26 Agosto 2020 – Roma – “Dio vi perdoni per quello che avete fatto” dice ai cardinali usciti dal Conclave, uno dei più brevi della storia. E’ il 26 agosto 1978 e il nuovo pontefice, Giovanni Paolo I, si è appena affacciato alla Loggia centrale di San Pietro per salutare i fedeli riuniti in piazza alla notizia della nomina del successore di Pietro. Avrebbe voluto dire qualcosa a quella gente, papa Albino Luciani (questo il suo vero nome) ma il rigido cerimoniale non lo prevede: “non rientra nella consuetudini”. Lo fa però il giorno successivo, domenica, al suo primo Angelus. Parla in modo semplice e schietto, ma diretto.
“Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere”, confida sorridendo, quasi si sente vittima di una improvvisazione. E’ stato eletto al quarto scrutinio di un Conclave-lampo, durato solo un giorno. Sceglie di portare il nome dei due papi che lo hanno preceduto: Giovanni XXIII e Paolo VI. Si chiamerà infatti Giovanni Paolo I.
“Ho fatto questo ragionamento”, confida ai fedeli in quel suo primo discorso. “Papa Giovanni ha voluto consacrarmi lui con le sue mani qui nella Basilica di San Pietro; poi, benché indegnamente, a Venezia gli sono succeduto sulla cattedra di San Marco, in quella Venezia che è ancora piena di papa Giovanni”.
E oggi nel paese natale, Canale d’Agordo, provincia di Belluno, a quasi mille metri sul livello del mare, una celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, mons. Gian Carlo Perego invitato dal vescovo di Belluno-Feltre, mons. Guido Marangoni. Nella sua omelia il presule ferrarese ha evidenziato come il tema delle migrazioni era molto “caro a papa Luciani, che aveva visto il padre, la madre e altri familiari emigranti, partire alla ricerca di un lavoro in Svizzera. La chiamata alla santità chiede a ciascuno di noi – ha detto – pastori e fedeli, di vincere l’ipocrisia e avere il coraggio della verità e della testimonianza cristiana”. Papa Francesco nell’enciclica Laudato sì ricorda che “la situazione attuale del mondo provoca un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo. Quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità. Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare. In tale contesto non sembra possibile che qualcuno accetti che la realtà gli ponga un limite. In questo orizzonte non esiste nemmeno un vero bene comune” . La santità “non cresce sull’egoismo e l’individualismo, ma solo nella condivisione e nell’attenzione agli altri e al mondo. Come è stato capace Papa Luciani, il cristiano, il pastore di questa terra, che di Giovanni XXIII ha raccolto il coraggio di una riforma della Chiesa sfociata nel Concilio Vaticano II e di Paolo VI ha fatto suo il coraggio di un dialogo con il mondo, coniugando evangelizzazione e promozione umana”.
Il futuro Papa varie volte ha parlato di emigrazione ricordando: “mia madre, da ragazza, ha lavorato in una fabbrica svizzera. Il papà, quand’ero fanciullo, lavorava in Svizzera da muratore. Ricordo quando il papà, di primavera, ripartiva da casa con la sua valigia e la tristezza di quei momenti. Ricordo come venivano lette e commentate le sue lettere. In una parola, ho visto e vissuto il dramma della emigrazione. Per questo è con tenerezza e viva comprensione che mando il mio cordiale saluto e che formulo i miei auguri per le famiglie che rivivono oggi quanto la mia famiglia ha provato ieri”. Varie anche le visite del futuro papa agli emigrati in varie occasioni come al santuario di Mariastein, dove incontra molte famiglie di emigrati veneti e amministra la cresima. Ma anche, come ricorda lo storico Marco Roncalli, in Brasile con l’incontro con emigrati della sua regione di più di una generazione, “parlando con loro non tanto il portoghese quanto il dialetto delle radici, tenendo persino prediche e discorsi in veneto, riuscendo a commuovere questi suoi lontani corregionali fra i quali anche suoi parenti”. E poi in Germania a Magonza dove partecipa alla “Giornata del lavoratore italiano all’estero” infondendo – scrive Roncalli – “coraggio ai connazionali e citando i suoi genitori che avevano fatto la loro stessa esperienza”.
E nel 1965 scriveva: “qualche vescovo si è spaventato: ma allora domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda a Roma, vengono a convertire l’Italia. Oppure ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica”. Parole che molti ancora oggi fanno fatica ad accettare.
Raffaele Iaria