Prato – Nel vecchio magazzino riadattato di via Donizetti, in piena Chinatown pratese, la provincia francescana ha aperto 5 anni fa la fraternità dedicata a Maria Madre dell’Incontro. Dalle pareti si sente il rumore delle macchine per la confezionatura accese 20 ore al giorno nel laboratorio accanto. Nell’angolo del salone dove fra’ Simone Frosali tiene, con due confratelli. il doposcuola e le lezioni d’italiano a una ventina di ragazzi cinesi, è appoggiata una croce di legno: in cima porta il volto di Gesù e una scritta con gli ideogrammi. La portano per il quartiere quando pregano e alla Via Crucis delle Palme con il vescovo Gastone Simoni. Chiedo di tradurmi la scritta. «Gesù è la nostra speranza», spiega il frate 40enne che, prima di approdare al quartiere San Paolo – nelle viuzze che si snodano da via Pistoiese, dove i negozi hanno le insegne in cinese e quasi ogni casa ospita una piccola fabbrica dormitorio – ha trascorso alcuni anni nel campo rom di Settimo Fiorentino. La comunità cinese di Prato è la terza in Europa dopo Londra e Parigi. Ufficialmente 20mila persone tra residenti, regolari senza residenza e irregolari, con molta probabilità anche il doppio nei picchi di produzione. Oscilla dal 10 al 40% della popolazione. Prato è la capitale italiana dell’industria tessile e i primi migranti cinesi che approdarono qui vent’anni fa si inserirono in un quartiere che negli anni 80 aveva già accolto i migranti meridionali di ritorno dall’estero. E scoprirono che lo stile di vita del piccolo produttore pratese – casa a due piani, al pianterreno laboratorio di produzione al primo l’abitazione – calzava alla perfezione con la loro cultura. «Che prevede – spiega il frate – turni di lavoro massacranti per massimizzare i guadagni. Pochi progettano di restare, molti di loro non imparano neppure i vocaboli di sopravvivenza della nostra lingua ». Ed è difficile che i rapporti siano ispirati alla solidarietà e alla gratuità. La traduzione dall’italiano di un documento per il permesso come l’accompagnamento da un dottore viene pagato agli intermediari. Che i volontari cattolici lo facciano gratis, sconvolge atei e buddisti.
La carità diventa così strumento per aprire varchi in una barriera linguistica e culturale che conduce all’emarginazione. Ogni pomeriggio da fra Simone arrivano i ragazzi delle medie, i più fragili, e fanno doposcuola con coetanei e volontari italiani. Sono l’unica alternativa alla solitudine, le lezioni. «Spesso arrivano in Italia quando l’anno scolastico è iniziato. Sono nati qui, ma a due anni i genitori li riportano in Cina per farli crescere dai parenti. Poi tornano da adolescenti, ma non conoscono la lingua, vivono situazioni difficili in classe, vengono esclusi e quindi tendono a stare in gruppi di connazionali. Perdono anni scolastici e restano ai margini. Molti non riescono a prendere la licenza media. Le scuole collaborano molto con noi». A casa la vita non è semplice, hanno sulle spalle lavori domestici e la cucina. E i genitori? «Sanno che sono qui, li lasciano venire, si fidano di noi, ma non hanno tempo per approfondire. Del resto lavorano a volte anche 20 ore al giorno. Noi organizziamo delle gite con i ragazzi del doposcuola, li portiamo al mare che vedono magari per la prima volta o in città d’arte anche per attirare altri ragazzi della comunità cinese». Vivere e lavorare nello stesso posto tutto il giorno per anni sembra il destino dei ‘G2’, le seconde generazioni di Prato, almeno i più poveri, figli di operai. Che grazie ai francescani di San Paolo trovano una porta aperta sulla via stretta dell’integrazione. (P.Lambruschi – Avvenire)