4 Gennaio 2023 - Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo di una carovana, al passo di una piccola comunità: si cammina insieme, non solo attenti alle stelle ma anche attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Come quello dei Magi, il cammino di ogni comunità può essere pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il dramma non è cadere ma arrendersi alle cadute. Allo stesso modo, una stella che sorge non indica soluzioni immediate ai problemi della vita ma intende suscitare nuovi inizi e nuovi cammini, anche nella notte più nera, dopo un fallimento o un pericolo. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l'oro, l’incenso o la mirra ma è il loro stesso viaggio che permette di cercare e arrivare ad una luce che c’è. “Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra”, ripeteremo nel Salmo responsoriale. I Magi, e i nuovi popoli con loro, non sono già formati, indottrinati, perfetti ma sono popoli, comunità, persone in cammino che cercano e portano al Figlio di Dio la vita nel suo ‘migrare’. Il ‘tutto’ degli uomini è preceduto dal ‘tutto’ di Dio: la venuta di Dio è per tutti, la culla di Betlemme è per tutti, la mensa eucaristica è per tutti. Quel che conta non è arrivare prima ma arrivare tutti. I Magi sono la nostra possibile risposta al Natale del Signore! (p. Gaetano Saracino)
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Vangelo Migrante: Solennità di Maria Santissima Madre di Dio | Vangelo (Lc 2,16-21)
29 Dicembre 2022 - La festa cristiana che venera Maria Madre di Dio, suggerisce una meditazione su Maria che custodisce tutti gli avvenimenti straordinari e misteriosi della sua vita, meditandoli nel suo cuore, e in tal modo li strappa alla consunzione del tempo. La data del calendario civile, il primo giorno dell’anno, suggerisce una meditazione apparentemente di segno opposto: il tempo divide e disperde, il tempo fugge e inesorabilmente si porta via la nostra vita. Il passare degli anni rischia infatti di produrre una stanchezza progressiva, connessa all’incapacità di trovare un senso compiuto alla vita sempre insidiata dall’inarrestabile scorrere del tempo. Il tempo fugge e non puoi fermarlo. Lentamente rischia di uccidere ogni speranza e tutto diventa inutile e vano; praticamente un’attesa (più o meno lunga) del colpo finale: la morte. La ragione non vede altre vie. Nel Vangelo odierno si affaccia la risposta dell’intervento di Dio: dopo la nascita di Gesù, Giuseppe e Maria compiono un rito al tempio di Gerusalemme: “quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù”. Nella cultura semitica il nome ha una grande importanza in quanto esprime la realtà stessa della persona che lo porta. Il nome Gesù significa ‘Dio è salvatore’, ‘Dio salva’. In modo perfettamente appropriato, il nome Gesù esprime dunque il mistero del Dio che si è fatto uomo per salvarci. Mistero appena intravisto negli avvenimenti del Natale, mistero che Maria non pretende di capire subito in modo compiuto ma che serba nel suo cuore, così come accadrà per quelli successivi della vita del suo Figlio; dispone il suo cuore alla sequela e alla fine la verità, espressa nel nome del suo Figlio, diventerà per lei realtà luminosa. L’icona di Maria rappresenta la fede cristiana che conferma e soprattutto precisa che l’unico rimedio alla dispersione del tempo non è pretendere di capire subito e sempre tutto, ma innanzitutto nell’offrire a Dio tutto noi stessi e tutte le nostre opere. Da lì nasce la fiducia che in Gesù Cristo Dio ha rivelato definitivamente il suo volto e ci ha dato l’esempio luminoso ed impegnativo di quale sia l’unica strada per salvare la propria vita. Come Maria, anche noi in Gesù scopriremo il Dio che salva, il Dio che si è fatto presente nella storia ma che sta prima del tempo e oltre ogni tempo. È lui il Dio che raccoglie anche il più piccolo frammento della nostra vita, quando viene spesa per gli altri, per restituircelo bello, quanto neppure riusciamo ad immaginare. Fidiamoci di lui, come Maria, e ad ogni anno che passa capiremo qualcosa di più del tempo che scorre per portarci alla vita definitivamente ‘rialzata’: la vita eterna. (p. Gaetano Saracino)
Vangelo Migrante: IV domenica di Avvento | Vangelo (Mt 1,18-24)
15 Dicembre 2022 - A differenza di quanto spesso si sottolinea, il maggior turbamento di Giuseppe non nasce dal dubbio a proposito della fedeltà di Maria, ma dalla difficile comprensione di quale potesse essere il suo ruolo in una nascita tanto misteriosa. Il progetto divino rischia di essere compromesso dalla decisione di Giuseppe. Infatti egli, che è giusto, non può riconoscere una paternità alla quale non ha diritto. Per questo senza disonorare Maria vuole andarsene: la soluzione migliore e più giusta sarebbe quella di farsi da parte e lasciare che un evento tanto grande e misterioso facesse il suo corso senza di lui. Dio solo poteva condurre Giuseppe ad assumere una tale paternità; egli accetta per obbedienza il suo importantissimo compito paterno: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Giuseppe è giusto, cioè desidera solo che la sua vita sia vissuta nella fede e nell’obbedienza a Dio. È fedele nel seguire la volontà di Dio sia nel suo primo proposito di rinviare Maria, sia nell’accoglierla alla fine. E quindi riconosce in quel Figlio un dono fatto a lui e a tutta l’umanità, segno inequivocabile e definitivo dell’amore di Dio per ogni uomo. Con molto coraggio e molta umiltà, si dispone a collaborare a quel singolare progetto di salvezza: “Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”. Subito Giuseppe prende con sé Maria ed accetta di mettere al bimbo che sarebbe nato il nome Gesù. La sua grande fede semplice, riflessiva, silenziosa gli permette di conoscere la gioia immensa di essere lo sposo di Maria e il custode del Redentore. Maria dà il corpo a Gesù, ma Giuseppe, dandogli il suo nome, ne fa un essere sociale: lo introduce nella condizione umana. Attraverso di lui Gesù potrà radicarsi in un popolo, appartenere ad una discendenza, entrare in una tradizione, crescere sereno, imparare un mestiere. La vicenda di Giuseppe rende manifesta una verità che interessa ogni padre della terra: Padre vero, dall’origine e per sempre, è soltanto quello dei cieli. È necessario che tutti i padri della terra salgano fino al cielo per comprendere chi siano davvero i loro figli: sono tutti figli di quel Padre di cui Gesù svelerà finalmente il volto misericordioso e fedele. La gioia di Giuseppe è dunque la gioia che conosce ogni uomo che si fida di Dio. In particolare la sperimenta chi sa accogliere e riconoscere in ogni figlio un dono di Dio. In Gesù Dio ci ha visitati. Allo stesso modo, ogni uomo nuovo che arriva rinnova il segno che Dio non si è stufato di loro. Accoglierlo, è dire Amen! (p. Gaetano Seracino)
Vangelo Migrante: II domenica di Avvento | Vangelo (Mt 3,1-12)
1 Dicembre 2022 - Fa il suo esordio la figura di Giovanni il Battista che annuncia la svolta radicale della storia umana: il Cristo sta per venire. L’imminente arrivo del regno di Dio è legato all’assoluta necessità della conversione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. La prima buona notizia è che Dio è vicino, è qui: Dio è accanto, a fianco, si stringe a tutto ciò che vive; come una rete raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia), uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero. Il regno dei cieli è la terra come Dio la sogna, e in Gesù, incarnato, la realizza: si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore, un respiro. Egli battezzerà in Spirito Santo e fuoco e chi si farà raggiungere cambierà vita, sarà immerso, avvolto, intriso, impregnato della vita stessa di Dio. Riconosce i segni della vicinanza e della presenza del regno dei cieli, solo chi ha nel cuore la fame e la sete della giustizia. Chi non sente nel cuore il desiderio grande e la nostalgia intensa di una vita più giusta e più fraterna, non può riconoscerlo ed accogliere il Suo regno. Proprio come quei farisei e sadducei a cui il Battista rivolge parole estremamente dure perché sa troppo bene che non sono disposti a cambiare vita: “razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?” Vanno nel deserto spinti dalla curiosità, ma con la convinzione di non aver nessun peccato da confessare e nulla da dover cambiare. S’illudono di potersi sottrarre all’ira di Dio attraverso la pratica di un battesimo solo esteriore, al quale non corrisponde nessun proposito serio di cambiare vita. Spirito assai diffuso e pericoloso: più di quanto non si pensi. Ragion per cui le parole rivolte ad essi non possono non colpire la coscienza di ciascuno: “già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco”. Cosa vuol dire? Vuol dire che così come nella vita non si va avanti se uno non accetta dei tagli, delle perdite, delle potature allo stesso modo non si accoglie il regno dei cieli se non si è disposti ad eliminare tutto ciò che non è buono o è ambiguo. La prima forma di conversione è proprio il desiderio che il Signore arrivi con tutta la chiarezza e la bellezza che ha in sé; ma anche con la selettività che serve per liberarci dei rami stupidi e inutili della nostra vita. Non possiamo proprio fare a meno, allora, di una venuta che, come fuoco, bruci le nostre menzogne e ci liberi dalle perdite di tempo, dagli inganni, dalle trappole, liberi il mondo da tutto ciò che non è il bene. Essa avrà il volto della misericordia di Dio, che non vuole la morte del peccatore ma la sua conversione, e la forza dello Spirito che sostiene, illumina, rafforza. (p. Gaetano Saracino)
Vangelo Migrantes: 1 domenica di Avvento
25 Novembre 2022 -
Inizia un nuovo anno liturgico, tramite il tempo forte dell’Avvento siamo invitati a rivolgere la nostra attenzione verso le ultime realtà, riflettere intorno al destino della creazione e della vita di ciascuno di noi. Lo scopo di un’esistenza, può essere meglio compreso, solo nel momento in cui si ha presente il fine verso cui siamo incamminati. Vi è un potenziale rischio: avere lo sguardo basso, immerso nel vivere quotidiano, senza rendersi conto di quale sia il traguardo della vita. Qualcun altro invece, può essere ben consapevole che il nostro essere creature ha un termine, però non vuole pensarci, quasi a esorcizzare il momento. Il tempo dell’Avvento, soprattutto nella prima parte, ci dona delle indicazioni molto preziose, aiutandoci a comprendere che la nostra esistenza acquista sapore se consapevole di ciò che accadrà: è in base al fine che si prendono le misure del vivere. Questo tempo, che non va ridotto a una mera preparazione al Natale, ci insegna che la vita umana non ha una fine, bensì un fine, uno scopo: il mio incontro con Cristo luce del mondo. La corona d’avvento mi ricorda proprio questo aspetto, l’esistenza umana non va verso la morte intesa come oscurità, annullamento, ma verso la luce che è Cristo. Il fine si caratterizza come un ad-ventus: un appuntamento tra l’uomo e Gesù, infatti, mentre noi camminiamo incontro a Cristo, Lui a sua volta procede verso di noi. “E vide che era cosa buona e giusta” ci ricorda il libro della Genesi, e se così è, anch’io come creatura possiedo un senso che nasce dal Cristo che mi attende, mi salverà, mi condurrà con Lui. Andare incontro al “fine” non significa che stiamo camminando verso un futuro che accadrà, quest’ultimo non è scritto da nessuna parte, non siamo dei destinati, il Vangelo piuttosto desidera che ciascuno di noi si mobiliti su cosa fare, perché possiamo giungere ben preparati all’incontro con il Signore. Il tema predominante del Vangelo di oggi e dell’Avvento è il vegliare: la religione non è un oppio, non è una realtà in grado di chiuderti gli occhi e anestetizzarti dalla concretezza della vita, al contrario sostenendo che l’esistenza è un cammino, ti chiede di darle uno scopo: se sei ben conscio di dove stai andando, non perder tempo con il distrarti guardando il paesaggio. Vegliare: c’è un oltre che attendo, c’è un di più imparagonabile rispetto alle bellezze che nell’immediato l’occhio può osservare. Vegliare: la mia vita non trova il suo senso profondo, la motivazione del cammino in quello che è mortale come me, ma il fine è in Lui che mi sta venendo incontro, è l’eternità che viene per avvolgermi e farmi divenire luce. Stai attento a non inciampare. Il giorno dell’incontro non ci è dato saperlo perché ciascuno di noi non si culli sul tempo mancante o non entri nel panico quando esso si avvicina, vivi bene: ogni giorno può essere il giorno, tieni sempre aperti gli occhi. La tua fede assume sapore non in base al ruolo o alla classe sociale che hai acquistato su questa terra o sulle categorie umane che determinano il realizzarsi. Due persone possono svolgere il medesimo lavoro, avere lo stesso modello di vita, si determina però una differenza: vi è chi ama e chi invece “prende”, chi lavora per edificare il bene comune e chi invece si impadronisce delle cose, procurando sofferenza per il prossimo. Uno sarà preso e l’altro no, chi era consapevole del “fine” è accolto nell’eternità sperata, chi credeva di trovare senso nelle cose del mondo si dissolverà con esse. (Luca De Santis)
Vangelo Migrante: Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo| Vangelo (Lc 23,35-43)
17 Novembre 2022 - Che Dio è un Dio che muore? E per di più, di una morte infamante come la croce, maltrattato e deriso: ‘guardatelo, il Re!’ I più scandalizzati sono i devoti osservanti: “ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti; come a dire: ‘se sei il re, usa la forza!’ E per bocca di uno dei crocifissi, ritorna con prepotenza anche la tentazione del deserto: “non sei tu il Cristo? salva te stesso e noi”. Fino all’ultimo Gesù deve scegliere quale volto di Dio incarnare: quello di un messia di potere, secondo le attese di Israele, o quello di un Re che sta in mezzo ai suoi come colui che serve? Il messia dei miracoli e della onnipotenza, o quello della tenerezza e del perdono? E sceglie. Ce lo dice l’assassino che prova un moto compassione per Lui e vorrebbe difenderlo pur nella sua impotenza di inchiodato a morte. In risposta all’altro detrattore, urla: “non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?”. Egli vede Gesù nella loro stessa pena. Eccolo il Re: è dentro il nostro patire, è crocifisso in tutti i crocifissi della storia, naviga nel fiume di lacrime che scorre nel mondo, o tra le onde che solcano mari in cerca di approdo, entra nella morte perché là entra ogni figlio di Dio. E mostra come il primo dovere di chi ama è di essere insieme con l’amato. “Non ha fatto nulla di male!”: questo è Gesù! Niente di male, per nessuno, mai, solo bene, esclusivamente bene. E fa del bene fino alla fine: perdona, si preoccupa non di sé ma di chi gli muore accanto. Anche sull’orlo della morte, stabilisce un momento sublime di comunione che diventa via al cielo: “ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, gli chiede uno dei due compagni di sventura. Gesù non solo si ricorda, ma lo porta via con sé, se lo carica sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta e ritrovata, perché sia più leggero l’ultimo tratto di strada verso casa: “oggi sarai con me in paradiso”. La salvezza è un regalo, non un merito. I re, per come li intende il mondo, la vita la chiedono ai sudditi. Mandano in guerra gli eserciti e garantiscono la vita di tutti salvando la propria! Per Gesù no: Lui è la Via e la fa con noi, la verità e la condivide con noi, la vita e ce la dona! Qualunque sia il nostro passato: questa è la Buona Notizia di Gesù Cristo, Re dell’Universo. (p. Gaetano Saracino)
Vangelo Migrante: XXXII Domenica del Tempo Ordinario | Vangelo (Lc 20,27-38)
3 Novembre 2022 - Dopo i farisei e gli scribi anche i sadducei sono avversari di Gesù. Aristocratici e conservatori in campo religioso e politico, conducevano una vita agiata. Ai loro occhi la fede nella resurrezione non era normativa, anzi doveva essere fermamente rifiutata. Presunzione e saccenteria stanno alla base della loro posizione teologica; ritengono, infatti, con una banale storiella di poter chiudere definitivamente tutti gli interrogativi relativi alla vita oltre la morte. Lo stravagante racconto secondo cui sette fratelli sposano in successione la stessa donna ha come unico obiettivo quello di screditare la fede nella risurrezione. Dal loro punto di vista, qualora si ammettesse la resurrezione, si avrebbe l’insolubile caso di una donna moglie di sette mariti. Il loro obiettivo non è certo quello di sapere chi sarà il marito di quella donna, ma quello di ridicolizzare e negare la risurrezione. Nel racconto, se da una parte stupisce la fermezza con cui negano la resurrezione, e la conseguente vita oltre la morte, dall’altra sono inequivocabili le parole di Gesù che smascherano le ragioni di tanta ostilità. Gesù, innanzitutto, rigetta il pregiudizio che la resurrezione sia semplicemente un rozzo prolungamento della vita terrena: “i figli di questo mondo prendono moglie e marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito”. La meta finale della speranza cristiana è la pienezza della vita dei figli di Dio: “infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”. È proprio in forza di un’intima comunione con Dio che siamo strappati per sempre alla morte. E, quindi, si può rinunciare al matrimonio e agli affetti conseguenti per il regno di Dio, proprio perché questo mondo non è quello definitivo. Se con la morte finisse tutto sarebbe impensabile e assurdo rinunciarvi. Né deve sfuggire che solo i giusti sono giudicati degni della risurrezione per la vita: “quelli che sono giudicati degni”. Ora, i sadducei vivevano tenacemente aggrappati al presente e alle cose che si vedono, arrendendosi ad essere per sempre sconfitti dalla morte perché non disponibili a trasformare la loro vita e a renderla buona e giusta. Esiste una scintilla del divino deposta in noi. Ognuno deve però alimentarla, vivendo una vita buona e giusta. Non serve né negare la risurrezione e neppure limitarsi ad un vago desiderio di vita oltre la morte incapace di promuovere una vita buona. Gesù non intende dare informazioni precise sull’aldilà, sulle modalità della risurrezione, ma afferma in modo perentorio la fede nel Dio vivente capace di produrre opere buone in vita e più forte della morte stessa. Il desiderio di immortalità è ben espresso in un passaggio molto efficace tratto dai Demoni di Fedor Dostoevskij: “La mia immortalità è indispensabile perché Dio non vorrà commettere un’iniquità e spegnere del tutto il fuoco d’amore ch’egli ha acceso per lui nel mio cuore. […] Io ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore deposto in me come una scintilla divina. Come è possibile che Lui spenga me e la gioia e ci converta in zero? Se c’è Dio, anch’io sono immortale”. Il racconto è posto quasi al termine del cammino terreno di Gesù. Quello che ci consegna è decisivo: fidarsi di Dio in modo incondizionato, compiere ogni giorno la sua volontà e produrre frutti di bene e di giustizia, sostenuti dalla speranza certa di essere in cammino verso la vita piena e definitiva: una vita che certamente non deluderà. (p. Gaetano Saracino)
Vangelo Migrante: XXXI Domenica del Tempo Ordinario | Vangelo (Lc 19,1-10)
27 Ottobre 2022 - “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. È tutto quello che c’è da sapere sul mistero di Gesù e sulla sua missione. L’evangelista ce lo dice a conclusione di un racconto che ha tre scene: un personaggio in ricerca, di nome Zaccheo; un incontro; gli effetti della potenza creativa degli incontri con Gesù. Gesù riempie le strade di gente. Fra questi, nella piana di Gerico, c’è un uomo piccolo di statura, curioso, estorsore e malversatore per mestiere, ladro per condotta, impuro e capo degli impuri. Il suo limite fisico, la bassa statura, diventa la sua fortuna. Non si piange addosso, non si arrende, cerca la soluzione e la trova su un albero: “Corse avanti e salì su un sicomoro”. Tre pennellate precise: non cammina, corre; in avanti, non all’indietro; sale sull’albero, cambia prospettiva. Gesù non passa senza incrociare gli sguardi. I suo incontri non sono casuali: sono arte! E quando incrocia gli occhi di Zaccheo, lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi”. Non giudica, non condanna, non umilia; tra l’albero e la strada uno scambio di sguardi va diritto al cuore di Zaccheo e ne raggiunge la parte migliore: il nome. Poi, la sorpresa delle parole: “devo fermarmi a casa tua”. Dio viene perché ha un desiderio su tutti: riprendersi ciò che si era perduto! A Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io. Dice: “devo fermarmi”; non vuole semplicemente passare oltre, ma stare con lui. L’incontro da intervallo diventa traguardo; la casa da tappa diventa meta. Tutto il Vangelo non è cominciato al tempio ma in una casa, a Nazareth; e ricomincia in un’altra casa a Gerico, e oggi ancora inizia di nuovo nelle case, là dove siamo noi con le nostre storie: di nascita, di morte, di amore. Zaccheo “scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. Non ci sono condizioni. Non deve prima cambiare vita, dare la metà dei beni ai poveri o restituire quattro volte il maltolto, e dopo il Signore entrerà da lui. No. Gesù entra nella casa, ed entrando la trasforma. L’amicizia anticipa la conversione. Perché incontrare un uomo come Gesù fa credere nell’uomo; incontrare un amore senza condizioni fa amare; incontrare un Dio che non fa prediche ma si fa amico, fa rinascere. Gesù non ha indicato sbagli, non ha puntato il dito o alzato la voce. Ha sbalordito Zaccheo offrendogli se stesso in amicizia, gli ha dato credito, un credito immeritato. Dinanzi ad un figlio dell’uomo così, ogni peccatore si scopre amato, a prescindere, senza meriti, senza un perché. Semplicemente amato. Il cristiano è un soggetto preceduto da un ‘sei amato’ e seguito da un ‘amerai’. (p. Gaetano Saracino)
Vangelo XXX Domenica del Tempo Ordinario | Vangelo (Lc 18,9-14)
20 Ottobre 2022 - Il primo ornamento della preghiera è l’umiltà: essere convinti della propria povertà, imperfezione, indegnità e ammettere di non bastare a se stessi. Gesù continua la catechesi sulla preghiera e lo fa raccontando la parabola di un pubblicano che prega in contemporanea ad un devotissimo fariseo. Lo diciamo subito: ‘fariseo’ non è sinonimo di cattivo; e, infatti, anche secondo il racconto, egli è davvero un brav’uomo, un elemento validissimo per la società: non ruba, non è ingiusto, non commette adulterio, digiuna e paga la decima su tutto. Ma Gesù fa notare che, pur pregando, non viene ascoltato. Qualcosa non torna. Viene da chiederci: cosa bisogna fare per essere ascoltati? L’evangelista introduce la parabola dicendo che Gesù la rivolge ad “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Ecco il punto: il problema è che il fariseo presume, vive di se stesso, della propria giustizia… e disprezza gli altri. Questo significa che, alla fine, critica Dio: mentre lui è stato fatto bene, gli altri sono stati fatti male e sono un problema. E dà origine all’eterna scalata dell’uomo sugli altri uomini (Caino e Abele); quella fatta con la perenne competizione che si nutre nel trovare sempre chi sta peggio. Insomma si finisce per ringraziare Dio perché gli altri fanno schifo! Se questo ‘funziona’, per modo di dire, fra le cose degli uomini, non è assolutamente il modo di stare dinanzi a Dio. La denuncia di Gesù è fortissima: se un sistema religioso si basa sull’auto edificazione e sul disprezzo degli altri, non ha da dire nulla. Ha chiuso. ‘Game over’, si direbbe oggi. Ci si illude di parlare con Dio, ma in fondo si parla di se stessi a se stessi. Questa non è nemmeno preghiera. L’intenzione del fariseo è quella di farla ma nella pratica lo sbrodolarsi da solo e il non chiedere nulla…, lo portano fuori dal seminato. Si tratta di un atteggiamento molto diffuso fra coloro che si ritengono giusti e non bisognosi di nulla, i quali per mettere in evidenza le loro ‘giustezze’ sul vissuto e sulla fede, hanno bisogno di misurarsi sulle meschinità altrui. La verità, ci dice Gesù, è che siamo sempre dei principianti; è un illusione la speranza di diventare autonomi. Quella è la logica del serpente antico. Il pubblicano sta meglio del fariseo perché ha bisogno di tutto e l’unica misura che ha è Dio. Mentre il fariseo si misura sul pubblicano, il pubblicano si misura su Dio. Sa che per la salvezza non basta se stesso ma Qualcuno che lo salvi. La sua preghiera sarà ascoltata da Gesù sulla croce. La preghiera vera, sgorga bene dalla nostra povertà. Una preghiera solo per mettere a posto la coscienza, non esiste e non ha nemmeno senso, ci dice Gesù! Un atteggiamento che insegna che chi vive di perdono, potrà conoscere la pazienza e la misericordia di Dio; chi vive di certezze, sarà freddo anche all’amore. (P.Gaetano Saracino)
Vangelo Migrante: XXIX Domenica del Tempo Ordinario | Vangelo (Lc 18,1-8)
13 Ottobre 2022 - Pregare sempre senza stancarsi mai. È il cuore del Vangelo di questa domenica. ‘Sempre’ e ‘mai’sono parole infinite e definitive allo stesso tempo. Impossibili da raggiungere? Non proprio. Tommaso da Celano dice di San Francesco che alla fine della vita non pregava più... “egli stesso era diventato preghiera”. Un padre della vita spirituale, Evagrio Pontico, rassicurava: “non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità, che mille stando lontano”. Pregare è come voler bene, c’è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami giorno e notte, senza smettere mai. La cosa che a Gesù sta più a cuore, e anche la più difficile, è proprio “non smettere mai”. E allora porta un esempio: quello di una vedova che, inopportuna, insolente, molesta, importuna un giudice che non si decide a farle giustizia. Questi, alla fine, scocciato dalla sua richiesta, cede. Attenzione: quel giudice non è Dio, quel giudice è il criterio umano di valutare le cose, il buon senso, la misura con cui noi siamo soliti regolare l’andamento della vita; è quell’insieme di compromessi che sono stati consegnati a qualcuno perché li faccia osservare; in una parola: il potere. In questo ‘manage’ si generano le ingiustizie che tanto male fanno agli uomini. Chi ha forza si difende da solo; chi non ne ha, ha bisogno di essere difeso... Ma non è detto che esista qualcuno disposto a farlo. Proprio a partire dal caso della vedova, a cui nessuno risponde, Gesù sposta tutto sulla preghiera; non come ultima ratio ma come la vera e definitiva fonte di giustizia. L’unica capace di tenere testa ai problemi e a chi li dovrebbe regolare. La parabola non è contro quelli che non pregano mai, ma è per quelli che ammettono la preghiera, la conoscono anche e, tuttavia, credono che il ‘qualche volta’ o ‘il pregare spesso’ possa bastare... No. La vera preghiera di cui c’è bisogno e che si rivela anche efficace è: ‘non smettere mai!’. È necessaria: non a caso essa è accostata al respiro di cui non possiamo fare a meno! Si tratta di avere il cuore immerso in Dio. Costantemente. Che sorpresa, trovarsi a fare le cose di Dio anche senza averlo invocato esplicitamente! A riguardo, interroghiamo i Santi: è tutta gente che non spiega quali sono state le strategie delle loro opere ma canta lo stupore dell’Opera di Dio, che non lascia vacillare e non prende sonno. “Egli è come ombra che ti copre”, dice il Salmo! (p. Gaetano Saracino)