Caporalato, un fenomeno che ha origine antiche, ma è ancora attuale

Cosenza – Il caporalato è una delle forme più odiose di sfruttamento della persona. Negli anni cinquanta e sessanta, si indicava col termine caporalato quella forma di utilizzazione dei lavoratori che avviene per via indiretta, senza l’instaurazione di un rapporto di lavoro tra il lavoratore e colui che beneficia delle sue prestazioni, ma attraverso l’interposizione di un soggetto terzo, il “caporale”, che si limita a reclutare la manodopera e a inviarla al soggetto utilizzatore delle prestazioni di lavoro, non senza avere prima trattenuto una parte del compenso da corrispondere al lavoratore. La diffusione in Italia del fenomeno – soprattutto nel settore agricolo – fu messa in evidenza da un’indagine parlamentare commissionata alla fine degli anni ’50 alla Commissione Rubinacci, la quale diede luogo nel 1959 a una celebre relazione che fu d’impulso all’introduzione della legge n. 1369 del 1960, che ha sancito il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro. Da allora la materia dell’interposizione nelle prestazioni di lavoro è stata progressivamente oggetto di modifiche legislative, volte ad adattare questa legislazione alle nuove esigenze dell’economia dei servizi. I fatti di cronaca mostrano che il fenomeno è quanto mai presente nell’ambito del mercato del lavoro italiano, e trova terreno fertile soprattutto in alcuni settori – agricoltura ed edilizia -, in alcuni ambiti territoriali – le regioni meridionali -, e con riferimento ad alcuni gruppi di lavoratori – in prevalenza lavoratori immigrati, non di rado clandestini. Il lavoro irregolare (o sommerso) è uno dei tratti caratterizzanti di questo “nuovo” caporalato. Non di rado il caporale “arruola” lavoratori immigrati senza alcuna forma di contratto regolare, e al di fuori di ogni regola soprattutto per quel che riguarda le disposizioni poste a tutela della salute e sicurezza del lavoratore. Da ciò deriva, peraltro, l’inafferrabilità del fenomeno per mezzo delle tradizionali tecniche del diritto del lavoro, che per reprimere le forme di interposizione nel rapporto di lavoro fanno leva, comunque, sulla verifica delle caratteristiche di imprenditorialità del presunto appaltatore, e presuppongono, perciò, un minimo di formalizzazione contrattuale della vicenda.

 
In Calabria, anche dopo il clamore dei fatti di Rosarno di due anni fa, il fenomeno continua con grande diffusione ad affliggere un’altra vasta zona della regione, quella della piana della Sibaritide che si estende per ben centottanta chilometri quadrati. Qui un esercito di uomini e donne vive in alloggi di fortuna, dalle pareti di cartone. O nei casolari abbandonati che si intravedono lungo la nota statale 106. Alcuni arrivano dal Marocco, dall’Algeria, dal Senegal, dall’ Egitto e dalla Tunisia. Altri dai paesi dell’Est o dall’Africa subsahariana. Alcuni arrivano da regolari, attraverso la chiamata delle cooperative agricole, molto spesso come lavoratori stagionali. Allo scadere del permesso di soggiorno, però, non tornano nel loro paese d’origine, fermandosi nella regione, e andando ad ingrossare le file dei lavoratori irregolari. Oppure approdano in questi luoghi, giunti dall’opulento nord Italia, spinti dalla chiusura delle fabbriche ad offrire manodopera a buon mercato come braccianti agricoli. Spesso pagano affitti che si aggirano intorno alle due-trecento euro al mese per vivere ammassati gli uni sugli altri, in quelle che un tempo erano stalle o gallinai. A pochi metri dalle abitazioni di chi specula sulla loro disperazione. In questo territorio la produzione agricola è elevatissima, ma il numero di lavoratori ufficialmente addetto a questo settore risulta troppo basso per garantire queste cifre. La piana di Sibari è una piana molto più grande di quella di Gioia Tauro, che è stata teatro degli scontri di Rosarno, e le situazioni emergenziali non mancano. Sono semplicemente più diluite nel territorio e quindi meno facili da percepire nell”immediato. Questo, però, non le elimina, ma anzi le aggrava. Migranti, adoperati per lo più nel lavoro agricolo, che percepiscono una paga che oscilla tra le 20 e le 25 euro, per una giornata lavorativa che può protrarsi fino a dodici ore. E anche in questi casi è il caporale che gestisce la loro manodopera. (E.G.)