Presentato questa mattina il Rapporto della Fondazione Migrantes
Roma – L’unificazione dell’Italia vide lievitare i flussi in partenza verso l’estero. Infatti, aumentavano le bocche da sfamare ma facevano difetto i mezzi per farvi fronte e, anzi, nel Mezzoggiorno il mancato ricorso a una strategia politica flessibile contribuì a peggiorare la situazione proprio mentre dall’emigrazione di élite preunitaria si stava passando a quella di massa. I primi italiani, arrivati negli Stati Uniti d’America nel corso del Risorgimento, erano aristocratici o borghesi accompagnati da un’immagine quanto mai positiva: ad esempio, Filippo Mazzei fu di ispirazione a Jefferson nella redazione della costituzione americana e Giuseppe Garibaldi fu invitato da Lincoln ad arruolarsi come ufficiale nelle truppe unioniste. Ma i flussi popolari non godettero di questa considerazione. Le regioni del Nord furono le prime protagoniste dell’esodo e ad esse si affiancarono, ben presto, quelle del Meridione. L’attesa di vita era di 30-32 anni al momento dell’Unità e di 40-41 anni all’inizio del Novecento. Si partiva verso l’ignoto, ma con il cuore legato profondamente all’Italia, come espresse successivamente Ungaretti nella poesia Girovago: “In nessuna/parte/di terra/mi posso accasare”. Dal Trentino, che ancora faceva parte dell’impero austroungarico, si abbandonavano le valli, dove i piccoli appezzamenti di terreno a stento assicuravano la sussistenza e gli alberi di gelso alimentavano anche una piccola industria serica di complemento. Gli sbocchi verso la Lombardia e il Veneto erano diventati più difficili dopo il loro passaggio al Regno Sardo (1859 e 1860). Il crack della borsa di Vienna degli anni ’70 determinò il crollo dei prezzi e il calo occupazionale anche nei territori periferici dell’impero. L’inasprimento delle imposte fece sì che molti agricoltori perdessero i loro fondi. Si aggiunse anche la malattia dei gelsi, che mise in ginocchio la piccola industria serica. Infine, lo straripamento dell’Adige nel 1882 e nel 1885 distrusse i prodotti agricoli e danneggiò i campi, mentre all’inizio del Novecento si aggiunse anche la filossera. Intere famiglie, con bambini e anziani, furono così costrette a emigrare e non pochi villaggi si spopolarono. Le mete furono il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay e anche la Bosnia, dove 150 famiglie di Aldeno (Trento) nel 1853 realizzarono un vero e proprio villaggio trentino. Da quest’ultimo, nel secondo dopoguerra, un gruppo, dopo aver riacquistato la cittadinanza italiana, si è trasferito nell’Agro pontino, mantenendo i legami con la comunità bosniaca. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento anche una piccola area come la Basilicata divenne una grande protagonista dell’esodo. Questa regione fu seconda, dopo il Veneto, per l’apporto dato ai flussi migratori, con 10 mila espatri in media l’anno fino al 1913 e, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, con 7 mila espatri fino agli anni ’70. “Golondrinas” (in friulano) o “rondini” erano gli agricoltori che andavano per 1 o 2 anni a lavorare non solo in altri paesi europei, ma anche in quelli dell’America del Sud, per poi ritornare con i loro risparmi. Il vescovo di Cremona, mons. Geremia Bonomelli, che si interessò all’assistenza degli emigrati italiani in Europa, fu molto apprezzato anche al di fuori dell’Italia per i suoi interventi sul fenomeno della mobilità. In una sua lettera pastorale (Quaresima 1896) recante il titolo L’emigrazione, lamentava l’indifferenza di fronte a una moltitudine di emigrati (da 200 mila fino anche a 500 mila all’anno), che partivano ogni anno «serrati nei vagoni come merci, malamente vestiti e colle tracce profonde del dolore e delle privazioni». La burocrazia era un peso anche allora e il vescovo sottolineava che i poveri contadini emigranti «non sapevano esprimersi, ed erano rimandati da un ufficio all’altro e
talvolta poco garbatamente». Per questo era necessario integrare il discorso dei doveri con quello dei diritti. Ma, pur riconoscendo il diritto di emigrare, era forte la sua preoccupazione per l’incredulità, lo scetticismo e l’immoralità riscontrata in chi, ritornato, si mostrava pieno di ira contro la società e ogni autorità, senza voler più «né padroni, né Dio».
I porti d’imbarco nel periodo della grande emigrazione
Le compagnie di navigazione patteggiavano i noli con gli Stati che prevedevano sovvenzioni per i viaggi dei migranti e, anche in assenza di questa copertura, gli agenti e i subagenti di emigrazione (ben 7 mila nel 1895) battevano tutto il territorio per reclamizzare la possibilità di emigrare
e trovare i clienti che pagassero il biglietto per proprio conto. Questo lucroso commercio non mancò di attirare l’attenzione anche delle compagnie straniere. La propaganda sortiva successo anche là dove, come nell’impero asburgico, sussisteva l’interesse a trattenere sul posto la manodopera.
Alla fine del secolo, il passaggio in nave arrivò a costare 100 giornate lavorative e spesso erano gli stessi agenti a prestare i soldi del viaggio a tassi esosi, così come avviene nelle migrazioni attuali. I subagenti accompagnavano gli emigrati fino alle navi, ricevendo una maggiorazione per questa loro disponibilità. Se la destinazione era un paese agricolo, i migranti venivano accreditati come agricoltori, mestiere che, peraltro, non era possibile improvvisare, come si accorgevano i fazenderos oltreoceano una volta che la manodopera giungeva da loro per lavorare.
Il periodo di attesa dell’imbarco, durante il quale gli emigranti dovevano mangiare, dormire e nutrirsi, costituiva un lucroso affare per le città portuali, gremite di sfruttatori di vario genere. Il porto di Genova fu protagonista nel 61% dei casi di emigrazioni transoceaniche, costituendo lo sbocco naturale per le regioni settentrionali: inizialmente partivano 5 mila passeggeri all’anno, che poi arrivarono a quota 100 mila (la punta massima si ebbe, nel 1913, con 130 mila imbarcati). Il porto di Genova stentò a sostenere un flusso così consistente, anche perché solo con ritardo vennero realizzati un molo per gli emigranti e un “albergo del migrante”. In queste concitate fasi di imbarco era ricorrente la perdita dei bagagli e capitava anche che si sbagliasse nave e si arrivasse in un paese diverso da quello prescelto. Solo tardivamente il legislatore cercò di mettere un po’ di ordine. La legge 23/1901 previde ispezioni nei porti e la presenza di commissari e di medici a bordo, ma l’effettività che ne conseguì restò molto al di sotto delle previsioni formali.
Dalla vela al vapore
Se l’attesa nei porti era problematica, ancora più difficili erano le condizioni di viaggio in stive maleodoranti e pagliericci putrefatti, aspetti sui quali aveva taciuto la propaganda degli agenti e dei subagenti, caratterizzata da toni entusiastici: navi bellissime, mare calmo, pulizia degli ambienti, gente contenta e, in prospettiva, terreni fertili e governi accoglienti e in attesa degli emigranti. In realtà le condizioni di viaggio erano ben diverse. Durante il passaggio, i viveri e l’acqua potabile erano razionati e per la pulizia personale si doveva ricorrere all’acqua del mare. Nelle navi la gente veniva stipata all’inverosimile e la capienza veniva usualmente raddoppiata. Molti morivano durante la traversata e altri una volta arrivati sul posto, a causa degli stenti.
Nelle navi si trovavano bambini senza genitori o con genitori di comodo; questi ultimi si accreditavano come tali solo per la durata della traversata, abbandonando poi i minori a un triste destino. Il New York Times già ai tempi della grande emigrazione (1873) parlava di una presenza in quelle città di 80 mila fanciulli d’ambo i sessi, qualificandoli come «girovaghi da cui escono delinquenti e prostitute», quelli che oggi vengono chiamati “minori non accompagnati”.
Per il trasporto dei passeggeri si ricorse all’inizio alle stesse imbarcazioni di natura commerciale usate per l’importazione del grano, del cuoio, della carne e di altre merci; solo che, anziché farle partire cariche di pietre come zavorra, questa venne sostituita dagli emigrati, sistemati nelle stive ripulite alla meno peggio. Si utilizzarono piccoli velieri, che avevano bisogno dai 45 ai 70 giorni per la traversata transoceanica, non di rado in preda a tempeste, ma la propaganda portava a ridurre i tempi necessari. Il più grande veliero italiano, il Cosmos, partito da Genova nel 1865 per Montevideo, trasportò 600 migranti e, dopo averli sbarcati, nelle stesse stive fece il carico del letame locale (guano). All’inizio il trasporto degli emigranti non venne considerato un business dai grandi armatori. Lo diventò solo dopo che i governi argentino e brasiliano sponsorizzarono il
reclutamento di lavoratori, favorendo così, seppure tardivamente, il passaggio dalla navigazione a vela a quella a vapore, che riduceva a un terzo il tempo necessario per la traversata. Tuttavia, anche successivamente alla prima guerra mondiale e alla costruzione di transatlantici di lusso, per il trasporto degli emigrati continuarono a essere utilizzati i vecchi piroscafi (come il Sirio), essendo gli armatori interessati a sfruttare al massimo quelle che oggi si chiamerebbero “carrette del mare”.
La rappresentazione nelle poesie, nelle canzoni e nei film
Già all’inizio del XII secolo Ibn Hamdis, un poeta arabosiciliano di Noto (Siracusa), scriveva: “Sospiro di nostalgia per la mia terra,/nella cui polvere si sono consunte le membra/ e le ossa dei miei”. La poesia, da De Amicis a Pasolini, ha presentato la migrazione come fenomeno collettivo, sociale, storico, e di esso si è interessato anche la canzone italiana, sia popolare che colta, sia commerciale che politica e di protesta.
Le strofe di Santa Lucia ricordano i bastimenti in partenza verso paesi sconosciuti, carichi di persone e di nostalgia. Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar sottolinea i rischi insiti in un avventuroso viaggio dall’esito incerto, e così ricordano anche questi versi: “Cristoforu Culumbu, chi facisti? La mugghi giuventù tu ruvinasti”. Spesso chi partiva lo faceva col pugno alzato, per protesta contro i padroni: “Viva l’America! Morte ai signori”.
Ma neppure all’estero si trovava la giustizia sociale e quel clima di libertà auspicato nei sogni dei poveri contadini, senza dimenticare che essi, spinti da una dura necessità, furono spesso dei crumiri e, quindi, di ostacolo sul posto alla lotta operaia. Ma pagarono sempre di persona, come ricorda il filone della canzone legato alla cronaca. Si pensi, ad esempio, all’affondamento dei piroscafi (la Veloce nel 1887, la Sirio nel 1906 e, ancora 20 anni dopo, nel 1927, la Principessa Mafalda) o alle disgrazie avvenute nelle miniere, quali Monongah negli Stati Uniti il 6 dicembre 1907 e Marcinelle in Belgio l’8 agosto 1956. Solo dopo quest’ulti- ma tragedia, i belgi cominciarono a non chiamare più gli italiani, spregiativamente, “macaroni”.
Nel cinema americano l’italiano comune immigrato venne inquadrato secondo uno stereotipo ambivalente, di miseria e nobiltà: in base ai pregiudizi più ricorrenti, era considerato troppo cattolico, eccessivamente emotivo, con troppi figli e predisposto alla criminalità. Dell’italiano come latin lover fu l’emblema cinematografico Rodolfo Valentino, pugliese di Castellaneta (Taranto) dal bel profilo mediterraneo, di buona famiglia e versatile nel ballo, un vero dominatore dello star system americano; nel 1923 Mussolini non riuscì a trovare il tempo per incontrarlo e poi il regime lo considerò con avversità perché aveva ottenuto la cittadinanza americana.
Nei film americani l’italiano è stato associato spesso al criminale o al pugile: ne sono esempio, rispettivamente, la saga de Il padrino negli anni ’70, di Francis Ford Coppola, e i film di Robert De Niro e Sylvester Stallone; tuttavia non è mancata la figura dell’italiano poliziotto, che ha trovato un esempio di eccellenza nelle varie riproposizioni della figura di Joe Petrosino.
Il fascismo capì l’importanza sociale del cinema per la sua propaganda e inquadrò l’emigrato come portatore di civiltà e in grado di difendere il buon nome dell’Italia. Il neorealismo dell’ultimo dopoguerra si è, invece, soffermato con maggiore concretezza su questa enorme epopea e sui suoi risvolti umani: ne sono un esempio il Cammino della speranza di Germi (1949) e, a più di 20 anni di distanza, Bello onesto immigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) di Luigi Zampa. Per superare gli stereotipi, nei paesi esteri sono stati di grande aiuto gli attori, i registi e gli scrittori che non hanno rinnegato le proprie radici. Paragonabile all’impostazione del neorealismo in Italia è stato negli Usa il film Cristo tra i muratori (1949) di Edward Dmytryk, tratto dal romanzo dell’italo-americano Pietro Di Donato, nel quale si mostrano, con impareggiabile maestria, i duri sacrifici fatti dagli italo-americani per affermarsi (ne è protagonista un muratore abruzzese). Anche Martin Scorsese ha ripreso più di recente i luoghi e i problemi degli italoamericani.
In Canada, è stato il film del regista di origine marchigiana, Paul Tana (Caffè Italia Montreal, 1985), a inserire la vita della locale comunità italiana nella memoria collettiva del paese.
Il dopoguerra e i cambiamenti degli anni ’80 e ’90
Il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale fu quello delle politiche di scambio (emigrati a fronte di materie prime) per decongestionare, in Italia, la massa di senza lavoro e allentare le tensioni sociali e politiche in una fase di difficile ripresa. L’emigrazione fu considerata uno sforzo collettivo per porre rimedio ai mali strutturali e lo stesso De Gasperi, allora Presidente del Consiglio, invitò a imparare una lingua e ad andare all’estero. Inizialmente i flussi in uscita erano annualmente superiori alle 300 mila unità, con un ritmo di crescita simile a quello attuale della collettività straniera in Italia. Dallo zolfo al carbone è il titolo di un film-documentario che racconta l’avventura dei siciliani finiti dalle miniere di zolfo dell’isola in quelle del carbone in Belgio. In questi flussi venne coinvolta l’isola di Lampedusa, i cui abitanti furono costretti all’emigrazione dalla fine del secolo XIX, e la regione Umbria, che tra il 1952 e il 1961 conobbe un saldo migratorio negativo di 57 mila unità, con accentuato spopolamento dei comuni della dorsale appenninica e di alcune zone interne di alta e media montagna.
Anche altrove piccoli comuni inviarono i propri abitanti in tutte le parti del mondo, talvolta privilegiando alcune destinazioni. Ad esempio, il sacerdote della Missione cattolica italiana a Bülach (Svizzera), mons. Antonio Spadacini, soffermandosi sulla sua esperienza all’inizio degli anni ’70, ricorda che tra i suoi parrocchiani il gruppo di Santeramo in Colle (Bari) contava allora da solo circa 300 persone. Un altro esempio è quello di Marina di Camerota, centro turistico in provincia di Salerno costruito con le rimesse delle migliaia di emigrati, dove ancora oggi si parla correntemente lo spagnolo nella versione caraibica e il corso principale del paese reca il nome del venezuelano libertador Simon Bolivar, l’equivalente latinoamericano di Giuseppe Garibaldi. Nel 1931 a Caracas si contavano 161 attività commerciali e industriali italiane, delle quali 56 gestite da immigrati provenienti dal salernitano e, di queste, 45 da persone venute dal comune di Camerota. Qui è molto sentito il culto della Madonna di Coromoto, così come in Venezuela si festeggia san Domenico, patrono di Camerota, perché la devozione ha superato i confini, accomunando gli indios e i camerotani. Dopo aver contribuito al benessere italiano conseguito negli anni ’50 e ’60, l’emigrazione si ridimensionò negli anni ’70 (è del 1975 la Prima Conferenza Nazionale dell’Emigrazione) e andò normalizzandosi nelle decadi successive, caratterizzate tra l’altro dai seguenti fattori: l’operatività delle consulte regionali dell’emigrazione nella metà degli anni ’80, diventate il principale riferimento delle collettività, e il potenziamento dell’associazionismo
a carattere regionale;
• la riforma della normativa sulla cittadinanza (legge 91/1992), alla quale si continua a fare ricorso sulla base dell’ascendenza, specialmente in America Latina;
• l’invecchiamento della popolazione emigrata e la creazione di molte case per anziani;
• l’incremento delle piccole e medie imprese all’interno delle collettività italiane, tanto da accreditarle come business communities (nel 1999 in Germania erano ben 65 mila gli italiani che svolgevano lavoro autonomo);
• la diffusione capillare degli istituti di patronato;
• la convocazione della Seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione a Roma dal 28 novembre al 3 dicembre 2000, imperniata sulla richiesta di considerare l’emigrazione una questione nazionale;
• la bocciatura, a più riprese, della proposta di estensione del voto agli italiani all’estero (nel 1993 e nel 1998), la quale ha trovato soddisfazione solo nella decade successiva;
• il maggior coinvolgimento delle donne nei processi migratori, le quali, diventate più numerose degli uomini, hanno assunto un ruolo da protagoniste attive nei processi culturali.
I nuovi flussi della fase attuale
Ai tempi dell’Unità d’Italia le classi popolari erano materialmente povere ma ricche di speranza e perciò era forte la disponibilità a emigrare per trovare altrove i mezzi per la sopravvivenza. Oggi l’Italia è tra i paesi più ricchi del mondo, ma crescono i problemi per mantenere i livelli raggiunti e sono molti quelli desiderosi di andare all’estero per cogliere maggiori opportunità. Secondo il Rapporto Eurispes 2011, i giovani di 15-29 anni, da qualificare come “né/né” (né allo studio, né al lavoro), sono oltre due milioni, un quinto del totale di questa fascia di età. Lo stesso rapporto
attesta che il “sogno estero” affascina ben più persone di quelle che emigrano: il 40,6% tra tutte le fasce d’età e ben il 50,9% tra i più giovani (tra i 25 e i 34 anni) e questa propensione è stata confermata anche da altre indagini. In Italia a mettere in movimento i loro sogni sono migliaia di laureati che ogni anno si spostano all’estero, ponendo fine all’attesa di un improbabile posto adatto alla loro preparazione, spesso neppure cancellandosi dalle anagrafi comunali.
Sono stati 17.754 gli studenti universitari che, nell’anno accademico 2008/2009, si sono recati all’estero inserendosi nel Programma Europeo Erasmus e 1.628 quelli che hanno compiuto un tirocinio presso imprese di altri paesi, su un totale europeo, rispettivamente, di 168.153 e 30.300 studenti. A venire in Italia sotto la copertura di questo programma sono stati, invece, in 15.530. Dal 1987 al 2009 gli studenti europei protagonisti di queste “migrazioni per studio”, spesso funzionali anche alle migrazioni per lavoro, sono stati 2 milioni (l’1% della popolazione universitaria), non scoraggiati dal modesto sussidio comunitario (272 euro al mese), che in pratica finisce per favorire i figli di famiglie benestanti. La Spagna è al primo posto, sia come paese che invia gli studenti che come paese che accoglie, essendo identificata come un luogo di ottima permanenza, motivo per cui, nonostante i suoi problemi, attira anche diversi italoamericani provenienti dal Sud America. In Spagna, secondo fonti locali, gli italiani sono passati da 59.743 nel 2003 a 170.051 nel 2010. A Madrid, inoltre, dal 16 al 21 agosto 2011 è previsto l’arrivo 40 mila italiani per unirsi al mezzo milione di giovani partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù e anche questo grande evento influirà sui flussi migratori.
Nel 2008, secondo l’Ocse, gli universitari che hanno studiato in altri Stati sono stati 3.342.092 tra i quali, per quanto riguarda l’Italia, 42.433 in uscita e 68.273 in entrata: questi ultimi sono quasi il doppio rispetto al 2000, ma ancora pochi rispetto al livello di studenti stranieri che si riscontra negli altri grandi paesi europei. Il Rapporto Migrantes, che spesso ha fatto riferimento alla presenza nel mondo dei missionari italiani (circa 12 mila), per la prima volta ha curato anche la rassegna delle 256 Ong, iscritte all’Associazione italiana delle Ong (www.ongitaliane. org), che operano per la solidarietà internazionale e lo sviluppo: nel 2009 hanno registrato entrate per 1 miliardo di euro e impiegato 27 mila persone, suddivise equamente tra dipendenti e volontari. Nel mondo, per conto di
queste Ong, gli “emigrati nel settore della solidarietà internazionale” sono 200 mila. Di essi gli italiani sono 6.153 (2007), così ripartiti per principali Paesi: 300 in Kenya, Uganda e Brasile; 200 in Mozambico, Etiopia, Sudan e Somalia; tra 150 e 195 in Burundi, Tanzania, Congo e Ciad; 100 in Rwanda, Perù e India; tra 50 e 99 in Bolivia, Argentina, Nicaragua, Ecuador, Guatemala e Sri Lanka. Non vanno neppure dimenticati i lavoratori e gli operatori che si recano in aree depresse come, ad esempio, in Costa d’Avorio: un paese grande esportatore di legnami pregiati dove la collettività italiana consta di solo 355 persone, il quale ricorda il grande problema dello sviluppo e l’importanza dell’Africa nei futuri scenari di mobilità nazionale e internazionale.