Migrazioni: tra realismo, accoglienza e integrazione

Roma – «Mentre i media bi-polarizzano l’argomento, contrapponendo i sostenitori e gli avversari dell’accoglienza, gli studiosi ci dicono due dati che non possono essere ignorati». Padre Francesco Occhetta, gesuita e scrittore, introduce così il tema della tavola rotonda, “Immigrati e rifugiati tra storie di vita, integrazione e una nuova geopolitica”, tenutasi a Roma nei giorni scorsi e organizzata da La Civiltà Cattolica insieme al Centro Astalli in occasione dell’uscita del volume collettivo, curato da padre Giancarlo Pani, “Sulle onde delle migrazioni. Dalla paura all’incontro” (Ancora edizioni).

«Il primo di questi dati – continua il religioso – è che chi lascia la propria terra è in fuga, il secondo è la crisi demografica che sta vivendo l’Europa mentre intorno ad essa cresce il numero di giovani “in ebollizione”». Il punto allora sembra essere un altro. «La domanda delle domande è: Con quali politiche, anche umani e solidali, riusciremo a gestire l’ineliminabile fenomeno migratorio?». Sullo sfondo resta poi «una domanda morale che ciascuno deve farsi: Chi è l’altro per me?».

Padre Michael Czerny, sotto segretario della sezione Migranti e rifugiati del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano – il nuovo ente voluto da Papa Francesco  – nel tentare una risposta fa una premessa: «Occorre riconoscere che è impossibile parlare dello sviluppo di alcuni senza parlare dello sviluppo degli altri e in questo la Chiesa è chiamata a dare testimonianza e ad offrire un’azione efficace per il bene non solo dei rifugiati ma di tutti i popoli, perché tutti siamo coinvolti».

È dunque il realismo a muovere Francesco, consapevole dell’esistenza di problemi concreti, pratici si direbbe, nella gestione dell’accoglienza pur essendo, l’accoglienza, «un assoluto». «Cosa penso dei Paesi che chiudono le frontiere? Credo che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato – spiegava solo pochi mesi fa il Pontefice rientrando dalla Svezia -, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga».

Czerny chiarisce allora che esistono diverse modalità attraverso le quali si possono aiutare sia i migranti che gli stessi Paesi che si trovano in difficoltà davanti al fenomeno migratorio. Innanzitutto la Chiesa può fare molto nei Paesi d’origine di queste persone, aiutandole a comprendere i pro e i contro legati alla scelta di lasciare la propria terra. Tantissimo, poi, si può fare – proprio come fa il Centro Astalli, il Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia – nei Paesi di transizione, cioè quei Paesi che solo momentaneamente ospitano migranti destinati a raggiungere altre mete.

In ultimo, si può incidere nei Paesi d’arrivo ad esempio formando le coscienze dei cittadini, troppo spesso spaventati dall’idea di essere «invasi» dagli stranieri. A fare il punto sulla dimensione del fenomeno migratorio, in Italia e in Europa, è Sandra Sarti, vice capo di gabinetto del ministero dell’Interno, con incarico di coordinamento delle attività inerenti gli Affari internazionali. In particolare, viene ricordato il dramma dei minori non accompagnati. Al 31 dicembre 2016, stando ai dati del Viminale, i piccoli, senza genitori al seguito, erano 25.846, il doppio dell’anno precedente. Un numero purtroppo destinato ad aumentare anche perché la crescita demografica degli Stati da cui essi partono sembra essere inarrestabile.

«Schiavi invisibili – li definisce Pani -, che incappano nelle maglie del lavoro nero, pagati spesso con la moneta dei Paesi di provenienza, coinvolti nel giro della prostituzione, della malavita e spesso anche nei traffici di organi». Pani sottolinea infine il vantaggio delle migrazioni anche per i Paesi d’arrivo, citando John Kenneth Galbraith: «Le migrazioni – dice l’economista canadese – sono la più antica azione di contrasto alla povertà. Selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi e sono utili per il paese che li riceve. Aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel paese di origine».

P. Ripamonti, direttore del Centro Astalli conclude invece con un principio che va tenuto a monte di qualunque altra considerazione opportunistica. «Non dobbiamo accogliere i migranti solo perché sono utili a noi – dice – ma perché sono persone, i cui diritti noi stiamo trasformando in privilegi di pochi. Dunque bene una narrazione positiva dell’immigrazione però attenzione a non condizionare l’accoglienza all’utilità per noi. Si tratta prima di tutto di un dovere di umanità». (Mariaelena Finessi – Roma Sette)