25 Gennaio 2021 – Roma – «Far comprendere le motivazioni profonde che spingono tante persone a migrare in cerca di un futuro migliore è tra i compiti di una informazione chiara, seria e oggettiva». Con queste parole il cardinal Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e Segretario della Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI ha aperto lo scorso fine settimana l’incontro sul tema “la comunicazione su migranti e rifugiati tra solidarietà e paura” promosso su impulso della Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce, Associazione ISCOM e Harambee Africa International. Giornata di studio e di formazione professionale per giornalisti alla viglia della Festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Il porporato ha richiamato l’importanza di contrastare le narrazioni ideologiche con «la precisione di una comunicazione sana e intelligente». La stessa su cui ha riflettuto padre Fabio Baggio, Sottosegretario Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, per il quale i limiti presenti nell’attuale panorama informativo sono in particolare «le facili generalizzazioni, la leggerezza anche nell’utilizzo di termini impropri (clandestini, illegali, extracomunitari) e le analisi affrettate». Là dove Papa Francesco, con l’enciclica Fratelli tutti, mette in allerta dai “narcisismi localistici” preoccupati di creare mura difensive. E invita a confrontarsi nel dialogo con tutti “poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana”.
Tra le criticità della rappresentazione del fenomeno migratorio, la pigrizia di gran parte dei media nel limitarsi alla mera e sterile divulgazione di numeri e dati (“le fredde statistiche”), trascurando le persone e le loro storie, ciascuna con una identità e un vissuto straordinari. Come quelli di tre rifugiati, le cui testimonianze hanno accompagnato il dibattito, moderato da Donatella Parisi, responsabile Comunicazione del Centro Astalli, sulla costruzione sociale e sulla percezione dell’immigrazione.
Di fronte alle campagne di ostilità e alla propaganda sovranista, occorre dare voce a un’Italia «che non si vede, non si conosce», ha osservato Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio: «Un Paese che si sta già ricostruendo, proprio attorno all’arrivo dei profughi arrivati in maniera sicura grazie all’intuizione dei Corridoi Umanitari»: persone comuni, che operano per l’accoglienza e l’integrazione a proprie spese, dedicando tempo, soldi, risorse umane. Una chiave per parlare degli “italiani” e di come costruire un territorio più solidale. Una comunicazione chiamata a offrire una via d’uscita alla visione negativa dell’altro, infarcita di stereotipi e pregiudizi, dovrebbe fare tesoro degli insegnamenti di Gordon Allport, eminente psicologo statunitense. Insegnamenti che Aldo Skoda, incaricato di Teologia alla Pontificia Università Urbaniana, ha condensato: «Sottolineare il medesimo status tra migranti e autoctoni, entrambi persone capaci di un dialogo tra pari; l’importanza dell’interazione cooperativa, con la narrazione di esempi di co-costruzione della società in cui i migranti e i rifugiati abbiano un ruolo di protagonisti, non solo di fruitori; un chiaro sostegno sociale e istituzionale che metta in luce la realtà per quella che è, rifuggendo da facili buonismi». Il punto, ha rilevato Fabrizio Battistelli, ordinario di Sociologia alla Sapienza, è che «gli aspetti negativi fanno più notizia di quelli positivi, per cui è più semplice dare la notizia più clamorosa e scandalistica, per suscitare l’attenzione si calca la mano sull’aspetto dell’allarme anche quando non c’è. A trasformare il ‘rischio’ migrazioni in un’autentica ‘minaccia’ è il discorso mediatico, che rimuove sistematicamente i benefici». Il compito è dunque quello di scandagliare il fenomeno nella sua complessità, evidenziandone costi e vantaggi. «E lo devono fare da una parte la politica e dall’altra l’informazione, offrendo una comunicazione non strumentale, che non miri soltanto ad avere audience e voti». Per padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, una corretta percezione del fenomeno non può prescindere dal «coltivare la fiducia reciproca tra migranti e autoctoni e dal praticare la cultura dell’incontro, con il proposito di ascoltarsi, mettersi cioè nei panni gli uni degli altri»: “conoscere per comprendere”, per richiamare le parole di Papa Francesco. Puntando sui giovani e sulle scuole italiane per gettare le basi di una società in cui le diversità etniche, linguistiche e religiose siano considerate una ricchezza, non un ostacolo per il nostro futuro. «Migliaia di studenti ogni anno hanno la possibilità di ascoltare – grazie agli incontri promossi dal Centro Astalli – le testimonianze dirette di uomini e donne che hanno vissuto l’esperienza dell’esilio o che sono fedeli di religioni diverse dalla nostra».
La riflessione si è focalizzata infine sul linguaggio e la deontologia della professione giornalistica, temi introdotti da Irene Savio, giornalista e coautrice di Mi nombre es refugiado (Reportajes, 2016). Con il supporto dell’Osservatorio di Pavia, l’Associazione Carta di Roma ha esplorato il lessico della migrazione per ciascun anno dal 2013 al 2020. Ne ha parlato il suo presidente, Valerio Cataldi: «Nel 2013 la parola simbolo era “Lampedusa”, teatro di naufragi e di accoglienza, nel 2014 “Mare nostrum”, l’operazione di salvataggio in mare dei migranti nel Canale di Sicilia e nel 2015, all’indomani della morte del piccolo Alan Kurdi, “Europa”, come risposta europea agli arrivi di migranti e rifugiati. Nel 2016, la cornice in cui si racconta la migrazione, inizia a cambiare, sono i “muri” la parola simbolo e nel 2017 le “Ong”, verso cui si orientano sospetti e accuse di “svolgere le operazioni di ricerca e di soccorso in mare a scopo di business”. Nel 2018 la parola simbolo è “Salvini”, l’anno successivo è ancora “Salvini” affiancato da “Carola” (la migrazione è ormai un tema di confronto e scontro politico). La parola simbolo del 2020 è “virus”, in una cornice di allarme sanitario che associa la presenza di migranti a possibili contagi».
Continuano a essere presenti – ha sottolineato Paolo Lambruschi, caporedattore di Avvenire – «alcune delle parole che hanno contraddistinto questi ultimi anni di racconto della migrazione: emergenza, invasione, sbarchi, ghetti, confini. Tutte funzionali a un giornalismo poco accurato, ansiogeno – là dove è essenziale continuare a studiare e approfondire -, che non si cura di capire e far capire bene, ignorando il carattere globale del fenomeno senza indagare sulle nuove rotte migratorie gestite dai terroristi, al di là del Mediterraneo e della rotta balcanica. E relegando ai margini i progetti di sviluppo e le missioni umanitarie». Necessario, anche da parte degli operatori dell’informazione, incalzare l’Europa a promuovere canali legali d’ingresso, da concordare tra tutti i Paesi membri, «per porre fine al traffico di esseri umani, una piaga che non conosce pause, affrontando con razionalità il problema dei migranti economici».