Migrazioni all’ombra della Madonna di Porto Salvo: storia di Koffi e dei migranti di ogni tempo

Palermo – C’è un filo celeste che lega Lampedusa e Palermo. E’ quello della Madonna di Porto Salvo. La Vergine Maria è la protettrice della più grande delle isole Pelagie. A lei, “stella del mare” per marinai e naviganti, è dedicato il santuario che sorge nel Vallone della Madonna. Anche la città di Palermo ha dedicato un tempio sacro a Maria di Porto Salvo. Si tratta di una chiesa, non particolarmente nota, che costeggia il tratto di corso Vittorio Emanuele che guarda piazza Marina. È bella, questa chiesa. Sottomessa rispetto al livello della strada, per visitarla bisogna scendere alcuni gradini. Entrarci, allora, è come immergersi in mare puro e cristallino, bussare al suo grembo, per toccarne le viscere. Anche questa chiesa, come quella di Lampedusa, racconta la storia di un miracolo salvifico. La tradizione racconta che, nel 1524, le triremi siciliane di Carlo V, tornando vittoriose dall’Africa, furono sorprese da una terribile tempesta, inducendo i marinai a implorare l’aiuto della Vergine Maria. La Madonna, allora, apparve sulla vela della nave ammiraglia, conducendo in salvo le imbarcazioni. Il comandante, grato per la grazia ricevuta, donò il vessillo dell’imbarcazione e fece dipingere l’immagine nel porto, come l’aveva vista. Da lì la costruzione della chiesa, dedicata a Santa Maria di Porto Salvo. Non si tratta di una storia lontana. Ancora oggi il porto del capoluogo siciliano vede arrivare centinaia di naufraghi, soccorsi dalle navi italiane impegnate nell’operazione Mare Nostrum. L’ultimo approdo, di 330 profughi, risale ad appena una settimana fa. Nelle moltitudini che si spostano da un confine all’altro ci sono fuggiaschi per guerra ma anche per fame. Si chiamano migranti economici. Lo siamo stati anche noi, quando, ancora da questo porto, salpavano i bastimenti diretti verso le Americhe. Prima di raggiungere il sospirato approdo, tanti emigranti morivano nelle terze classi infestate da epidemie di ogni genere. Sono le stesse scene che vediamo oggi. Un filo rosso lega i pellegrini di ogni tempo. Il pensiero non può che correre alle 45 persone che, all’inizio del mese, hanno trovato la morte per asfissia a bordo di un peschereccio arrivato a Pozzallo. Al Cassaro, in questa chiesa che volge le spalle al mare, incontriamo Koffi. Abita in città ormai da 15 anni, ma è in Togo, la sua patria, che ha lasciato il cuore. «Anche se avessi la cittadinanza italiana, sarei sempre togolese», dice sorridendo. Koffi fa parte di quell’ampia schiera di persone che hanno lasciato la propria terra in cerca di condizioni di vita più dignitose, che aspirano a dare un futuro più decente ai propri figli. «In Togo – spiega – c’è la dittatura, che reprime anche la libertà di parola, ma non c’è nessuna guerra, come invece accade nei paesi da cui scappano tante persone che arrivano in Italia». Nel suo paese ha lasciato una moglie e due figli, uno di 18 anni ed una ragazza di 14 anni, che non vede da quattro anni. «Mio figlio – racconta – vorrebbe continuare gli studi, andare all’università e diventare avvocato, in modo da aiutare gli altri. Mi piacerebbe farlo venire in Italia per studiare, ma servono tanti soldi, che io non ho». La crisi economica morde particolarmente chi, anche prima della sua esplosione, faceva fatica a tirare avanti, quanti occupano i gradini più bassi della scala sociale. Koffi ha perso il lavoro più di tre anni fa e da allora non ha più trovato un’occupazione stabile, riuscendo a racimolare solo qualche lavoro saltuario, come giardiniere o come manovale. Una storia comune, purtroppo, a quella di tanti altri lavoratori stranieri. Il nostro amico si professa cattolico praticante, ma non riesce a capire le ingiustizie che vede attorno a sé, l’egoismo di tanti: «L’unico nostro debito è amare il nostro prossimo – ricorda –. Lo sappiamo, eppure vediamo gli altri soffrire e non facciamo niente, ci voltiamo dall’altra parte». Koffi affida le sue preoccupazioni, le normali ansie per il futuro, alla madre di Cristo. Maria sarà porto salvo anche per lui. (Luca Insalaco)