Rapporto Immigrazione: l’intervento di mons. Di Tora

Roma – Pubblichiamo la traccia dell’intervento di Mons. Guerino di Tora, Presidente della Commissione Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes,  alla presentazione della XXVI edizione del Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes presentato questa mattina a Roma:
 
Solo pochi giorni fa sono stato, insieme al card. Montenegro, a un convegno internazionale ad Agrigento dal titolo “La sfida migratoria. Politiche e modelli di accoglienza a confronto”.
Anche oggi in questo tempo insieme è emerso che ci troviamo davanti a un tempo straordinario, un tempo di sfida di fronte alla quale dobbiamo reagire e agire, come Chiesa certamente, ma prima come singole persone, cittadini, capaci di pensare e pensarsi parti di un progetto comune, di una casa comune, di una nazione in difficoltà da tempo.
 
Lo ha detto lo stesso Santo Padre al Presidente Mattarella qualche giorno fa: viviamo un tempo nel quale l’Italia e l’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi di varia natura, quali il terrorismo internazionale, la recessione economica, la crisi occupazionale e, non da ultimo, il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai gravi e persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo.
Un momento storico complesso, che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro non favorendo la nascita di nuove famiglie e di figli.
 
Demograficamente, e lo abbiamo sentito, la situazione italiana è seriamente preoccupante: sempre più anziani, sempre più morti, sempre meno nascite, sempre meno giovani, sempre più partenze, sempre meno ritorni … un paese “destinato a morire”, lo leggiamo ormai quotidianamente sui giornali o lo ascoltiamo in televisione.
Eppure gli studi, e questo nostro Rapporto Immigrazione di oggi in particolare, ci restituiscono gli elementi dai quali ripartire.
 
Quali sono questi elementi?
In un momento storico in cui il fenomeno migratorio deve essere definito epocale, esso ha il volto del giovane.
I migranti sono giovani e se i giovani sono i più colpiti da questo tempo essi, loro malgrado, ne continuano ad essere i protagonisti indiscussi.
Gli immigrati che risiedono stabilmente sul nostro territorio hanno scelto di restare in Italia. Sono giovani prevalentemente che vogliono impegnarsi a ri-costruire la casa comune, a partecipare alla costruzione del bene comune.
Lo sentiamo e lo vediamo attraverso le richieste di modificare la legge sulla cittadinanza, da tanto troppo tempo ferma, e poi il sollecitare di essere sempre più presenti negli spazi di decisione pubblica, nazionale e locale.
E dai territori ricevono risposte più o meno positive, più o meno accoglienza, più o meno aperture alla partecipazione e alla piena e incondizionata condivisione.
Mi fermo un momento su quanto sta capitando a proposito dello Ius Soli. Qui non si tratta di aprire a realtà nuove, ma di riconoscere una situazione che già esiste.
Si tratta di riconoscere la cittadinanza a coloro che di fatto sono già italiani: figli di genitori da tempo in regola nel nostro Paese o giovani che studiano qui e, anche se non nati in Italia, sono integrati.
 
 
L’Italia sta rispondendo bene a livello nazionale e internazionale. Ne è prova l’accoglienza e il primo soccorso di chi sbarca o è vicino alle coste italiane. Ne è prova l’impegno della capillare rete diocesana, ma certamente si potrebbe e si deve fare di più senza dimenticare chi sul territorio italiano ha scelto di restare da tempo, chi ha fatto nascere i propri figli, chi produce ricchezza economica attraverso il suo lavoro, ma dobbiamo andare oltre e pensare alla ricchezza immateriale, quella linguistica e culturale che da sempre rendono l’Italia crogiuolo di diversità, riferimento di raffinatezza, humus intellettuale estremamente fertile.
 
Spesso questa produzione non direttamente visibile, ma per la quale occorre particolare riflessione, viene dimenticata sia negli studi sia nelle riflessioni che seguono gli studi.
Purtroppo oggi si parla di popoli, non più di persone; di numeri, non di individui. E così l’essere umano, creato ad immagine di Dio, passa in secondo piano.
Dobbiamo impegnarci, ciascuno di noi presenti qui oggi, nel proprio campo di lavoro e di impegno, a non mettere in secondo piano l’individuo, a dare un volto a colui di chi parliamo.
E se lo scorso anno attraverso il Rapporto Immigrazione la riflessione comune di Caritas se Migrantes sollecitava a riconoscere gli incontri che normalmente avvengono nel nostro presente per poi farli diventare la normalità del vivere quotidiano, la cultura caratterizzante dei nostri territori, lo stile dell’Italia, una sorta di italian style, quest’anno la nostra proposta è quella di mettere al centro del nostro pensiero e della nostra azione il giovane, in tutte le sue “esistenze” e “declinazioni”, di cittadinanza non italiana per lo specifico studio qui oggi presentato, ma non di certo escludendo i giovani italiani.
 
Le nuove generazioni appunto, che comprendono un mondo variegato. Li abbiamo visti a scuola, nelle università, nelle culle, sui posti di lavoro, nelle chiese, ma anche nelle moschee e nei templi più diversi; li leggiamo descritti nelle mansioni occupazionali più diverse, oppure completamente sfiduciati nel fare (la generazione dei NEET): li troviamo descritti come richiedenti asilo o rifugiati, bambini soli, non accompagnati, volontari del Servizio Civile, vicini di casa.
 
Un mondo così complesso e diverso che io stesso ne sono rimasto affascinato. Mi rallegra pensare a quanto lo stesso mondo del volontariato sia arricchito dalla presenza di giovani di nazionalità non italiana, quel volontariato che tanto dà gratuitamente, sostituendosi in molti aspetti a uno Stato che arranca faticosamente.
Ma sarebbe ingrato non sottolineare l’impegno delle istituzioni e di quanti – cittadini di nazionalità italiana o no, – si adoperano, mediante solerte generosità e facendo appello alle loro risorse spirituali, per trasformare le sfide incontrate in occasioni di crescita e in nuove opportunità.
 
Migrano i giovani, italiani e di ogni nazionalità, e continueranno a farlo, spinti dalla sete di futuro, dal desiderio di sentirsi vivi. Lo raccontano nelle nostre ricerche sulla immigrazione e sull’emigrazione. Lo raccontano nei nostri incontri. Lo testimoniano nei nostri progetti diocesani. Migrano con maggiori conoscenze e capacità, spinti dalla difficoltà di accedere a un lavoro stabile e dignitoso, in un tempo in cui tutto si muove con maggiore facilità, ma spetta a noi raccogliere anche la naturale nostalgia umana che il migrante avverte lontano da “casa” accompagnandolo nella scelta, ponderata ed entusiasta, non per forza di cose limitata al nostro paese, di un nuovo luogo in cui sentirsi non accolto, ma nuovamente “a casa”.