Card. Bassetti, “la cura di ogni persona migrante è sempre doverosa”

27 Ottobre 2020 – Roma Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Card. Gualtiero Bassetti alla presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes:

 

Prima di entrare nel merito di questo incontro che intende riflettere sulla presenza degli

Italiani nel Mondo, attraverso il Rapporto della nostra Fondazione Migrantes, mi sia

permesso rivolgere un saluto deferente e un ringraziamento particolare al Presidente

Conte. Sono giornate intense che stanno investendo tutto il nostro Paese, in ogni settore.

Giornate di sofferenza che sembrano portarci indietro nel tempo. La Sua presenza qui,

oggi, non è scontata e, per questo, La ringrazio, così come ringrazio il Presidente Tridico.

Sono giornate intense, dicevo, in cui tutti siamo chiamati a quel senso di responsabilità,

che è parte essenziale del bene comune. Come Chiesa che è in Italia non ci tiriamo

indietro. L’impegno, la cura, la custodia – ma anche la sofferenza per quanto avviene –

delle nostre parrocchie sono una testimonianza viva, impastata con l’ascolto concreto

delle ferite e dei drammi. Ascolto che, come comunità cristiana, rivolgiamo a tutti,

nessuno escluso! Mi sono tornate alla mente le parole che il Presidente Mattarella

pronunciava un anno fa: “Le innumerevoli iniziative di diocesi, parrocchie, realtà

associative, in favore dei più deboli, degli emarginati, di chi chiede ascolto e accoglienza,

sono concrete ed evidenti; e costituiscono un richiamo costante all’esigenza di aiuto

reciproco nella vita quotidiana”, per rafforzare la coesione della comunità. Un contributo,

questo, che la pandemia ha reso ancora più manifesto nelle sue dimensioni spirituali, ma

anche sociali. Nel fratello sofferente abbiamo riconosciuto il volto del Cristo sofferente,

che si fa Eucaristia, cioè dono per tutti, rendendoci fratelli. In questo momento della

nostra storia siamo chiamati, ancora di più, a essere “Chiesa in uscita”.

Eccoci, allora… Benvenuti a questo incontro nel quale presentiamo il quindicesimo

Rapporto Italiani nel Mondo curato dalla Fondazione Migrantes.

La mobilità italiana è un tema che ci riguarda come popolo e come singoli: ognuno di noi,

per esperienza personale o familiare, sa cosa significa lasciare il proprio territorio, partire,

ma anche arricchirsi a livello umano e professionale grazie a questo “andare”.

Vorrei evidenziare almeno quattro aspetti decisivi del Rapporto Italiani nel Mondo 2020.

  1. Andare oltre i numeri e lo spazio. Non nascondo che i numeri sono sempre

complicati, specialmente quando sono tanti. Eppure, in queste pagine, i numeri

acquisiscono un significato profondo che ci fa toccare la vita, che ci fa incontrare l’altro.

Sono convinto, infatti, che il perimetro della nostra esistenza non sia confinato qui, in

questa stanza, ma che, grazie alla tecnologia, riusciamo ad andare oltre, a “incontrare” e

“dialogare” con chi è fuori, poco distante, più lontano o addirittura oltreoceano.

Non so quanti siano collegati con noi ora, ma so per certo che questo progetto, che come

Chiesa italiana abbiamo voluto quindici anni fa, ha creato una grande famiglia di

ricercatori, collaboratori, esperti. Oltre 700 studiosi che hanno scritto più di 7mila pagine:

un capitale umano e culturale notevole per il quale ringraziamo la Fondazione Migrantes

e quanti, nel tempo, si sono spesi con impegno e dedizione.

 

  1. Il dialogo costante con le Istituzioni. Tra mille riferimenti diversi, ho trovato con

mio grande piacere una citazione della Lettera Pastorale per la Quaresima scritta dal

vescovo Bonomelli nel 1896, che l’Ufficio Migrantes di Torino ha voluto rieditare in

occasione della Giornata del Migrante e del Rifugiato di fine settembre scorso: “Perché

l’emigrazione non sia dannosa agli emigranti e raggiunga il fine provvidenziale non deve

essere abbandonata a se stessa. Essa deve essere protetta, guidata da quelli che ne hanno

il potere e il dovere ora legale, ora soltanto morale”. Sono passati ben 124 anni da quando

Bonomelli fece quest’affermazione, ma essa mantiene un’attualità straordinaria.

Bonomelli faceva riferimento ai migranti italiani che in gran numero partivano alla fine

dell’Ottocento, spinti dalla fame e dal desiderio di una vita migliore, ma sembra parlare

del presente, con un rinnovato appello alla responsabilità politica, a quell’essere “liberi e

forti” di sturziana memoria per andare “controcorrente e farsi difensori coraggiosi della

dignità umana in ogni momento dell’esistenza: dalla maternità al lavoro, dalla scuola alla

cura dei migranti”.

Le ultime modifiche normative, in discontinuità con il recente passato, contribuiscono a

restituire l’immagine di migranti e richiedenti protezione come persone in carne e ossa,

vittime di un sistema globale di iniquità economica e politica, di ingiustizia sociale e non

come criminali o minacce all’ordine pubblico. La cura di ogni persona migrante, qualsiasi

sia la direzione del suo andare e il passaporto in suo possesso, è sempre doverosa.

Auspichiamo la stessa cura per i migranti italiani in mobilità, per chi è già all’estero da

tempo, per chi è nato all’estero, per chi è partito da poco o per chi ha intenzione di

partire.

Il Rapporto Italiani nel Mondo fa emergere le fragilità di questo tema e le sfide che

attendono di essere affrontate e risolte.

 

 

Mi soffermo solo su tre nodi da sciogliere:

la carenza di un sistema anagrafico che tenga conto di tutti coloro che partono: le

prime generazioni e le ultime, chi si è definitivamente stabilito oltreconfine e chi, invece,

sperimenta percorsi di mobilità transitori;

un sistema di rappresentanza che va rimodulato, soprattutto a seguito dell’ultima

tornata referendaria che ha decretato la riduzione del numero dei parlamentari;

la cittadinanza. Il Rapporto Italiani nel Mondo sottolinea l’importanza di un

riconoscimento che non sia finalizzato all’uso e al consumo personale, al semplice

possesso di un passaporto che apra le porte dell’Europa, ma alla definizione di una

identità fortemente legata a un territorio in cui ci si riconosce, sebbene non ci si sia nati, e

a cui si vorrebbe poter dare il proprio contributo concreto.

 

Fermare la mobilità umana è un’utopia, un’illusione. Governarla, guidarla, è invece la

chiave di volta per affrontare un fenomeno che altrimenti può creare disagi e malesseri

sociali. L’accompagnamento, però, deve prevedere anche il rispetto dei diritti di cui, negli

anni, questo nostro Rapporto si è fatto portavoce esemplare: il diritto di migrare, il diritto

di restare, il diritto di tornare, il diritto a una vita felice e dignitosa.

Chiunque può e deve trarre dall’esperienza migratoria un arricchimento per se stesso,

deve poter tornare così come deve potersi sentire realizzato e valorizzato nel luogo in cui

vive.

 

  1. L’attenzione al territorio. C’è un altro aspetto, molto interessante, che il Rapporto

mette in luce: il territorio, inteso come luogo di rinascita di una nuova dimensione sociale

di prossimità.

«Bisognerebbe – scrive Edgar Morin nel testo La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà

del mondo, (Ave, Roma, 2020) – contrapporre alla mondializzazione, che desertifica

umanamente ed economicamente così tanti territori, la localizzazione, che salvaguarda la

vita delle regioni. Insomma, più vi è del mondiale, più bisogna che vi sia del locale, e il

locale riguarda anche, evidentemente, le oasi di vita, che dovrebbero a loro volta essere

mondialmente connesse» (p 51). Si tratta, in altri termini, di un ritorno alla dimensione

micro, al borgo in cui ritrovare una “fratellanza efficace” «concretamente intrecciata

lungo la via oscura e incerta che ci accade di percorrere giorno per giorno con altri, umani

e non» (p. 71). Uno spirito di com-passione che leghi le generazioni, esattamente quello

che la pandemia ha messo in luce: l’esigenza di agire insieme per il ben-essere comune.

«Sogniamo – dice Papa Francesco nella sua ultima Enciclica Fratelli Tutti – come un’unica

umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra

che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni,

ciascuno con la propria voce, tutti fratelli» (n. 8). Papa Francesco fa appello al nostro stile

di vita, al nostro atteggiamento sociale ma anche al modo di stare al mondo, al rispetto

per l’ambiente e la madre Terra che ci ospita. Ma unisce la fratellanza all’amicizia sociale

affermando che «Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità

di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione

globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al

vuoto» (n. 9).

Appartenenza, prossimità, solidarietà, impegno. Quattro parole che devono diventare

regole di vita, buoni propositi da mettere in pratica tornando nei nostri luoghi di lavoro,

nelle nostre case, nei nostri quartieri, in parrocchia, perché la migrazione e i migranti

fanno parte della nostra quotidianità di cittadini, di famiglie, di popolo, di un Paese che

vive da sempre la mobilità (verso l’estero, dal Meridione al Nord, tra le regioni, e così via).

 

  1. Lo studio e il “nostro” osservatorio privilegiato. La mobilità, dunque, fa parte

della nostra quotidianità. È per questo che la Conferenza Episcopale Italiana ha promosso

la Fondazione Migrantes, che ha il compito di studiare i fenomeni sociali e di dare un

contributo fattivo. A partire da quanto recepito da questo nostro osservatorio

privilegiato, che è a stretto contatto con la gente ed è capillarmente diffuso in Italia e

all’estero, cerchiamo di entrare in dialogo con le Istituzioni. Siamo tante sentinelle.

Ricordo, a questo proposito, i missionari, i religiosi e le religiose, i laici che dedicano il loro

tempo e spesso la loro vita alla causa migratoria, insieme alle migliaia di persone a

servizio dei nostri connazionali all’estero nelle Missioni Cattoliche di Lingua Italiana.

Quando papa Francesco parla della “Chiesa in uscita” e del pericolo della

“autopreservazione”, altro non fa che chiederci di uscire dalle nostre strutture, di essere

capaci di cogliere i “segni dei tempi” e di mettere in moto la creatività pastorale.

Come Chiesa e come Paese in cui la cristianità affonda le sue radici abbiamo la

consapevolezza dell’importanza della relazione umana solidale, dell’essere prossimi

all’altro. “Senza meraviglia e stupore la vita perde il suo senso e svilisce. Mentre l’incanto

e la commozione risvegliano in noi qualcosa di altro, che al di là del semplice approccio

umano, inonda l’anima di beatitudine e ci fa rivolgere lo sguardo all’eterno” (dal Meeting

di Rimini, agosto 2020).

Dobbiamo riscoprirci meravigliati e stupiti, com-passionevoli, per ritrovare dentro di noi

questa radice primigenia che ci fa essere cristiani pronti a conoscere l’altro, con le sue

ricchezze e con le sue diversità, e proprio per questo pieni di Dio. Siamo chiamati a una

sfida di civiltà: andare incontro al diverso perché migranti tra i migranti ed essere popolo

accogliente per chi arriva.

E se la nostra “cara e diletta Italia” è quel paese descritto dal Rapporto Italiani nel Mondo,

sempre meno giovane e sempre meno entusiasta, lavorare per rammendare il tessuto

della nostra storia diventa quanto mai doveroso e non più procrastinabile.

 

 

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