20 Settembre 2019 – Città del Vaticano – Si è parlato molto sui giornali italiani, tra luglio e agosto, della vicenda dei “boat people” vietnamiti salvati nel 1979 dall’Italia grazie a un’efficace quanto repentina operazione compiuta nel Mar cinese meridionale.
Una storia per alcuni aspetti commovente, protagonista un paese, il “bel paese”, piuttosto diverso da quello che sarebbe diventato 40 anni dopo. Belle immagini, quelle che ritraggono i marinai italiani in compagnia delle persone soccorse, in gran parte bambini, e dei loro genitori riconoscenti. Belle immagini quelle dei profughi intenti a verniciare il ponte della nave, per rendersi utili.
Bellissimo vedere i visi sorridenti, le espressioni soddisfatte che solo chi vive una vita piena, e piena di senso, riesce ad avere.
Impressionante osservare quanto rispetto trasudi da quel messaggio, diventato famoso, che veniva letto in lingua vietnamita ai profughi: “Le navi vicine a voi sono della Marina Militare dell’Italia e sono venute per aiutarvi. Se volete, potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi vi porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e infine assistenza e medici. Dite cosa volete fare e di cosa avete bisogno”. Commovente leggere i ringraziamenti dei vietnamiti: “Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per questa causa vi siete sacrificati. Grazie”. E infine la risposta dei soccorritori, sobria, finanche severa. Ma quanto civile…: “Noi siamo dei militari; ci è stata affidata una missione e abbiamo cercato di eseguirla nel modo migliore. Siamo felici d’aver salvato voi e così tanti bambini e di portarvi nel nostro paese. L’Italia è una bella terra anche se gli italiani, a volte, hanno uno spirito irrequieto. Marco Polo andò con pochi uomini alla scoperta dell’Asia; voi venite in tanti nel nostro piccolo mondo. Sappiate conservare la libertà che avete ricevuto”.
Fu una corsa agli aiuti, all’accoglienza, dalle diocesi cattoliche alla comunità civile. Alla fine si raccolsero anche troppe risorse rispetto al necessario.
Era il 1979. Che cosa è successo, dopo? Cosa ci ha cambiato tutti così tanto? Cosa ci ha imbarbarito, resi duri, cinici, ben più che “irrequieti”, piuttosto, in qualche caso, ringhiosi giustizieri? Nel cercare di rispondere a queste domande, imperativo rigoroso è l’esercizio dell’obiettività. L’Italia era in effetti un paese diverso. Il mondo era diverso. Da poco si era consumata la tragedia di Aldo Moro, l’atmosfera era cupa come il piombo di quegli anni. Il Muro a Berlino era ben saldo e ogni tanto, bisogna ricordarlo sempre, qualcuno moriva nel tentativo di oltrepassarlo. Chi oggi rivendica primazie nazionali potrebbe anche ricordarci che all’epoca il fenomeno migratorio dall’estero in Italia era pressoché sconosciuto. E che pertanto è improprio parlare dell’accoglienza di un migliaio di vietnamiti paragonandola all’arrivo quotidiano sulle coste italiane di centinaia di migranti. L’Italia del 1979 viveva ancora un profondo senso di colpa: anche a causa del terrorismo, era ricaduta nelle lacerazioni di 35 anni prima, quando si era trovata spaccata in due per effetto di una guerra decisa da una dittatura alla quale, se non aveva aderito entusiasticamente, non aveva neanche opposto una grande resistenza. Un paese al quale nonostante tutto era stata concessa una generosa apertura di credito dai suoi ex nemici. In un certo senso echeggiava ancora, nella coscienza nazionale, la celebre frase di De Gasperi quando dopo una corposa anticamera in occasione della conferenza di pace a Parigi, di fronte ai leader dei paesi vincitori, aveva esordito così nel suo intervento: “Tutto è contro di me, tranne la vostra personale cortesia”. Di più. Occorre dirlo: l’Italia era un paese della Nato e andare ad accogliere i profughi vietnamiti in fuga dal regime comunista rappresentava oggettivamente una formidabile occasione di propaganda occidentale.
Però, soprattutto, l’Italia voleva ricambiare la “cortesia” di essere stata aiutata. Voleva entrare a pieno titolo nel novero dei paesi più sviluppati, democratici, civilizzati. Era assetata di futuro. Di grandi ideali. La classe politica, nelle sue carenze, rappresentava pregi e difetti della società italiana ma non aveva rinunciato a sognare, ad avere un’idea di paese. Esistevano ancora gli uomini di Stato. Dello Stato. Esistevano ministri, come Attilio Ruffini nel 1979 alla Difesa, che al più piccolo dei suoi figli Ernesto raccontava come l’operazione di salvataggio dei profughi vietnamiti era in assoluto ciò di cui andava più fiero di tutta la sua carriera politica. C’era Pertini. C’era una macchina organizzativa capace in soli cinque giorni di trasformare tre navi da guerra, la Vittorio Veneto, la Andrea Doria e la Stromboli, in ospedali da campo e accoglienti nursery per chi non parlava una parola di italiano. Una classe politica che non aveva timore di chiedere aiuto al Vaticano per avere interpreti vietnamiti (si immagini quali polemiche oggi potrebbe suscitare un fatto del genere). L’Italia accolse quella povera gente, pure essendo ancora relativamente povera. Ma non pensò al contingente. Pensava a quello che avrebbe potuto essere, al sogno di un’Italia di cui essere fieri.
Servirebbe tanto, oggi, una politica che ricominciasse a parlare di progetti a lunga scadenza, una classe dirigente che, da destra e da sinistra, volesse mettersi seriamente attorno a un tavolo riscoprendo il gusto dell’unica missione per la quale una élite in quanto tale trova la sua giustificazione, quella di assumersi la responsabilità di disegnare il futuro di una comunità.
Ecco cosa ci è successo, in fondo. È accaduto che, 40 anni dopo, abbiamo smesso di sognare. Di sognare un bel Paese. (Marco Bellini – Osservatore Romano)