“Storie di semola” della Migrantes segnalato dal Premio Luzi

Milano – Descrive sapori e profumi con la leggerezza della scoperta. Il tascabile “Storie di semola e semplicità”, scritto da Damiano Meo e pubblicato dall’editrice Tau nella collana “Testimonianze e esperienze delle Migrazioni” della Fondazione Migrantes, è stato segnalato come opera meritevole di attenzione nella sezione di narrativa edita del “Premio Internazionale Mario Luzi”, patrocinato dal Senato della Repubblica, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo (MiBACT) e da altri enti. Lo stesso libello a settembre ha vinto il premio “Books for Peace” ad Aprilia e ha partecipato al festival BookCity di Milano. In un condensato di  pagine, il testo affronta il fenomeno migratorio italiano ed europeo attraverso prospettive multiple: la cucina, le ibridazioni, la lingua e i dati. Come scrive l’autore nell’introduzione: “si può viaggiare rimanendo ancorati al proprio microsistema, in cui spezie, colori, modi di fare e parole nuove o storpiate ci parlano di umanità sconosciute e/o ignorate. Bisogna spesso partire dal basso per migliorare il proprio contesto socio-affettivo. E gli incontri, cauti ed al contempo genuini, innescano dialoghi e conoscenza. Quest’ultimi due fattori, credo, siano elementi rasserenanti in un clima ansiogeno, che, appiccicoso, imbratta chiunque; spesso centrato su generalizzazioni inadeguate, le stesse che non fanno bene, alzano muri, creano divisioni, edificano prigioni intellettuali ed emotive. Nessuno è cattivo per sua natura; la parola latina “captivus”, da cui deriva il corrispettivo italiano “cattivo”, significa infatti “prigioniero”. Quindi sono le mura che spesso ci si costruisce attorno a disumanizzare la persona. E la ricerca della persona, quell’essenza bizzarra e magnifica, deve passare da una quotidianità in cui ciascuno può dare il proprio contributo positivo, vivace e sano”. Ed ecco come viene descritta una festività condivisa in maniera pacifica e costruttiva: “il venticinque dicembre non è Natale, a casa di Yasmina. Né addobbi, né albero, né pargoletto e  mangiatoia: un giorno come qualsiasi altro, per un musulmano, seppur di Sicilia. Eppure, a ben guardare, non è proprio così. S’intravede, infatti, uno sbiadito alone di festività: in una credenza socchiusa, un panettone farcito. È un regalo. E sbuca quasi fiero, come se sapesse di poter accomunare mondi con leggerezza: la levità di un piacere, di un sapore. Dunque, è la mattina di un quasi Natale. Sono le undici: appena in tempo per una tarda colazione. Sul tavolo due piattini e due tazzine. E di là, in cucina, gorgheggia la caffettiera. Nessun buon risveglio è tale, infatti, senza un qahwa, un caffè, che sia zuccherato o amaro non importa, ma mai senza una parola di apprezzamento o di preoccupazione, di sollievo o nervosismo: le solite chiacchiere insomma, a dolcificare il cosmopolita infuso. E sono insolite oggi, mangiucchiando farina nera e dattero, tra leggenda e memoria”. Così il dialogo è sinonimo di incontro e quest’ultimo, a sua volta, è catalizzatore di sintonie e strumento di pace.