in completo abbandono alla volontà di Dio». Poi, Vanda, la cognata, riprendendosi dal racconto, riflette e la senti esclamare: «Come sono cambiata quando mi sono sposata, conoscendo questa famiglia così buona, e generosa!» Una sorella del missionario, pure, si fa religiosa, a Bologna. Un giorno, poi, lei, Vanda, con la sorella del missionario (che proveniva, emigrante, dall’Australia) si porta al seminario di Bassano, dove, per caso, al cimitero trovano la tomba aperta per dei lavori in corso. Nella bara scoperchiata se lo guardano a lungo, con emozione… sempre lui, stessi lineamenti, stessa pace. Se lo portano a casa, a Cassola (VI), per averlo vicino. La loro stessa strada prende il suo nome, «via padre Angelo Toniolo». Sì, il suo cuore da combattente batte ancora.

«Andare all’aeroporto di Venezia per accoglierlo era per noi sempre una vera gioia». Da qui incominciava la festa. Tornava dal suo Brasile, dove rimase tutta una vita. E Adriana continua: «Con noi ha celebrato il suo 50mo di sacerdozio e poi tutti al ristorante. Così, una volta, il nostro 25.mo di matrimonio e ancora tutti al ristorante. Restava non molto con noi, perché girava di casa in casa, tra tutti i parenti». Sempre una visita, uno scatto di vita, un racconto diverso della sua terra di missione. Con la sua gioia missionaria, padre Francesco Lollato, incendiava il clima abitudinario, stressato e quasi monotono di quel pezzo di Veneto, Rosà e dintorni. Raccontava con mille particolari le iniziative e i miracoli che faceva laggiù, in terra “brasileira”, come pastore dinamico e originale. Per esempio, quando domandò ad ogni famiglia di riscrivere una pagina di Bibbia. Sì, su un foglio enorme doveva esprimersi chi con un salmo, chi con un racconto, o chi con un personaggio visto con i propri occhi, mettendovi le proprie cadute, i momenti di fede, di scoraggiamento o di amore per l’altro. Ne era uscita una Bibbia gigante, originale, di varie dita di spessore, scritta dal popolo. E fu portata, una domenica, in processione, in un clima di esultanza comunitaria indescrivibile. Come se Dio stesso, quel giorno, avesse riscritto le sue parole sulle due tavole. Ha voluto, infine, essere sepolto nella «sua Rondinha». Farsi terra con la terra che amava. Il sindaco della città dichiarava allora: “Per la gente padre Francesco è stato un medico, un ingegnere, un professore, un sindaco, un padre ed era sempre consultato nelle decisioni che riguardavano la città». Al suo paese natale rimane vivo il ricordo delle tavolate insieme ad amici e parenti, specie alle vigilie del suo ritorno in Brasile, ogni 4 anni. La convivialità, l’armonia per lui erano regine. E poi, ognuno fece scivolare nelle sue tasche un’offerta, perché continuasse laggiù i suoi miracoli. Così, il Brasile qui – pur senza mai vederlo – è rimasto vivo nel cuore di tutti.

Due suoi fratelli erano andati apposta in Australia, per convincerlo. Per portarselo a casa, per sempre. La malattia di padre Nazareno Frattin era grave e avanzata. Tutta la Congregazione scalabriniana, dispersa nei cinque continenti, era in preghiera per lui. Ma lui preferiva semmai morire tra i suoi migranti, in terra australiana. In finibus terrae. Sì, in capo al mondo: qui tutta – ma veramente tutta – la gente lo amava. E lui ricambiava con la sua abituale dolcezza e spiritualità. «Almeno potremo portarti un fiore, se torni a casa, – erano le parole di uno dei fratelli – sarai vicino a noi, solo questo ci potrà consolare!». La promessa del fiore l’aveva commosso e, in fondo, convinto. Così, «come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca» (Isaia)e li seguì. Dopo soli quattro giorni, tutto il popolo del paese era in chiesa, per presentarlo a Dio. Non tanto per piangere. Ma per dirgli grazie di un dono così grande: il loro figlio più bello, missionario lontano, spentosi appena cinquantenne. Amava la vita, ma soprattutto il canto, vi racconta Margherita. Tutti in famiglia, d’altronde, erano cantori o musicisti. E lui già in seminario per i giovani seminaristi era il maestro di musica. Sì, in anticipo si presentava in paradiso. Ansioso, forse, di conoscerne le melodie, e perdersi tra il coro degli angeli, dei patriarchi e dei profeti. Un fiore sempre fresco, intanto, gli tiene compagnia sulla terra, a Casoni. Ce lo assicura la cognata, Margherita, proprio l’altro giorno. Con un sorriso dentro di pace e di nostalgia.

«Il Signore è Risorto proprio per dirvi che di fronte a chi decide di ‘amare’, non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno sepolcrale che non rotoli via» ricorda, in fondo, ad ognuno un vescovo di frontiera. Il suo nome era Tonino Bello. (Migrantes Marche – P. Renato Zilio)

 

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