Milano – Abdul è diventato apicoltore. Sta insegnando le tecniche ai suoi familiari e sogna, domani, di ritornare nel suo Paese, il Senegal per iniziare a produrre e vendere la pappa reale. Amadou vive a Bologna e fa il gelataio. Viene dal Gambia. Poi c’è Gianfaruk, del Togo, che vive e lavora a Fucecchio in una conceria. Sono solo alcune, le più piccole, storie di grande integrazione. È l’altra faccia delle migrazioni, la faccia più bella. Che aiuta il rifugiato a costruirsi un futuro ma diventa anche risorsa per il Paese che lo ospita. Sì, perché l’integrazione passa soprattutto dal lavoro e non solo dall’accoglienza. Da un percorso guidato verso un’autonomia lavorativa che ridà dignità a chi ha vissuto sulla propria pelle storie di schiavitù e violenza. Sono le storie dei rifugiati che, insieme ai loro imprenditori e datori di lavoro, ieri sono stati premiati a Milano dall’Agenzia Onu per i rifugiati (ACNUR) e da Assolombarda. Complessivamente, dal 2017, 120 aziende sono state premiate per aver favorito l’inserimento di 1.200 rifugiati.
“I paesi che accolgono rifugiati affrontano sfide importanti per includerli nelle loro economie e società – ha sottolineato l’Alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi – . Ma è giunto il momento di cambiare il modo in cui ne parliamo. I rifugiati devono essere considerati una risorsa per i Paesi ospitanti. I rifugiati apportano un patrimonio di competenze ed esperienze che possono essere di grande beneficio per tutti. I rifugiati sono esseri umani, persone che nella maggior parte
dei casi facevano una vita normale, come il resto di noi: avevano un lavoro oppure frequentavano corsi di formazione, prima che il conflitto o la persecuzione nei loro paesi li costringesse a fuggire. Erano dottori, idraulici, ingegneri, insegnanti, elettricisti, e lo sono ancora o sognano di esserlo”.
“Ho incontrato tanti rifugiati durante la mia carriera e quando ho chiesto loro cosa li ha aiutati, o li avrebbe aiutati a sentirsi integrati, la risposta è stata quasi invariabilmente: il lavoro”, ha aggiunto. Ma in Italia l’immigrato diventa anche in molti casi imprenditore di se stesso. L’ultimo rapporto della Fondazione Moressa parla di 700mila imprenditori stranieri. Una cifra record. E per la prima volta, i cinesi superano i marocchini e i tunisini. Gli imprenditori nati all’estero a fine 2018 erano, precisamente, 708.949, con un’incidenza del 9,4% sul totale del sistema Paese. Negli ultimi dieci anni, secondo la Fondazione Moressa, appare evidente la differenza tra i titolari d’impresa nati in Italia (-10,5%) e quelli nati all’estero (+41,0%), tendenza che si conferma, anche se meno marcatamente, nell’ultimo anno: -0,1% per gli italiani, +2,6% per gli stranieri.
Tra le novità anche il fatto che per la prima volta la Cina diventa il primo paese di provenienza degli imprenditori immigrati (73.795), superando il Marocco (72.630). Al terzo posto la Romania, con poco meno di 70mila unità. Il comparto in cui la componente straniera ha il peso maggiore è l’edilizia, con il 15,0%; seguono commercio (13,1%) e ristorazione (11,7%). Tra gli imprenditori cinesi, circa un terzo, opera nel commercio (34,3%), poi nella manifattura (26,8%) e nella ristorazione (22,6%). I titolari d’impresa della Romania sono specializzati invece nelle costruzioni (53,4%), così come quelli dell’Albania (63,0%). Tra le grandi città dove le imprese hanno forte componente straniera vi sono Milano, Roma, Torino e Napoli. Il record appartiene però a Prato, patria del tessile a firma cinese, con un’incidenza del 23%. (Daniela Fassini – Avvenire)