Settanta volte sette

14 Settembre 2020 – Città del Vaticano – La parola chiave di ieri (domenica ndr) , vigilia della festa dell’esaltazione della croce – “un patibolo di condanna che Cristo ha trasformato nella condanna del patibolo”, scriveva il cardinale Angelo Comastri – è perdono. La stessa parola che Gesù pronuncia inchiodato a quel legno di sofferenza, tortura e morte. Davvero il modo di agire di Dio è eccessivo, tutto è dono oltre ogni misura – per-dono – oltre ogni attesa e speranza. L’uomo, insomma noi, siamo lì a misurare le cose, come fa Pietro, lo racconta Matteo, che non mette in dubbio il perdono, non ne esclude la possibilità, ma, appunto, chiede fino a quante volte perdonare.

La parabola che ci viene proposta è quella dei due servi debitori. Papa Francesco, all’Angelus, mette in evidenza anzitutto la sproporzione fra il servo che “deve al suo padrone diecimila talenti, una somma enorme, milioni e milioni di euro” e l’altro servo che deve, al primo, un debito ”piccolissimo, forse come lo stipendio di una settimana”. Risposte differenti: il re, cioè Dio, perdona tanto, mentre l’uomo, il servo, fa imprigionare il debitore. “Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia. C’è bisogno di quell’amore misericordioso”. Dio è insieme giustizia e misericordia.

Quanto è difficile saper perdonare, mettere da parte ira, vendetta, offesa e avere la capacità di dire: ti ho perdonato. Le cronache dei nostri tempi ci portano atteggiamenti e parole molto distanti dall’idea del perdono: voglio che patisca la stessa sorte. Quante volte la ferita di un distacco non ha permesso che si pronunciasse la parola perdono.

Il brano del Vangelo di Matteo di ieri indica a tutti noi una strada diversa. Pietro si rivolge a Gesù e gli chiede: Signore quante volte dovrò perdonare il fratello che commette colpe contro di me? E la risposta – settanta volte sette – non può non lasciarci senza parole. Non ci sono limiti al perdono ci dice Gesù con quella risposta a Pietro. C’è da dire che ci portiamo dietro un’idea sbagliata di perdono, quasi fosse una spugna che cancella le colpe, la memoria di un gesto, dell’offesa ricevuta.

L’urgenza del perdono è sottolineata dal Papa all’Angelus: “è necessario applicare l’amore misericordioso in tutte le relazioni umane: tra i coniugi, tra i genitori e i figli, all’interno delle nostre comunità, nella Chiesa e anche nella società e nella politica”. Se perdono e misericordia fossero “lo stile della nostra vita”, afferma il Papa, “quanta sofferenza, quante lacerazioni, quante guerre potrebbero essere evitate […] Quante famiglie disunite che non sanno perdonarsi! Quanti fratelli che hanno questo rancore dentro! È necessario applicare l’amore misericordioso in tutte le relazioni umane: tra i coniugi, tra i genitori e i figli, all’interno delle nostre comunità, nella Chiesa e anche nella società e nella politica”.

Ricorda poi le parole della lettura del Siracide – “ricorda la fine e smetti di odiare” – e dice: “pensiamo a questa frase tanto toccante. E non è facile perdonare. Nei momenti tranquilli diciamo: questo me ne ha fatto di tutti i colori! Ma anche ne ho fatte tante. Ma poi il rancore torna come una mosca fastidiosa d’estate. Occorre perdonare sempre, non in un solo momento”. E ricorda la preghiera del Padre nostro, quel “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Parole che contengono “una verità decisiva”, cioè “non possiamo pretendere per noi il perdono di Dio”, se non lo concediamo a nostra volta, “se non ci sforziamo di perdonare e di amare, nemmeno noi verremo perdonati e amati”.

Nel dopo Angelus, il pensiero del Papa va a quanto accaduto nel campo di Moira, isola di Lesbo – Francesco aveva visitato quel campo 16 aprile 2016 – e chiede che sia assicurata “un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi, a chi cerca asilo in Europa”. E lancia, infine, un duplice appello: ai partecipanti alle manifestazioni popolari di protesta perché non cedano “alla tentazione dell’aggressività e della violenza”; ai politici e governanti perché ascoltino “la voce dei loro concittadini”, vadano incontro “alle giuste aspirazioni”, nel “pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà civili”.

Fabio Zavattaro

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