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Vangelo Migrante

24 Dicembre 2020 - A Betlemme, l’ingresso della Basilica della Natività è una porta piccola e bassa. Per attraversarla serve curvarsi, e parecchio. È lì da secoli e inchinarsi è l’unico gesto da fare per entrare. Quella porta è parte integrante del mistero contenuto all’interno della Basilica. Non è ‘nonostante’ quella porta ma ‘attraverso’ quella che porta si arriva al luogo in cui Dio ha raggiunto gli uomini in terra. In questi giorni si sente dire in giro: ‘nonostante tutto quello che sta capitando, buon Natale!’ Ci si permetta. No! Il mistero del Natale è in quello che ci sta capitando oggi, è in quello che nella storia accade. A partire dalle situazioni meno abbienti: Dio continua a nascere proprio in quelle situazioni ritenute scomode, impopolari, evitate o addolcite quando proprio non possono essere evitate. Natale è proprio là. Non serve girarci intorno ma è necessario solo chinarsi e accogliere quel mistero … in questa vita, e non in un’altra. La presentazione delle tante beneficenze che ci vengono proposte, mirano più a toccare le emozioni che non quella presenza: se ci viene chiesto di andare verso un povero, un escluso, un esule, una persona nel bisogno non è per stare meglio noi ma perché Dio è nato là. Dio è in quel luogo umano e geografico. I Vangeli delle messe vespertina, della notte, dell’aurora e del giorno ci accompagnano in un particolare aspetto di questo mistero, come una progressiva rivelazione da parte di Dio e di comprensione da parte dell’Uomo: il Verbo che si cala nella storia dell’umanità (vigilia); Gesù accolto nell’intimità della sua famiglia umana (notte); la visione e l’adorazione dei pastori (aurora); “il Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi”. Dio arriva così. L’accoglienza fa la differenza. Se per noi Natale non è questo, meglio cambiare basilica. Buon Natale a tutti.

p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: IV domenica di Avvento (Vangelo Lc 1,26-38)

17 Dicembre 2020 - Dove abita Dio? Dire: ‘in cielo, in terra e dappertutto’, è una risposta alquanto vaga. Nel Vangelo odierno, l’annuncio dell’angelo e il sì di Maria, invece, ci dicono che Dio abita dove lo si lascia entrare. Il resto è girare attorno e fare come Davide (prima lettura) che alla fine di una vita costellata di vantaggi e di successi ottenuti in nome di Dio, si accorse di una grave dimenticanza: Dio non aveva ancora una casa, abitava sotto una tenda. Per rimediare, avrebbe voluto costruirgli un tempio, ma Dio non volle. Non poteva accontentarsi di una casa accanto a quella di Davide. Dio voleva una casa insieme a lui. E Dio stesso la realizzerà: sarà una casa nuova e diversa rispetto a quella progettata dal Re. Sarà una casa nella quale Dio sarà Padre e Davide, e la sua discendenza, saranno figli. Davide è una profezia: parla di noi, del destino di ogni uomo e dell’umanità nel suo insieme. Preoccupati da forme di paura e occupati in fatiche per costruirci una casa, un territorio nostro, anche con dei confini marcati, alla fine ci accorgiamo che Dio è rimasto fuori. Dio è un ‘attendato’, … o un naufrago. A differenza di Davide, Maria si dichiara da subito “la serva del Signore”, totalmente disponibile alla Sua iniziativa. Rassicurata dall’angelo, abbandona i suoi progetti: “avvenga per me secondo la tua parola”. Maria apre la porta del suo cuore a Dio, lo lascia entrare. Offre la sua umile disponibilità alla collaborazione, consapevole della povertà delle proprie risorse, ma certa che Dio le renderà sufficienti per l’opera che deve compiere. Intuisce che il compito è difficile ed esigente, percepisce però di non essere sola, sa di poter trovare gioia facendosi serva e fidandosi della parola del Signore. Maria lascia che si edifichi nel suo grembo il perfetto tempio di Dio. Non una costruzione fatta da mano d’uomo, ma dall’opera del Padre che attraverso l’azione dello Spirito Santo, e la disponibilità di un’umile ragazza d’Israele, realizza l’incarnazione del Verbo, appunto il perfetto tempio di Dio. Tocca agli uomini diventare il tabernacolo di un Dio che si fa uomo. E noi, quell’Uomo, lo lasciamo entrare? Sappiamo accoglierlo? Siamo consapevoli che Dio rende sempre sufficienti le nostre povere risorse, se sappiamo fidarci di Lui? Oppure viviamo ancora nell’illusione e nell’affanno di costruirci una casa, una patria da soli, con recinti e steccati, per dare un senso alla nostra vita? Se non ci liberiamo da questa illusione e da questa presunzione, inevitabilmente la nostra vita sarà affannosa e affannata. E, alla fine, sterile e inutile. p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante ( Vangelo Gv 1, 6-8. 19-28)

10 Dicembre 2020 - In questa domenica irrompe la figura di Giovanni il battezzatore, figlio di un sacerdote. Egli ha lasciato il tempio e il ruolo, è tornato al Giordano e al deserto, là dove tutto ha avuto inizio, e il popolo lo segue alla ricerca di un nuovo inizio, di una identità perduta. Ed è proprio su questo che i sacerdoti e i leviti di Gerusalemme lo interrogano, incalzandolo per ben sei volte: Chi sei? Chi sei? Sei Elia? Sei il profeta? Chi sei? Cosa dici di te stesso? Le risposte di Giovanni sono sapienti e straordinarie allo stesso tempo. Noi, per dire chi siamo e per definirci siamo soliti aggiungere, elencare informazioni, titoli di studio, notizie, realizzazioni. Giovanni il Battista fa esattamente il contrario; si definisce per sottrazione, e per tre volte risponde: io non sono il Cristo, non sono Elia, io non sono... Giovanni lascia cadere, ad una ad una, quelle identità, prestigiose ma fittizie, per ritornare a ciò che arde per davvero nella sua vita. E lo ritrova per sottrazione, per spoliazione: “io sono voce che grida”. Lui è solo voce, la Parola è un Altro. Il suo segreto è oltre se stesso. Lui è uno che ha Dio nella voce, è un figlio di Adamo che ha Dio nel respiro. Lo specifico della sua identità, quello che qualifica la sua persona, è quella parte di divino che sempre compone l’umano. Quel “tu, chi sei?”, oggi è rivolto anche a noi, come domanda decisiva. La risposta consiste nello sfrondare la nostra identità da apparenze e illusioni, da maschere e paure. Nel meno c’è il più. Poco importa quello che abbiamo accumulato, conta quello che abbiamo lasciato cadere per tornare all’essenziale, ad essere un tutt’uno-con-Dio. Una unità che crede in un Dio dal cuore di luce, che crede nel sole che sorge e non nella notte che perdura sul mondo. Crede che una goccia di luce è nascosta nel cuore vivo di tutte le cose. Fare un passo indietro non significa scomparire ma servire perché quella luce raggiunga i cuori e il reale.  (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: II domenica di Avvento (Vangelo Mc 1, 1-8)

3 Dicembre 2020 - Abbiamo bisogno di buone notizie che aprano il cuore alla speranza, in un mondo che sembra capace solo di offrire notizie preoccupanti. In questa domenica sentiremo proclamare nella prima lettura: “sali su un alto monte, alza la voce tu che rechi buone notizie alla gente”; gli farà eco il Vangelo: “inizio della buona notizia di Gesù, Figlio di Dio”. La buona notizia è nella Parola di Dio, il Vangelo stesso è ‘buona notizia’, anche letteralmente. Eppure sembrano annunci che non ci entusiasmano, a volte ci sembrano troppo evanescenti, non scuotono la vita e non riescono a cambiarla. Viene da chiedersi: dov’è la potenza del Signore? dove l’efficacia della sua Parola? Ecco, dinanzi a questo possibile turbamento, c’è da riflettere su quali sono le notizie che attendiamo e quale concretezza cerchiamo. La sicurezza nella vita sociale, il benessere assicurato, la difesa dei propri diritti acquisiti, il successo negli affari, un avanzamento di categoria, l’andamento della borsa? Ma anche, su quali sono le speranze che ci abitano. L’illusione di fortunati arricchimenti o, in forma più nobile, un limite alla litigiosità e alla degenerazione della politica, la fine della corruzione nell’epoca del denaro facile, regole più umane, la fine del razzismo, dell’intolleranza, della violenza, della criminalità? Molte speranze, anche legittime, non sono ‘compito’ diretto di Dio ma dell’uomo, allo stesso modo le attese a misura d’uomo non porteranno mai ad effetto la ‘buona notizia’ di «Gesù, Cristo, Figlio di Dio». Questa domenica si inaugura la lettura del Vangelo di Marco, che ci accompagnerà in tutto l’anno liturgico. Esso ci porrà continuamente l’unica domanda davvero essenziale: Chi è per te Gesù Cristo? Credi davvero che sia il Figlio di Dio? La questione della fede è essenziale, ineludibile, primaria rispetto a tutto il resto. Solo se si riconosce che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, le sue parole, i suoi gesti, la sua vita diventano Vangelo, ‘buona notizia’ che cambia la vita. Se accoglieremo Colui che viene qual è veramente, e cioè Figlio di Dio, comprenderemo che, prima di “mettere a posto le cose”, il nostro è un Dio che viene ad offrirsi all’abbraccio dell’uomo. Quando i fatti si incontrano con quella Parola fatta carne e di quella Parola fanno esperienza, solo allora nasce la novità di Dio nella storia. Solo allora è possibile uscire da una vita dominata da ciò che ci affligge. Solo quella ‘buona notizia’ ci può salvare dal pessimismo e dal disimpegno, e liberarci dalle nostre paure paralizzanti. È Lui la vera ‘buona notizia’. E viene per tutti. (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: I domenica di Avvento (Vangelo Mc 13, 33-37)

26 Novembre 2020 - Prima domenica di avvento: ricomincia il ciclo dell’anno liturgico. Il senso di questa rotazione è mettere un bagliore di futuro, una scossa dentro il giro lento di giorni apparentemente uguali. Come a ricordarci che la realtà non è solo quello che si vede, ma che il segreto della nostra vita è oltre noi. Il tempo che inizia ci insegna cosa spetta a noi fare: andare incontro. Il Vangelo ci mostra come farlo: fate attenzione e vegliate. Nel Vangelo si parla di un padrone che se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito. Gesù parla spesso di un Dio che mette il mondo nelle nostre mani, che affida tutte le sue creature all’intelligenza fedele e alla tenerezza combattiva dell'uomo. Dio in un certo senso si fa da parte, si fida di noi, ci affida il mondo. L’uomo, da parte sua, è investito di un’enorme responsabilità. Non possiamo più delegare a Dio niente, perché Dio ha delegato tutto a noi. “Fate attenzione”. L’attenzione è il primo atteggiamento indispensabile per una vita non superficiale; significa porsi in modo ‘sveglio’, consapevole e al tempo stesso ‘sognante’ di fronte alla realtà. Capita, purtroppo, che spesso calpestiamo tesori e non ce ne accorgiamo, camminiamo su gioielli e non ce ne rendiamo conto. “Vegliate, con gli occhi bene aperti”. Il vegliare è come un guardare avanti, uno scrutare la notte, uno spiare il lento sorgere dell’alba, perché il presente non basta a nessuno. Il Vangelo ci consegna una vocazione al risveglio, continua, permanente. È questo il senso di tutta la vita: la preparazione fin d’ora all’incontro finale con Dio, attraverso le ‘svolte’ della Sua presenza! Che non giunga l’Atteso e ci trovi addormentati! La Sua venuta non è una minaccia ma una necessità che ci fa implorare: “se tu squarciassi i cieli e scendessi” (prima lettura). Le deleghe non sono separazione tra padrone e servi ma un legame, che non si interrompe. Mai. Nella storia, la separazione ha visto i servi tronfi della loro autonomia, cadere nell’orrore delle brutture umane. Non è per finta che il servo diventa custode dei beni e dei poteri ricevuti; così, non è molesta la riapparizione del padrone per compiere quello che solo Lui può fare. Il rischio di una vita dormiente è che non ci si accorga dell’esistenza stessa, come accade ad una madre quando non sa di essere in attesa. Quando se ne accorge, cambia tutto! Tutto quello che fa è carico di luce e di futuro, oltre che di attenzione. Non c’è tempo per la noia e per le distrazioni. L’attesa è viva, ravvivante e ravvivata!

p. Gaetano Saracino

 

Vangelo Migrante: XXXIII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 25, 14-30)

12 Novembre 2020 - La parabola dei talenti è tra le più note del Vangelo. Due servi investono quanto ricevuto da un padrone in partenza per un viaggio. Un altro, invece, va a sotterrare il suo talento. Il padrone è Gesù stesso. I talenti sono le diverse attitudini e capacità affidate ad ognuno da impiegare a servizio del vangelo. Il ritorno del padrone, il giorno del giudizio. Per chi ha investito c’è un’ampia ricompensa: “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto”; per chi non ha investito, una sorte inquietante: “toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”. Un giudizio severo e apparentemente immeritato. In fondo il talento ricevuto era stato nascosto e restituito al suo legittimo proprietario. Il protagonista della parabola è proprio lui: quel servo pigro e pauroso, che aveva un’idea meschina e falsa di Dio. Lo immaginava come un padrone avaro, prepotente e dispotico. A suo parere rischiare un investimento avrebbe prodotto solo dei danni: la perdita del talento e la rovina della sua vita. La tentazione di quel servo non è lontana da alcuni nostri atteggiamenti, a volte nascosti da un velo di falsa umiltà: ‘dispongo di un solo talento; non posso far altro che occuparmi dei fatti miei; cerco solo di non dar fastidio agli altri!’. Questo è il punto: con questo atteggiamento si ritiene che l’efficacia del vangelo dipenda solo dalle nostre capacità e queste ci sembrano sproporzionate rispetto al compito da realizzare. Dio non ci apparirà mai buono ma duro e crudele. Non è vero che non sbaglia solo chi non fa niente. Al contrario, lo sbaglio più grande è proprio quello di non fare niente con l’illusione e la presunzione di non sbagliare. Una tentazione di questo genere si vince soltanto fidandosi di Dio e rischiando la propria vita in nome del vangelo. La stessa tentazione è un atteggiamento che riguarda anche tutto corpo ecclesiale. Si pensi nella storia alla difficoltà di rischiare l’inculturazione del vangelo in altre lingue e culture o al confronto inquieto con la scienza per la paura di sconvolgere l’interpretazione della Scrittura. O, in tempi più recenti, alla fatica di accettare la democrazia e il pluralismo politico dei cattolici, di ripensare parzialmente la dottrina nell’ambito della morale cristiana o alla fatica e alla difficoltà di provare nuove strade e nuove vie per l’annuncio del vangelo in un mondo secolarizzato, preferendo continuare a fare quello che si è sempre fatto, anche se ormai scarsamente efficace. In tutti questi casi, il ‘non rischiare’ ha sotterrato e continua a sotterrare la capacità della Chiesa di essere luce per tutti i popoli e tutti gli uomini. Non c'è una cifra ideale da raggiungere: c'è da camminare con fedeltà a se stessi, a ciò che abbiamo ricevuto, a ciò che sappiamo fare, là dove Dio ci ha posti, fedeli alla nostra verità, senza maschere e paure. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. (P. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: XXXII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 25,1-13)

5 Novembre 2020 - È il Vangelo della parabola delle dieci vergini che attendono il corteo dello sposo. Di esse cinque sono dette stolte e cinque sagge. Le sagge, a differenza delle altre, si procurarono l’olio di riserva per alimentare le lampadeNella lunga attesa dello sposo, tutte si addormentano. Quando arriva lo sposo, le vergini stolte si accorgono di non avere più olio per alimentare le loro lampade. La loro disperata ricerca risulta vana. Quando giungono presso la sala del banchetto, la porta è ormai chiusa. Lo sposo non apre e, pertanto, restano irrimediabilmente escluse dal banchetto. Lo sposo rappresenta Cristo, il banchetto di nozze la salvezza eterna, le vergini sagge, coloro che sanno prepararsi all’incontro con Cristo; le vergini stolte, coloro che non si preparano all’incontro con Cristo e per questo risultano esclusi dal suo regno. Il perno attorno cui ruota la parabola è il sonno delle vergini e il grido nel mezzo della notte: “ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Il tempo dell’attesa indica l’intero arco dell’esistenza, il tempo della vita che rischia di apparire come un lungo sonno dove tutte le differenze vengono annullate. Ma come al risveglio le differenze tra le persone, impercettibili nel sonno, si percepiscono bene, così a quella Voce, ovverosia al momento dell’incontro con Cristo, appare la differenza tra ciò che serve e ciò che è inutile, tra il giusto e l’ingiusto, tra il buono e il cattivo, tra il saggio e lo stolto. È inevitabile che non accumuli olio chi pensa che la vita sia soltanto un limitato numero di giorni dove confezionare qualche gradevole passatempo per rendere meno amara l’attesa dell’ultimo giorno. Al contrario, il saggio ha fatto un patto con lo sposo e di conseguenza attende dal tempo, che certo verrà, la ricompensa per il presente. Accumula olio chi ha l’attesa nel cuore. Non deve stupire il rifiuto delle vergini sagge di dare un pò del loro olio alle stolte: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi”. L’olio rappresenta insieme le opere buone e il cuore saggio, costruito anche attraverso le opere stesse. Anche se lo volesse, nessuno può dare il proprio cuore ad un altro. La testimonianza delle persone buone è esempio che aiuta a fare altrettanto, ma non si sostituisce certo alla libertà e alla responsabilità di ciascuno. Noi non siamo la forza della nostra volontà, non siamo la nostra resistenza al sonno; noi abbiamo tanta forza quanta ne ha quella Voce che, anche se tarda, di certo verrà. Solo quella Voce ridesta la vita da tutti gli sconfortici consola dicendo che lo sposo non è stanco di noi e che la festa avrà luogo. A noi basterà avere un cuore vigile, saggio, pronto e ravvivarlo, come fosse una lampada, per uscire incontro a chi ci porta il suo abbraccio e ci invita alla festa. (P. Gaetano Saracino)      

Vangelo Migrante: Tutti i Santi (Vangelo Mt 5, 1-12)

29 Ottobre 2020 - Quando pensiamo ai Santi è istintivo vederli come figure eroiche ed eccezionali, con la conseguenza che si tratti di figure rare e inusuali. Oggi, nella prima lettura (Ap 7,2-4.9-14) si dice che il sigillo impresso sulla fronte dei servi del nostro Dio produce un numero che equivale a “centoquarantaquattromila segnati provenienti da ogni tribù dei figli di Israele”. Nonostante questa cifra enorme, si afferma che a questa folla va aggiunta “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”, il che permette di allargare l’orizzonte di questo popolo a dimensioni sbalorditive. Anche la santità ci dice che l’umanità non ha confini. Il criterio per rintracciarli sono le Beatitudini, la pagina del Vangelo della liturgia odierna. Esse riassumono la bella notizia, l’annuncio di gioiosa speranza che Dio regala vita a chi produce amore e che se uno si fa carico della vita ‘tribolata’, il Padre si fa carico della sua. Abbiamo ancora fresca la memoria di tre figure che sono in certo senso la riprova di questa verità: il giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso con violenza brutale per aver cercato di difendere un suo amico da un’aggressione; don Roberto Malgesini, ucciso da uno che aveva beneficato: due figure del tutto sconosciute prima dell’incidente; e, infine, l’adolescente Carlo Acutis, morto a causa di una leucemia fulminante e da poco beatificato, del quale tutti coloro che lo hanno conosciuto e gli scritti che ne parlano ripetono costantemente che era un ragazzo ‘normale’. Di tutti loro si è scoperto dopo la morte quanto fosse virtuosa la loro vita e quanto fosse evangelico l’ideale per il quale hanno vissuto. Ma basterebbe anche solo ricordare il grandioso slancio di generosità che la reazione alla pandemia o le emergenze umanitarie in atto hanno scatenato in operatori sanitari, religiosi volontari, uomini e donne prima sconosciuti: ancora una volta è la tribolazione che rivela i santi, anche ‘anonimi’! I santi ci sono necessari, la loro presenza nella nostra vita è cruciale. Perché i santi sono la prova concreta che il vangelo è vero, il vangelo è praticabile. Come è stato detto da qualcuno: “se il vangelo è una splendida partitura, la musica la fanno i santi!” P. Gaetano Saracino, CS  

Vangelo Migrante: XXX domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 22, 34-40)

22 Ottobre 2020 - Colpiti, ma non convertiti, dalla Parola che sta rivelando al mondo una nuova immagine di Dio, i farisei cercano una nuova occasione di conflitto per mettere in difficoltà Gesù e farlo cadere in fallo cercando di “prenderlo al laccio con una parola”. Uno di loro, un dottore della legge, lo interroga: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il ‘grande precetto’ era un problema molto discusso nell’ambito dell’ebraismo farisaico che disputava su una possibile gerarchia dei precetti o sull’individuazione di un principio unitario che li racchiudesse tutti. La risposta di Gesù è molto concisa, chiara e subito persuasiva. Egli raccoglie tutta la Legge e i profeti attorno ai comandamenti dell’amore per Dio e per il prossimo: “Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti”.  Gli avevano chiesto il comandamento grande e lui ne elenca due. Non si tratta di contenuti inediti ma di parole a loro ben note dall’AT (nel Levitico e nel Deuteronomio); la vera novità consiste nel fatto che le due parole insieme, Dio e prossimo, fanno una sola parola, un unico comandamento. Dice infatti: “il secondo è simile al primo”, speculare. Amerai il prossimo è simile ad ‘amerai Dio’. Il prossimo è speculare a Dio, il prossimo, ogni uomo, ha volto e voce e cuore specchio di Dio. Il suo grido è da ascoltare come fosse parola di Dio, il suo volto è come una pagina del libro sacro. È proprio questa specularità a colpire i farisei che si trovano radunati lì per porre una questione su Dio, ma nel contempo contro il loro prossimo, Gesù-uomo, di cui cercano la rovina. Il loro atteggiamento mostra in sé tutta l’incongruenza di una fede in Dio che si professa solo a parole, per dogmi e precetti. Trascurano quanto sapevano: per raggiungere Dio bisogna passare attraverso la cura del forestiero (‘non farlo soffrire, perché Dio si è reso solidale con gli ebrei oppressi in Egitto e sta dalla parte di chi vive in quelle condizioni’), della vedova e dell’orfano, del povero e dell’indigente (prima lettura). L’amore per il prossimo, afferma Gesù, è specchio del nostro amore per Dio e tutta la Torah e i profeti sono ‘appesi’ a questi due precetti. Il primato di Dio è il grande orizzonte della vocazione del credente e, per non svuotarlo, il criterio è ‘amerai’, un’azione al futuro, che non finisce mai. Non equivale ad un codice etico, cui sottostare, ma a lasciarsi coinvolgere in un’esperienza di vita: l’incontro con l’altro che porta i segni di Dio. P. Gaetano Saracino, CS    

Vangelo Migrante: XXIX domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 22, 15-21)

15 Ottobre 2020 - Le parabole di Gesù dirette a sommi sacerdoti e farisei, hanno suscitato un crescendo di ostilità al punto che questi gruppi, accordandosi addirittura con una fazione opposta, nemica giurata, gli erodiani, “cercano di impadronirsi di Lui” probabilmente per metterlo definitivamente a tacere. E lo fanno a modo loro. Con una trappola ben congegnata. Gli chiedono: “è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Come a dire: “stai con gli invasori o con la tua gente?”. Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la vita: o per la spada dei Romani, come istigatore alla rivolta, o per il pugnale degli Zeloti, come sostenitore degli occupanti. L’opportunismo e la malafede degli ipocriti di ogni tempo hanno caratterizzato con frequenza la storia del rapporto tra fede e politica. Molto spesso, purtroppo, pregiudizi e interessi inconfessabili ma facilmente intuibili hanno reso e rendono il dibattito su questi temi superficiale, improduttivo e fastidioso. Gesù, come sempre, non si lascia ingannare. Dalla domanda tira fuori un problema che interessa tutti. Non è in gioco il suo agire ma un comportamento che riguarda ogni uomo. Per questo resta ‘sul pezzo’ e chiede ai suoi interlocutori di fargli vedere la moneta che serve per pagare il tributo. I farisei gli mostrano una moneta romana, dimostrando nei fatti di usare il denaro coniato da Cesare e di riconoscerne di conseguenza il potere politico. Il tutto avviene nell'area sacra del tempio, dove era proibito introdurre qualsiasi figura umana, anche se coniata sulle monete. A questo punto le sue parole non possono più essere strumentalizzate. Sono loro, gli osservanti, a violare la norma, mostrando di seguire la legge del denaro e non quella di Mosè. La sua risposta è nota e giustamente famosa: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Il detto significa che il potere sovrano e assoluto è uno solo, quello di Dio a cui loro, ipocritamente, dicono di credere e dinanzi al quale ogni persona si impegna a prendere le sue decisioni. Tuttavia a Dio si obbedisce anche pagando il tributo a Cesare, perché il potere politico è parte di un ordinamento indispensabile per cercare di realizzare una giusta e pacifica convivenza. Ma nell’uomo c’è sempre qualcosa di più grande (di trascendente), di cui nessuno può disporre all’infuori di Dio. A tutti dice: “Date dunque a Cesare ciò che è suo, ma non dategli l’anima. Non consegnatevi alla logica del potere. Perché voi non appartenete a nessun potere, restate liberi da tutti, ribelli ad ogni tentazione di lasciarvi asservire”. A Cesare le cose, a Dio le persone. A Cesare oro e argento, a Dio l'uomo. Ogni uomo.

p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XXVIII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo 22, 1-14)

8 Ottobre 2020 - In città c’è una grande festa: si sposa il figlio del re, l'erede al trono, eppure nell’affannata città degli uomini nessuno sembra interessato. Gli invitati non accettano l’invito forse perché presi dai loro affari, dalla liturgia del lavoro e del guadagno, dalle cose importanti da fare; non hanno tempo. Hanno troppo da fare per vivere davvero. Il regno dei cieli è simile a una festa. Un velo di tristezza, invece, aleggia tra le cose umane e, sovente, anche tra quelle ‘religiose’: sono pochi i cristiani che sentono Dio come un vino di gioia; sono così pochi pure quelli per cui credere è una festa e le celebrazioni liturgiche una gioia festiva, non solo di nome. Ma il re non si arrende e dice ai suoi servi: ‘andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze’. Se i cuori e le case si chiudono, il Signore, che non è mai a corto di sorprese, apre incontri altrove. L'ordine del re è illogico e favoloso. Fa chiamare tutti, senza badare a meriti, razza, moralità. L'invito potrebbe sembrare casuale e, invece, esprime la precisa volontà di raggiungere tutti, nessuno escluso. È bello questo Dio che, quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le alza. Non si arrende alle prime difficoltà e non permette, non accetta che ci arrendiamo, con Lui c'è sempre un ‘dopo’. Un re che apre, allarga, rilancia e va più lontano; e dai ‘molti invitati’ passa al ‘tutti invitati’: cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi. Non perché fanno qualcosa per lui, ma perché lo lasciano essere Dio! E va oltre l’invito. C’è anche un regalo all’ingresso: una tunica per la festa. Gratuità assoluta e munifica quella del re che, tuttavia, trova un commensale che, schiavo delle forme, delle abitudini, della circostanza e per paura di non essere all’altezza, non indossa quell’abito. Si, la gratuita generosità di Dio è anche imbarazzante. E noi senza dover corrispondere qualcosa per forza alle attese altrui, non sappiamo stare. Ma Dio chiede solo di lasciargli fare il ‘Suo proprio’. Il ‘Suo’ è solo amore non è pretesa. Purtroppo la preoccupazione della propria giustizia, impedisce di cedere all’amore! Si tratta di fare spazio!  
  1. Gaetano Saracino
 

Vangelo Migrante: XXVII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo 21,33-43)

1 Ottobre 2020 - Ancora una vigna. Gesù doveva conoscerle molto bene e deve averci anche lavorato. Le osservava con occhi d'amore e nascevano parabole. Oggi racconta di una vigna con una vendemmia di sangue e tradimento. La parabola è trasparente. Un uomo pianta una vigna, la affida a dei contadini e se ne va. A suo tempo, a più riprese, manda i servi a ritirare il raccolto e i contadini li maltrattano, li bastonano e li uccidono. Da ultimo manda suo figlio. Ma anche questi viene ucciso. La vigna è Israele, siamo noi, sono io: tutti insieme speranza e delusione di Dio, fino alle ultime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “Costui è l'erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l'eredità!”. Il movente è avere, possedere, prendere, accumulare. Questa ubriacatura per il potere e il denaro è l'origine delle vendemmie di sangue della terra, “radice di tutti i mali”, dice la Scrittura (1Tm 6,10). Eppure è confortante vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di meraviglie e ricomincia dopo ogni tradimento ad assediare di nuovo il cuore, con altri profeti, con nuovi servitori, con il figlio e, infine, anche con le pietre scartate. Conclude la parabola: “Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l'uccisione del Figlio?”. La soluzione proposta dai giudei è logica, una vendetta esemplare e poi nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone. Gesù non è d'accordo. Dio non spreca la sua eternità in vendette. La storia perenne dell'amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento ma con una vigna nuova: “il Regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”. È questa la novità propria del Vangelo. C’è grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo sterile non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti e avanza nonostante tutte le forze e i venti contrari. La vigna fiorirà. Ciò che Dio si aspetta non è il tributo finalmente pagato o la pena scontata, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza bensì grappoli caldi e dolci; una storia che non sia guerra di possessi, chiusure e battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia, grappoli di onestà e, forse, perfino gocce di Dio tra noi.
  1. Gaetano Saracino
 

Vangelo Migrante: Domenica 27 settembre GMMR (XXVI domenica del Tempo Ordinario, Vangelo (21,28-32)

24 Settembre 2020 - Le tre parabole del vangelo di questa e delle due domeniche successive, riguardano un unico tema: il rifiuto del Regno di Dio e della Sua giustizia da parte di alcuni e la loro sostituzione con altri. Questa domenica Gesù racconta di un padre che invita i suoi due figli ad andare a lavorare nella vigna. Il primo dice ‘no’ ma poi si pente e va; il secondo dice ‘si’ e non ci va! La vigna è molto più che fatica e sudore, essa è il luogo dov’è racchiusa una profezia di gioia, il vino per tutta la casa, la vita per tutta l’umanità; il padre è il custode di questa vita condivisa. Se non hai nel cuore il desiderio di quel vino-vita e tuo padre è un solo padrone al quale sottometterti o ribellarti, comunque da eludere, il formale assenso, resta solo una forma di obbedienza-disobbediente appariscente e arida, immatura e sterile. Allo stesso tempo, nonostante le contraddizioni, gli impulsi e una certa sfrontatezza, esiste una condizione che può cambiare il modo di vedere la vigna e il padre, fino a generare il pentimento e la conversione. Quale? Ce la rivela ancora Gesù quando parla della ‘frequenza’ sulla quale Dio pratica le Sue scelte: “in verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Ufficialmente, secondo certe categorie religiose e criteri morali esteriori, essi hanno detto ‘no’ ma di fatto questi ‘poveri’, proprio perché sono in una condizione non protetta e vulnerabile, permettono a Dio di manifestare la sua misericordia, lo riconoscono e in questa relazione dicono ‘si’. Al contrario di chi invece, trincerato nella propria giustizia o appagato da una presunta autosufficienza, ha detto un ‘si’ nascosto dalle apparenze. Andare a lavorare in quella vigna è fare la volontà del padre. Oggi essa coincide con lo ‘sporcarsi le mani’ per trasformare la paura della sottomissione e il rifiuto del padre in nuove forme di libertà, di amore e di condivisione di quel vino-vita con tutti. Dio non ha deciso, in un dato momento della storia, di rigettare alcuni e adottare altri. È il comportamento nei suoi riguardi che fa perdere posti, anche oggettivamente vantaggiosi. Il rischio da cui Gesù ci mette in guardia è proprio questo: nella misura in cui diciamo ‘si’ solo per apparire e detenere vantaggi, addirittura giustificandoci, rischiamo di dire ‘no’ al Vangelo. Volontà di Dio non è mettere alla prova i due figli e misurare la loro obbedienza. No, la sua volontà è la fioritura piena della vigna che è la vita nel mondo: una casa abitata da figli liberi e non da servi sottomessi. La Giornata del Migrante e del Rifugiato è un’opportunità, resa ancora più concreta dal Messaggio dal Santo Padre, per passare da figli solo credenti a figli anche credibili che continuano a dire ‘si’ al Vangelo dell’accoglienza e della condivisione: ‘conoscono per comprendere, si fanno prossimo per servire, si riconciliano per ascoltare, crescono per condividere, coinvolgono per promuovere e collaborano per costruire’.
  1. Gaetano Saracino
   

Vangelo Migrante: XXV domenica del Tempo Ordinario (Vangelo 20,1-16)

17 Settembre 2020 - Nel clima di esasperato umanesimo in cui viviamo ‘correggi il tuo fratello’ e ‘perdona al tuo fratello’, sembrano contestare le conquiste più alte dell’uomo: la sua intelligenza e il suo senso di giustizia. Il Vangelo di questa domenica, invece, le conferma. Un padrone (Dio) esce in più ore del giorno, dal mattino sino al tardo pomeriggio, a chiamare operai a lavorare in quel giorno, per la sua vigna e con ciascuno concorda la paga: 1 denaro per i primi, quel che è giusto per gli altri. Giunta la sera i primi assunti vengono pagati per ultimi e, giunto il loro turno, contestano al padrone la sua sperequazione: paga uguale per tutti. Un padrone contromano e illogico. Tuttavia, non gli chiedono di aumentare la loro paga ma si lamentano perché agli altri ha dato tanto quanto a loro. La loro mormorazione non è legata ad un bisogno di denaro, in fondo sanno che la loro è una paga congrua e fedele al patto, bensì ad una passione del cuore che, sotto il pretesto della giustizia e della logica, finisce per dare spazio alla mancanza di rispetto e di fraternità. L’irritante “non posso fare delle mie cose ciò che voglio?” del padrone, serve a spezzare le briglie di una intelligenza e di una giustizia grette e insecchite. La riflessione successiva “o siete invidiosi perché io sono buono?”, serve, invece, a mettere a nudo il loro cuore. Una giustizia vera, sconfina sempre nella comprensione e nell’amore: “Perché ve ne state qui oziosi?”, chiede il padrone ad alcuni, nel tardo pomeriggio. “Perché nessuno ci ha presi a giornata”, gli rispondono. Ha a cuore la loro vita, anche prima del loro lavoro. Giustizia davvero umana è quella che non tutela solo chi ha un contratto di lavoro ma è attenta anche alla sofferenza di chi è senza diritti. Non si tratta di stracciare contratti o premiare fannulloni ma si tratta innanzitutto di non giudicare e di mettere tutti in condizione di vivere. Solo una giustizia ed una intelligenza animate dalla stessa solidarietà che usa Dio sono in grado di mettere tutti gli uomini in condizione di vivere una ‘giornata di lavoro’ (tutta la vita) più umana. Ogni diritto, anche quello umano, e ogni applicazione delle scoperte dell’uomo (il tanto sospirato ‘vaccino’, ad esempio) sciolte da questa passione evangelica, finiranno sempre per escludere qualcuno. Le nostre esigenze e le nostre realizzazioni storiche durano solo se attingono al fermento inesauribile dei criteri del Vangelo. Parola di salvezza che è per tutti.

Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XXIV domenica del Tempo Ordinario (Vangelo 18, 21-35)

10 Settembre 2020 - Il Vangelo non è spostare un po’ più avanti i paletti della morale ma è la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura. Pietro sa per esperienza che a certe persone è quasi impossibile cambiare la testa e con la sua domanda tenta di orientare la risposta di Gesù: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette?”. Insomma: va bene essere generosi nel perdonare, ma fino ad un certo punto! E Gesù: “non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”: quello che Pietro ritiene inopportuno, per Gesù è necessario. Dio, il re della parabola del Vangelo, non è campione di diritto ma di compassione. Sente come suo il dolore di un suddito che lo implora dinanzi ad un debito stratosferico e sente che questo conta più dei suoi (del re) diritti. Il dolore di ‘quel tale’ pesa più dell’oro. In questo è davvero regale. E non servile come ‘il tale’ che, nonostante il beneficio ottenuto, ‘appena uscito’, trova uno nella sua stessa condizione e prendendolo per il collo, quasi lo strangola dicendo: “dammi i miei cento denari” (centesimi). Lui che era stato perdonato di miliardi! Eppure ‘il tale’ non esige nulla che non sia un suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato. Onesto e crudele, al tempo stesso. Di sicuro dimentico del grande beneficio appena ottenuto. Sull’equilibrio tra dare - avere e dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare ‘settanta volte sette’. Un atteggiamento che non chiude i conti ma aggiunge la contabilità degli altri. Il perdono di Dio non è ‘farla franca’ per assicurarsi una condotta libera e senza punizioni nonostante tutto, ma ha uno scopo: leggere diversamente le mancanze altrui. Chi è stato perdonato, perdona. Chi non perdona è chi non ha assimilato il perdono (prima lettura). Il problema è che è difficile farsi perdonare. Perché? Perché Il perdono è imbarazzante: è un ricevere senza dare nulla in cambio. Nel perdono i conti non tornano. Mai. Di fronte al perdono traboccante di Dio siamo semplicemente poveri …, perché non abbiamo nulla in cambio da dare. E allora reagiamo con l’altezzosità, fino a pensare di meritare, in fondo, quello che Dio ci sta dando; mentre Dio, disarmante, fa per davvero tutto gratuitamente. A dirla tutta, noi non ci meritiamo nemmeno di vivere: siamo vivi perché siamo amati. Tutti, nessuno escluso. Lo possiamo capire solo stando dinanzi a Dio per come Lui è e per come noi siamo: debitori. E vivere da debitori davanti a Dio è vivere con il cuore visitato dalla carezza stessa di Dio che spesso ha la forma della mano di un fratello che chiede di essere tirato su! Questo è la porta della pace!

p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XXIII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo 18,15-20)

3 Settembre 2020 - La fede cristiana non è solo rapporto del singolo con il suo Dio, ma è anche rapporto che coinvolge gli altri, soprattutto i fratelli nella fede. Ognuno è responsabile anche della fede e della testimonianza cristiana degli altri. Nel pretesto del rispetto della coscienza altrui, spesso si nasconde la tentazione di farsi ‘i fatti propri’ senza andare a cercare inutili grane. Al contrario, nel Vangelo di questa domenica Gesù ritiene estremamente importante la correzione fraterna: da non intendersi come pretesa di verità o accusa ma la ‘via’ per un discepolato vissuto in fraternità: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Il presunto rispetto ma anche il salvare la faccia, sono quasi sempre indice di indifferenza. La Scrittura è chiara: dinanzi a questo comportamento Dio non resta estraneo (prima lettura): ‘se tu non parli al malvagio, della sua morte domanderò conto a te ’. Il Vangelo va oltre: “se commetterà una colpa contro di te”, al posto di prendere una distanza, fatti ancora più vicino, più prossimo. Attenzione. Il Vangelo non intende solo esortare a fare correzioni ma anche a lasciarsi fare correzioni. Ognuno dovrebbe attendersi, da quanti gli vogliono bene, un aiuto per correggere i suoi difetti e combattere contro i suoi peccati. Chi ci vuole veramente bene, vuole il nostro vero bene e … ce lo sa dire. La disponibilità e il desiderio di camminare insieme esigono che ognuno accetti personalmente di essere ‘sentinella’ dell’altro. Non spie ma custodi, affinchè tutti possiamo seguire il Signore con frutto. L’essenza di questa procedura sta nel fatto che “Dio non vuole che neppure uno di questi piccoli si perda” e per questo invita in tutti i modi a ‘guadagnare’ fratelli …: “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”. Il fratello è un guadagno, un tesoro per ognuno e per il mondo. L'unica politica economica che produce vera crescita, è investire in fraternità!

  p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XXII domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 16, 21-27)

27 Agosto 2020 - Nella tendenza innata a resistere a Dio, l’uomo deforma la Sua immagine e si rifiuta di lasciare che Dio sia come vuole essere. Il suo Dio è troppo piccolo, troppo fragile e troppo limitato, mentre il Dio di Gesù Cristo è tutt’altro e Gesù, nel vangelo odierno, si affretta a percorrere la via che porta a Gerusalemme per svelarcelo. Anche per Pietro l’idea di sofferenza e l’idea di Messia sono incompatibili fra loro: “Dio non voglia Signore, questo non ti accadrà mai”, replica all’annuncio di Gesù sulla sua Passione. È lo stesso Pietro che domenica scorsa aveva rivelato chi era Gesù? Si. Da dove provengono allora queste spinte opposte? La vicenda di Geremia nella prima lettura ci aiuta a capire che dentro l’uomo c’è un combattimento: Dio ha donato a Geremia uno spirito profetico straordinario e meraviglioso per annunciare cose ‘scomode’ ma allo stesso tempo affiora in lui anche la voglia di proteggersi, salvaguardarsi, premunirsi, non farsi male. Alla fine prevale la seduzione iniziale, la chiamata di Dio, per la forza che viene da Dio. Anche Pietro ha dentro di sé la voglia di scappare e una spinta ad obbedire. La sintesi tra queste spinte gliela dà Gesù nel “vade retro” che non è un allontanamento ma un ‘rimetterlo in fila’ dietro di Lui per fargli fare il viaggio che spiega quella meta: “se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la propria croce e mi segua”. Il combattimento va superato con altro: dire no a qualcosa per fare posto a qualcos’altro. C’è in me una vita che è la mia ed è piccola. Dio me ne vuole dare un'altra che è più grande: da figlio di Dio. Non più figlio di Giona ma figlio di Dio. Il salto avviene nella vita che nasce dalla Pasqua: l’uomo che si difende lascia il posto ad uno che abbraccia la croce di Cristo e sceglie di perdere la vita per quel Signore che trasforma la morte in vita. Il problema non è ‘perdere’ ma ‘trovare’. La vita passa comunque; si può sprecare e si può investire. La spreco se nel tentativo di tenere tutto per me non lascio spazio all’offerta di me stesso; la investo se metto in me stesso la forza che viene dalla Vita stessa. Quella forgiata nella Pasqua, vera e propria migrazione verso una vita nuova.

p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XXI domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 16, 13-20)

20 Agosto 2020 - Parabole e domande: Gesù, ha scelto queste due forme particolari di linguaggio perché sono generative e coinvolgenti. In questa domenica con le domande “la gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?” e “ma voi chi dite che io sia?” sembra voler muovere i suoi discepoli a guardare avanti: le risposte appagano e fanno stare fermi, le domande invitano a cercare e a camminare! Dinanzi al Suo operato si era creata non poca confusione: lo circondavano ammirazione e sconcerto: “nessuno può fare i segni che fai tu…; un grande profeta è sorto tra noi…; insegnava loro come uno che ha autorità…”; ma anche “è posseduto da uno spirito immondo; è fuori di sé; questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?” Comunque un modo di fare fuori dagli schemi entro i quali si era cristallizzata l’immagine del Messia atteso da Israele. E siccome non si crede per sentito dire, Gesù va dritto al punto: ‘ma chi sono io per voi, per te?’ Un assedio che vuole espugnare il cuore dei discepoli, e il nostro, affinché possa esprimere dal profondo una consapevolezza di una intima e personale relazione con Lui. Non ha bisogno della risposta di Pietro per avere informazioni o conferme ma per sapere se Pietro gli ha aperto il cuore; a Lui interessa quella relazione. E la trova; non tanto nella risposta ma in ciò che di Lui arde nelle parole di Pietro: non sono parole secondo la carne ma di una sapienza che proviene dal Padre. In quel momento avviene una rivoluzione: Gesù destituisce il potere costituito dal sommo sacerdote in carica, Caifa (pietra), e pone il nuovo Cefa (Pietro) a capo della nuova casa, quella a cui Egli stesso, Gesù, si offre come pietra, roccia, su cui edificare, costruire il nuovo popolo di Dio. E gli promette la consegna sulle spalle delle chiavi del palazzo (cfr. prima lettura), il regno dei cieli, perché possa orientare il reale e la storia verso il Regno di Dio: assieme alla comprensione del mistero offrire la compassione della misericordia. Quelle chiavi (sulle spalle) sono il mistero della croce: Caifa metterà in croce Cristo, Pietro porterà la croce di Cristo. E con quelle chiavi la Chiesa cammina!

p. Gaetano Saracino

 

Vangelo Migrante: XX domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 15, 21-28)

13 Agosto 2020 - Gesù, inascoltato nella Sua patria si ritira in una terra straniera: Tiro e Sidone. L’incontro con una donna, una madre, che non si arrende ai silenzi e alle risposte di Gesù, che ricalcano la supponenza farisaica, gli apre il cuore alla fame e al dolore di tutti i bambini, che siano d'Israele, di Tiro e Sidone, figli di Raqqa o dei barconi, poco importa: la fame è uguale, il dolore è lo stesso, identico l'amore delle madri. Dice la donna a Gesù: ‘tu non sei venuto solo per quelli di Israele, ma anche per me, tu sei Pastore di tutto il dolore del mondo’. Anche i discepoli sono coinvolti nell'assedio tenace della donna: ‘Rispondile, così ci lascia in pace’. Ma la posizione di Gesù è molto netta e brusca: ‘io sono stato mandato solo per quelli della mia nazione, quelli della mia religione e della mia cultura’. La donna però non si arrende: ‘aiuta me e mia figlia!’ Gesù replica con una parola ancora più ruvida: ‘Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani’. I pagani, dai giudei, erano disprezzati come tali. Nella risposta geniale della donna c’è la svolta: “è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Nel regno di Dio, non ci sono figli e no, uomini e cani. Ma solo fame e figli da saziare, e figli sono anche quelli che pregano un altro Dio. “Donna, grande è la tua fede!”, conclude Gesù. Lei che non va al tempio, che non conosce la Bibbia, che prega altri dei, per Gesù è donna di grande fede. Lei non conosce la fede dei catechismi, ma possiede quella delle madri che soffrono. Lei conosce Dio dal di dentro: crede che è presso di Lui la mensa della salvezza. C’è chi l’ha rifiutata e chi si fa bastare anche le briciole. “Avvenga per te come desideri”. Gesù ribalta la domanda della madre, gliela restituisce: ‘Sei tu e il tuo desiderio che comandate. La tua fede e il tuo desiderio sono il grembo che partorisce il miracolo’. Nel racconto si realizza l’abbraccio di Dio al mondo, come ricorda la prima lettura: “la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. La terra è l'unica grande casa, con una tavola ricca di pane, il Suo, e ricca di figli, tutti Suoi. Nessuno escluso. E tutti, tutti gli apparteniamo.

p. Gaetano Saracino

Vangelo Migrante: XIX domenica del Tempo Ordinario (Vangelo Mt 14, 22-33)

6 Agosto 2020 - Dio viene incontro all’uomo specialmente nei momenti di necessità, quando questi lo invoca con fede: “Signore salvami!” Egli non è tra l’estensione delle nostre paure e speranze (“è un fantasma!”) o nei fenomeni naturali grandiosi e violenti: vento, terremoto, fuoco; ma nel “sussurro di un vento leggero” (prima lettura), a significare l’intimità della Sua manifestazione all’uomo. Nel Vangelo odierno, nonostante la burrasca, dinanzi al desiderio di Pietro, si conferma accessibile e presente; e dice: “vieni!”. La comunità cristiana, ieri come oggi, vive un’esistenza travagliata dalle ostilità delle forze avverse, che si manifestano nelle persecuzioni e nelle difficoltà esterne ed interne. A queste si aggiunge la mai domata tentazione di farcela con le sue sole forze. Nel mare dell’esistenza, l’esperienza del pellegrinaggio e dell’Esodo è continua. Sono tanti i motivi che costringono a salpare, a lasciare le tranquille sicurezze della terraferma per andare al largo. È qui che la nostra fede, come quella di Pietro, è messa a dura prova ma la mano di Gesù che salva dal baratro non cessa mai di stendersi. Gesù offre la vittoria sulle forze del male e la sicurezza nelle prove ma richiede come condizione essenziale una fiducia senza tentennamenti: “uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Quale fede? Quella che prima delle proprie paure ascolta il “sono Io”; quella che non ripone speranze nella sorte o nelle illusioni ma nel “vieni”. E vive di questo, cammina anche su acque inquiete! Se è proprio della fede ‘emigrare’; siamone certi: è proprio di Dio venirci a cercare! La sua barca resta la sua barca, sia che Lui non vi sia sopra, sia che si trovi su di essa e dorma appoggiato a un cuscino (cfr. Mc 4,37; Mt 8,24). La salva sempre, Lui!

p. Gaetano Saracino