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La domenica del Papa: Tempo di Avvento, tempo per vigilare

29 Novembre 2021 - Città del Vaticano - Inizia, con questa domenica, il cammino di Avvento, come dire, il tempo e la storia individuati nel loro momento finale, come leggiamo in Luca e nelle parole di Geremia, la prima lettura: verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele. Cammino che il credente è chiamato a ripercorrere nella pazienza, nella speranza e nell’attenzione ai segni della salvezza. Con Luca possiamo dire che l’atteggiamento che caratterizza questo tempo è la pazienza; l’attesa della realizzazione delle promesse di bene, pazienza in vista di quel “risollevatevi e alzate il capo”. “Chi entra in casa nostra ammiri noi piuttosto che le suppellettili” scriveva Seneca. Come dire, siamo sommersi dalle cose esteriori, dal superfluo. Nei giornali, e non solo, è già frenesia degli acquisti, nonostante la crisi, la pandemia. Nelle nostre strade si moltiplicano le luci natalizie. Luca ci dice di stare bene attenti che “i cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Il tempo di Avvento è, dunque, invito a non guardare alla facciata, ma andare in profondità, cogliere il significato interiore. In questa domenica papa Francesco ci invita anche a guardare a quanti sono in difficoltà e nelle sofferenze, come i migranti. Il suo è un forte, accorato appello rivolto alle autorità e a quanti hanno la possibilità di contribuire a risolvere queste situazioni “affinché la comprensione e il dialogo prevalgano finalmente su ogni tipo di strumentalizzazione e orientino le volontà e gli sforzi verso soluzioni che rispettino l’umanità di queste persone”. Il suo pensiero va a quanti hanno perso la vita nel Canale della Manica, ai profughi al confine Bielorussia e Polonia, a coloro la cui vita si conclude tra le onde del Mediterraneo, ai bambini; a quanti sono rimpatriati e “sono catturati dai trafficanti, che li trasformano in schiavi: vendono le donne, torturano gli uomini”. Migranti “esposti, anche in questi giorni, a pericoli gravissimi”, che perdono la vita “alle nostre frontiere. Sento dolore per le notizie sulla situazione in cui si trovano tanti di loro”, dice il Papa. Cogliamo l’invito, in questa prima domenica di Avvento, a “alzare il capo”, e guardare anche le crisi e le ferite del tempo in cui viviamo. Da Francesco l’impegno a non essere “cristiani addormentati”, ma capaci di essere là dove sofferenza, dolore, diritti negati chiedono un supplemento di coraggio. “Alzare il capo” per non permettere “che il cuore si impigrisca e che la vita spirituale si ammorbidisca nella mediocrità”. Ci sono tanti “cristiani addormentati, cristiani anestetizzati dalle mondanità spirituali, cristiani senza slancio spirituale, senza ardore nel pregare”. Cristiani, ancora, afferma Francesco, “che guardano sempre dentro, incapaci di guardare all’orizzonte. E questo porta a ‘sonnecchiare’, a tirare avanti le cose per inerzia, a cadere nell’apatia, indifferenti a tutto tranne che a quello che ci fa comodo. E questa è una vita triste”. Ecco allora il verbo vigilare “per non trascinare le giornate nell’abitudine, per non farci appesantire dagli affanni della vita”. Vigilare anche per non trovarci accomodati “sulla poltrona della pigrizia”, perché, per il vescovo di Roma, “è triste vedere i cristiani in poltrona”. Poi si chiede quali sono “le mediocrità che mi paralizzano”, i vizi “che mi schiacciano a terra e mi impediscono di sollevare il capo”; sono “attento o indifferente” ai pesi che “gravano sulle spalle dei fratelli”. Il rischio è il sonno interiore, quel girare sempre attorno a noi stessi e restare bloccati nel chiuso della propria vita coi suoi problemi, le sue gioie e i suoi dolori. Il grande nemico della vita spirituale, afferma ancora, è l’accidia, “quella pigrizia che fa precipitare, scivolare nella tristezza, che toglie il gusto di vivere e la voglia di fare. È uno spirito negativo, uno spirito cattivo che inchioda l’anima nel torpore, rubandole la gioia”. Poi, com’è nel suo stile, Francesco aggiunge “un ingrediente essenziale” e dice: “il segreto per essere vigilanti è la preghiera”. Quando sentiamo che “l’entusiasmo si raffredda, la preghiera lo riaccende, perché ci riporta a Dio, al centro delle cose”. La preghiera “risveglia l’anima dal sonno e la focalizza su quello che conta, sul fine dell’esistenza”. (Fabio Zavattaro – SIR)  

Diminuire e condividere

26 Luglio 2021 - Città del Vaticano - “I giovani corrono veloci, ma gli anziani conoscono la strada”. Otto anni fa, proprio in questi giorni, si celebrava a Rio de Janeiro la Giornata mondiale della gioventù, e papa Francesco proponeva ai ragazzi queste parole, per dire la necessità di tenere unite le generazioni, soprattutto in un tempo come il nostro, dove la cultura dello scarto emargina chi non è più in grado di offrire il proprio contributo. In questa domenica, prima Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, Papa Francesco torna a proporre questo legame, per dire che i nonni “hanno avuto occhi attenti, colmi di tenerezza”. È monsignor Rino Fisichella che presiede, al posto del Papa, la celebrazione in San Pietro e legge l’omelia preparata da Francesco. Tutti siamo passati, scrive ancora il Papa, “dalle ginocchia dei nonni, che ci hanno tenuti in braccio. È anche grazie a questo amore che siamo diventati adulti”. Omelia e Angelus, quest’ultimo recitato dal Papa dalla finestra dello studio del Palazzo Apostolico, dedicati alla pagina evangelica della moltiplicazione dei pani e dei pesci, anche se, è Francesco a ricordarlo, dovremmo evitare di utilizzare il verbo moltiplicare: “nei Vangeli non compare mai il verbo ‘moltiplicare’. Anzi, i verbi utilizzati sono di segno opposto: spezzare, dare, distribuire. Il vero miracolo, dice Gesù, non è la moltiplicazione che produce vanto e potere, ma la divisione, la condivisione, che accresce l’amore e permette a Dio di compiere prodigi”. L’episodio narrato da Giovanni, ma anche dagli altri evangelisti, per il Papa può essere riassunto in tre verbi: vedere – “Gesù non è indifferente o indaffarato, ma avverte i morsi della fame che attanaglia l’umanità stanca”; vede e “vuole sfamare la nostra fame di vita, di amore e di felicità” – condividere – “c’è bisogno di una nuova alleanza tra giovani e anziani, di condividere il tesoro comune della vita, di sognare insieme, di superare i conflitti tra generazioni per preparare il futuro di tutti” – custodire – “i nonni e gli anziani non sono degli avanzi di vita, degli scarti da buttare. Sono quei pezzi di pane preziosi rimasti sulla tavola della nostra vita, che possono ancora nutrirci con una fragranza che abbiamo perso, ‘la fragranza della memoria’”. All’Angelus Francesco guarda al gesto del ragazzo, di cui non conosciamo il nome, che ha donato i suoi pani e i suoi pesci, per dire: “il Signore può fare molto con il poco che gli mettiamo a disposizione”. Ancora, “Dio ama agire così: fa cose grandi a partire da quelle piccole, gratuite”. Noi, afferma ancora il vescovo di Roma, “cerchiamo di accumulare e di aumentare quel che abbiamo; Gesù invece chiede di donare, di diminuire. Noi amiamo aggiungere, ci piacciono le addizioni; a Gesù piacciono le sottrazioni, il togliere qualcosa per darlo agli altri”. Con il racconto del miracolo compiuto da Gesù, l’evangelista ci mette di fronte a una verità che è sotto i nostri occhi: basta il poco che abbiamo per sconfiggere la fame; un poco di amore e di compassione per vincere la solitudine, la sofferenza; un poco di beni materiali per aiutare chi è nelle difficoltà; un poco del nostro tempo per portare un sorriso a chi si sente emarginato, escluso. L’importante è mettere quel poco nelle mani del Signore, affidarsi a lui e non rinchiuderci nel nostro egoismo. Nei giorni scorsi si è svolta a Roma il pre-vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, e il Papa, pur non riferendosi esplicitamente a questo evento, ricorda che “anche oggi il moltiplicarsi dei beni non risolve i problemi senza una giusta condivisione”. La tragedia della fame nel mondo: “è stato calcolato che ogni giorno nel mondo circa settemila bambini sotto i cinque anni muoiono per motivi legati alla malnutrizione. Non hanno il necessario per vivere. Di fronte a scandali come questi Gesù rivolge anche a noi un invito, un invito simile a quello che probabilmente ricevette il ragazzo del Vangelo, che non ha nome e nel quale possiamo vederci tutti noi: coraggio, dona il poco che hai, i tuoi talenti e i tuoi beni, mettili a disposizione di Gesù e dei fratelli. Non temere, nulla andrà perso, perché, se condividi, Dio moltiplica. Scaccia la falsa modestia di sentirti inadeguato, fidati. Credi nell’amore, nel potere del servizio, nella forza della gratuità”. (Fabio Zavattaro – Sir)  

Il Regno di Dio è come…

14 Giugno 2021 - Città del Vaticano - Due parabole legate alla vita dei campi, vicine alla vita di tutti i giorni delle persone che lo ascoltano, per parlare del Regno di Dio; come dire, “anche le cose di ogni giorno, quelle che a volte sembrano tutte uguali e che portiamo avanti con distrazione o fatica, sono abitate dalla presenza nascosta di Dio”. Papa Francesco commenta il Vangelo della domenica e dice che non bisogna lasciarsi vincere dalla “zizzania della sfiducia”, perché Dio è sempre all’opera nel mondo. Angelus nel quale rivolge un pensiero alle popolazioni del Tigrai, regione tra Etiopia e Eritrea, colpite dalla guerra e dalla carestia, lancia un forte appello contro la piaga del lavoro minorile e torna sul dramma delle migrazioni: “il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande dell’Europa”. Due parabole, due immagini – “facili da capire…immagini della realtà, della vita quotidiana” – per il Regno di Dio: il seme che cresce, e il granello di senape. Tema centrale, il Regno, nella predicazione di Gesù: non tanto e non solo proclama la sua esistenza, ma lo rende vicino alle donne e agli uomini del suo tempo, e di tutti i tempi. Nel racconto di Marco la prima parabola evidenzia il fatto del seme che cresce, come dire, senza che il contadino se ne occupi: la sua semina va oltre le sue quotidiane fatiche, e i frutti arriveranno, per questo pone la sua fiducia nella forza del seme e nella bontà del terreno. Il granello di senape è storia simile, nella sua diversità: è il più piccolo di tutti i semi, ma da vita alla “più grande di tutte le piante dell’orto”, scrive l’evangelista. In queste parabole c’è tutta la consapevolezza della nostra impotenza, della nostra piccolezza: la certezza di chi non confida nella propria forza. Come non chiederci, allora, cosa fare, nella nostra apparente impotenza, di fronte ai grandi problemi, alle difficoltà che vediamo, e ai quali non sappiamo dare una risposta, anche immediata. Ancora una volta il tempo non è quello che noi concepiamo; ce lo dice la lentezza della crescita del seme. Noi vogliamo tutto e subito, il contadino semina e sa attendere il trascorrere delle stagioni, sa che verrà il tempo della mietitura. È il “miracolo dell’amore” che fa germogliare e crescere ogni seme, ed è proprio questo, diceva Papa Benedetto, che “ci fa essere ottimisti nonostante le difficoltà, le sofferenze e il male”. A volte “il frastuono del mondo, insieme alle tante attività che riempiono le nostre giornate, ci impediscono di fermarci e di scorgere in quale modo il Signore conduce la storia”, evidenzia il Papa; ma nello stesso tempo il granello di senape ci rivela che “Dio è all’opera, al modo di un piccolo seme buono, che silenziosamente e lentamente germoglia”. Con questa parabola, afferma Francesco, “Gesù vuole infonderci fiducia. In tante situazioni della vita, infatti, può capitare di scoraggiarci, perché vediamo la debolezza del bene rispetto alla forza apparente del male”. Sembra quasi che il Signore ci dica di non avere paura perché non si fanno cose grandi dall’alto della potenza e grandezza: lui privilegia il “piccolo”, l’ultimo. E lo leggiamo in continuazione: chi vuole essere il primo sia schiavo di tutti; beati i poveri, i miti. Insomma, chi si fa piccolo e umile produce frutto, perché la logica di Dio non è la stessa logica umana: sceglie la debolezza per affermare l’energia dell’amore e privilegia i deboli, i malati, i piccoli e gli esclusi per manifestare la straordinaria forza della misericordia. Nelle situazioni della vita “può capitare di scoraggiarci, perché vediamo la debolezza del bene rispetto alla forza apparente del male”, afferma Francesco; possiamo lasciarci paralizzare dalla sfiducia quando ci siamo impegnati, ma i risultati non arrivano e le cose sembrano non cambiare”. Il Vangelo, dice il vescovo di Roma, ci chiama a “uno sguardo nuovo su noi stessi e sulla realtà; chiede di avere occhi più grandi, che sanno vedere oltre le apparenze, per scoprire la presenza di Dio che come amore umile è sempre all’opera nel terreno della nostra vita e in quello della storia”. Atteggiamento prezioso, dice il Papa anche “per uscire bene dalla pandemia. Coltivare la fiducia di essere nelle mani di Dio e al tempo stesso impegnarci tutti per ricostruire e ricominciare, con pazienza e costanza”. (Fabio Zavattaro – SIR)  

L’amore della Trinità

31 Maggio 2021 - Città del Vaticano - Nella Deus caritas est Benedetto XVI scrive che l’amore deve essere comunicato agli altri perché Dio ci ricolma del suo amore, “messaggio di grande attualità e di significato molto concreto” in un mondo in cui “al nome di Dio a volte viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza”. Amore, dunque, che sarà sempre necessario: “non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”. Con la loro condotta i cristiani dovrebbero mostrare quell’amore che è la realtà di Dio, l’essenza della Santa Trinità, “il mistero di un unico Dio. E questo Dio è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Tre persone, ma Dio è uno. Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito è Dio. Ma non sono tre dei: è un solo Dio in tre Persone”. Francesco torna ad affacciarsi su piazza San Pietro per la recita della preghiera mariana, e, nel discorso che pronuncia, ricorda la Santissima Trinità, una festa che siamo chiamati a vivere non gli uni senza gli altri, sopra o contro gli altri, ma con gli altri, per gli altri e negli altri. Difficile capire il mistero della Trinità, di un Dio che si fa uomo per amore. Difficile anche per i Padri della Chiesa, teologi e esegeti, che nel corso della storia hanno impegnato tanto tempo nella riflessione, nella preghiera, e hanno versato fiumi di inchiostro per cercare di spiegare un Dio che è comunione di tre persone, legate l’una all’altra da essere una sola. Ma proprio qui c’è la chiave per capire questo mistero: Deus caritas est, Dio è amore e per questo “pur essendo uno e unico, non è solitudine ma comunione, fra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Perché l’amore – afferma papa Francesco – è essenzialmente dono di sé, e nella sua realtà originaria e infinita è Padre che si dona generando il Figlio, il quale si dona a sua volta al Padre e il loro reciproco amore è lo Spirito Santo, vincolo della loro unità”. Mistero che ci è stato svelato da Gesù stesso, che ci “ha fatto conoscere il volto di Dio come Padre misericordioso; ha presentato sé stesso, vero uomo, come Figlio di Dio e verbo del Padre, salvatore che dà la sua vita per noi; e ha parlato dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, Spirito di verità”. Nel secondo capitolo della Genesi leggiamo: “non è bene che l’uomo sia solo”. L’uomo non è stato creato a immagine di un Dio solitario, ma di un Dio amore. Cristo con la sua presenza in mezzo a noi porta a compimento quanto leggiamo nell’Antico Testamento – è la prima lettura domenicale tratta dal Deuteronomio – e cioè di un Dio che parla dal fuoco, che sceglie “una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie”. E ci dice che sin dall’inizio ha messo la tenda in mezzo a noi, liberandoci dalle schiavitù che ci opprimono. In un tempo sospeso, come quello che stiamo vivendo, in cui lo stare assieme è esercizio non sempre possibile, in cui spesso esaltiamo le nostre individualità, e innalziamo muri e frontiere, Dio ci dice, nelle tre persone, che siamo chiamati a essere comunità, famiglia. Così Gesù, che si lascia avvicinare da coloro che erano considerati peccatori, anzi mangia con loro condividendo qualcosa che era determinante e sacro per gli ebrei: la tavola. Mangiare insieme significava celebrare comunione con Dio, vivere una amicizia e spezzando assieme il pane si fa dell’altro un compagno: cum panis. La festa di ieri, dunque, ci fa contemplare questo meraviglioso mistero di amore e di luce da cui proveniamo e verso il quale è orientato il nostro cammino terreno. Dice Francesco: “nell’annuncio del Vangelo e in ogni forma della missione cristiana, non si può prescindere da questa unità alla quale chiama Gesù”. Unità essenziale “non è un atteggiamento, un modo di dire”; essenziale “perché è l’unità che nasce dall’amore, dalla misericordia di Dio, dalla giustificazione di Gesù Cristo e dalla presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori”. Infine, l’Angelus è anche occasione, per il Papa, di annunciare che il primo luglio ci sarà, in Vaticano, un incontro “con i principali responsabili delle comunità cristiane presenti in Libano, per una giornata di riflessione sulla preoccupante situazione del Paese e per pregare insieme per il dono della pace e della stabilità”. (Fabio Zavattaro – Sir)    

Guardare al cielo con i piedi ben piantati a terra

17 Maggio 2021 - Città del Vaticano - È un forte grido per la pace il Regina Caeli di Papa Francesco, questa domenica. Celebra messa di prima mattina in San Pietro per la comunità del Myanmar, un paese “segnato dalla violenza, dal conflitto e dalla repressione” per cui chiede di “non cedere alla logica dell’odio e della vendetta”. Poi, a mezzogiorno, la preghiera mariana alla quale fa seguire un lungo, forte appello per la pace in Terra Santa: “i violenti scontri armati tra la Striscia di Gaza e Israele hanno preso il sopravvento e rischiano di degenerare in una spirale di morte e distruzione. Tanti innocenti sono morti, tra di loro ci sono anche bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere”. Non è la prima volta che il Papa chiede che si trovi una soluzione pacifica e duratura, ma in questa domenica le sue parole hanno il suono di un appello quasi da ultima occasione. Ricordiamo tutti lo storico incontro in Vaticano tra il presidente israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen, voluto da Papa Francesco all’indomani del suo viaggio in Terra Santa, per dare inizio a quello che il Papa ha definito un “cammino nuovo alla ricerca di ciò che unisce e per superare ciò che divide”. Le azioni in atto in questi giorni in Israele e lungo la striscia di Gaza sembrano invece l’inizio di un cammino verso un conflitto più acceso. Così Francesco si chiede: “l’odio e la vendetta dove porteranno? Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro? In nome di Dio, faccio appello alla calma, e a chi ne ha la responsabilità di far cessare il frastuono delle armi, di percorrere l’avvio della pace, anche con l’aiuto della comunità internazionale”. Infine chiede di pregare, il Papa, “per le vittime, in particolare per i bambini; preghiamo per la pace la Regina della pace. Appello nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa dell’Ascensione. Sono passati quaranta giorni dalla Pasqua e Gesù è “elevato in alto”. Quaranta giorni come il tempo da lui trascorso nel deserto, digiunando giorno e notte; come gli anni nel deserto trascorsi dal popolo di Israele. Antico e Nuovo Testamento che camminano assieme, per descrivere un tempo di attesa, ma anche di cambiamento, di conversione. L’Ascensione è un guardare al cielo avendo i piedi piantati in terra; un tempo che rafforza e da senso alla testimonianza cristiana. Come ricordava Benedetto XVI nel 2009, non è un viaggio verso l’alto, bensì una azione della potenza di Dio, che introduce Gesù nello spazio della prossimità divina. E Francesco dice che l’Ascensione non è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma “completa la missione di Gesù in mezzo a noi”. E quando ascende al cielo “Gesù non ci abbandona: resta nel mondo per mezzo della predicazione dei suoi discepoli”. Non si tratta, però, di trascorrere la vita fermi a contemplare il cielo attendendo un segno, quasi un allontanarsi per non rispondere alle sfide che la vita quotidiana ci pone. Guardare al cielo significa avere ben salda la meta del nostro pellegrinare. Così gli apostoli, che “nonostante il distacco dal Signore, non si mostrano sconsolati, anzi, sono gioiosi e pronti a partire missionari nel mondo”, ha detto Francesco. Gesù “è il primo uomo che entra nel cielo, perché è uomo, vero uomo, e vero Dio; la nostra carne è in cielo e questo ci dà gioia”. Alle persone presenti in piazza san Pietro, il Papa ricorda che “alla destra del Padre siede ormai un corpo umano, per la prima volta, il corpo di Gesù, e in questo mistero ognuno di noi contempla la propria destinazione futura”. Gesù, afferma il vescovo di Roma, “se n’è andato con le piaghe, che sono state il prezzo della nostra salvezza, e prega per noi”. Poi ci invia lo Spirito Santo, “per andare a evangelizzare. Per questo la gioia di oggi, la gioia di questo giorno dell’Ascensione”. Infine, chiede, per l’intercessione di Maria, di “aiutarci a essere nel mondo testimoni coraggiosi del Risorto nelle situazioni concrete della vita”. Anche, testimoni capaci sempre più di ascoltare il grido della terra e dei poveri. È l’impegno che scaturisce dalla “Settimana Laudato si’”, che darà vita a una Piattaforma per riunire i principali partner ecclesiali attraverso diverse azioni e eventi, e diffondere così il Vangelo della creazione. (Fabio Zavattaro – Sir)​  

Il comandamento dell’amore

10 Maggio 2021 - Città del Vaticano - Per tre volte nella pagina del Vangelo di questa domenica torna il verbo rimanere. Dopo il discorso sulla vita e i tralci, Gesù si rivolge ai suoi con questo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”. Di qui l’invito a rimanere nel suo amore, rimanendo uniti a lui. Siamo ancora nel Cenacolo e l’amore di cui parla è l’agape, la carità. Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est, commentando la prima lettera di Giovanni scriveva che quelle parole “esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino”. Amore, dunque. Non quel complesso di sentimenti che appartiene alla nostra sfera, fatto di attrazione fisica, desiderio, passione. È un amore che non chiede nulla in cambio, anzi arriva prima di ogni e qualsiasi richiesta. Il vero principio che anima la legge è proprio l’amore, perché Gesù è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita – afferma padre Davide Maria Turoldo – a ciò che non aveva più vita; è un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. È la forza della misericordia di Dio, che ama per primo, anche i peccatori, i samaritani, la gente lontana e rifiutata. In questa domenica due figure ci possono aiutare a comprendere il comandamento dell’amore: innanzitutto la madre. Maria, nel michelangelesco Giudizio universale è alla destra di Gesù, ha uno sguardo pieno di misericordia, se sa che ormai il tempo è compiuto e non può più intercedere per donne e uomini; ma nonostante tutto sembra quasi non volersi rassegnare. Come Maria tutte le mamme, è la festa loro dedicata domenica, che sanno accogliere e perdonare, asciugare una lacrima e essere rifugio per ogni figlio. Poi il giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia quando non aveva ancora compiuto 38 anni e proclamato beato domenica nella cattedrale di Agrigento, 28 anni dopo il grido di Giovanni Paolo II contro la mafia, nella Valle dei templi. Il pomeriggio del 9 maggio 1993, prima di celebrare la messa, papa Wojtyla incontra i genitori del giudice Livatino e dice loro che Rosario è “un martire della giustizia e indirettamente della fede”. Ricorda Papa Francesco queste parole e dice: Livatino “nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio”. Piazza san Pietro torna a accogliere le persone per il Regina caeli. Il Papa dice che Gesù ci invita a rimanere nell’amore “perché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena”. È un amore che ha origine nel Padre, perché Dio è amore, Deus caritas est. Per rimanere in questo amore bisogna osservare i comandamenti, che possono riassumersi in uno solo: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”; mettersi al servizio dei fratelli. Questo significa, afferma Francesco, “uscire da sé, distaccarsi dalle proprie sicurezze umane, dalle comodità mondane, per aprirsi agli altri, specialmente di chi ha più bisogno. Significa mettersi a disposizione, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Questo vuol dire amare non a parole ma con i fatti”. Amare Cristo significa, inoltre, “dire di no ad altri ‘amori’ che il mondo ci propone: amore per il denaro, per il successo, la vanità, per il potere…. Queste strade ingannevoli ci allontanano dall’amore del Signore e ci portano a diventare sempre più egoisti, narcisisti e prepotenti”. E la prepotenza, ricorda il Papa, porta a “una degenerazione dell’amore, ad abusare degli altri, a far soffrire la persona amata. Penso all’amore malato che si trasforma in violenza – e quante donne ne sono vittime oggigiorno delle violenze. Questo non è amore. Amare come ci ama il Signore vuol dire apprezzare la persona che ci sta accanto e rispettare la sua libertà, amarla così com’è, non come noi vorremmo che fosse, gratuitamente”. Gesù, inoltre, ci chiede di “abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi; chi ama se stesso ama lo specchio, di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri, ma di fidarci e donarci agli altri”. La gioia è il segno distintivo del cristiano, il quale, afferma Francesco, “non è triste, sempre ha quella gioia dentro”. (Fabio Zavattaro – Sir)  

Uniti a Cristo

3 Maggio 2021 - Città del Vaticano - La liturgia ci riporta, per la quinta volta di seguito, sul giorno di Pasqua. È un “rimanere” nel tempo in cui, per i cristiani, inizia la storia di fedeltà al Signore. Il verbo rimanere, è ripetuto sette volte nel testo giovanneo, come dire: non possiamo pensare alla nostra esistenza senza tornare a quel “terzo giorno”, proprio per conservare, nel nostro cuore, ciò che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella liturgia. Rimanere perché, scrive Giovanni nella prima lettera, “chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”. Si tratta di un testo che prepara i discepoli al suo andarsene, alla sua separazione fisica. Li prepara a quel vuoto che li attende, ma che va vissuto facendolo diventare luogo di fede, di una presenza promessa che si realizzerà con la sua seconda venuta. È interessante notare che nella liturgia domenicale la prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, ci fa incontrare Barnaba che si fa garante di Saulo, convertitosi sulla via di Damasco, che sarà Paolo di Tarso. Per dirci che il messaggio di Gesù non conosce chiusure e può essere accolto da tutti, e insieme costruire comunità missionarie. Il quarto Vangelo ci propone l’immagine della vite e dei tralci. Immagine classica nella Bibbia: la vite e la vigna sono Israele e descrivono il rapporto tra Dio e il suo popolo; e se in Isaia la vigna ha prodotto acini acerbi e per questo viene calpestata, nel Vangelo di Giovanni leggiamo che il tralcio non buono viene bruciato. La vite non è più Israele ma Cristo stesso: “io sono la vera vite, e il Padre mio è l’agricoltore” e i tralci sono gli apostoli, i fedeli. Come non ricordare, ancora, che papa Benedetto utilizzava proprio l’immagine della vigna – “semplice, umile operaio nella vigna del Signore” – per dire il compito che lo attendeva come successore di Pietro. “Non c’è vite senza tralci, e viceversa. I tralci non sono autosufficienti, ma dipendono totalmente dalla vite, che è la sorgente della loro esistenza”, afferma papa Francesco nella riflessione che precede la recita del Regina caeli. Prima di salire al Padre, Gesù ricorda ai suoi amici che “possono continuare ad essere uniti a lui”. Ma non si tratta di un rimanere passivo, un “addormentarsi nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita”. Il rimanere in Gesù che lui ci propone, dice Francesco “è un rimanere attivo, e anche reciproco. Perché i tralci senza la vite non possono fare nulla, hanno bisogno della linfa per crescere e per dare frutto, ma anche la vite ha bisogno dei tralci, perché i frutti non spuntano sul tronco dell’albero. È un bisogno reciproco, è un rimanere reciproco”. Il Signore ci dice che “prima dell’osservanza dei suoi comandamenti, prima delle beatitudini, prima delle opere di misericordia, è necessario essere uniti a lui, rimanere in lui. Non possiamo essere buoni cristiani se non rimaniamo in Gesù. E invece con lui possiamo tutto. Con lui possiamo tutto”. I primi cristiani, nel fare memoria della Pasqua, ripetevano: non possiamo vivere senza la domenica, cioè senza incontrare Gesù risorto, rimanere in lui. Come la vite con i tralci, anche Gesù “ha bisogno di noi”, afferma il Papa, “ha bisogno della nostra testimonianza”, del frutto “che dobbiamo dare con la nostra vita cristiana. Dopo che Gesù è salito al Padre, è compito dei discepoli – è compito nostro – continuare ad annunciare il Vangelo, con la parola e con le opere”. Essere, cioè, “custodi e testimoni della speranza che non delude”, come diceva all’inizio del suo Pontificato papa Giovanni Paolo II. “Attaccati a Cristo – afferma ancora Francesco – riceviamo i doni dello Spirito Santo, e così possiamo fare del bene al prossimo, fare del bene alla società, alla Chiesa. Amando “i nostri fratelli e sorelle, a cominciare dai più poveri e sofferenti, come ha fatto Lui, e amarli con il suo cuore e portare nel mondo frutti di bontà, frutti di carità, frutti di pace”. È questa la chiave della chiamata alla santità rivolta a tutti: vivere con amore e offrire “ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova”, come scrive Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. ((Fabio Zavattaro - Sir)

Sacerdoti, nel segno di Cristo

26 Aprile 2021 - Città del Vaticano -  “È il momento della vergogna”. Prega Papa Francesco per i 130 migranti morti in mare, che “per due giorni interi hanno pregato invano aiuto”; prega anche per quanti possono aiutare “ma preferiscono guardare da un’altra parte”. È un Regina caeli segnato dal dolore per queste vittime, che non vedranno mai le coste cercate e il futuro diverso; vittime di cui nessuno si è preso cura. Prega anche per gli 82 morti dell’ospedale covid a Baghdad. Gesù “conosce e ama” ognuno di noi, dice prima della recita della preghiera che in questo tempo di Pasqua, fino a Pentecoste, sostituisce l’Angelus; Gesù “ci conosce ad uno ad uno, non siamo degli anonimi per Lui, e il nostro nome gli è noto”. È la domenica in cui la Chiesa fa memoria del Buon Pastore. Ossia di colui che raccoglie e guida le pecore fino ad offrire la sua stessa vita. Domenica nella quale Francesco ordina nove sacerdoti in una basilica che torna ai tempi precedenti la pandemia: celebra all’altare della confessione e fedeli, tutti con la mascherina compresi gli ordinandi, occupano la navata centrale, nel rispetto delle norme anti Covid. Ai suoi preti, quando era arcivescovo di Buenos Aires, raccomandava misericordia, coraggio, porte aperte, e non si stancava di puntare il dito contro quella che chiamava e chiama “mondanizzazione spirituale”. Il buon pastore, diceva, è colui che sta in mezzo alla gente, “nelle periferie dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni”. C’è un “rifiuto di Dio da parte del mondo”, diceva Benedetto XVI celebrando la festa del Buon Pastore il 3 maggio 2009. E questo perché da un lato “non conosce Dio” e, dall’altro, “non vuole conoscerlo. Il mondo non vuole conoscere Dio e ascoltare i suoi ministri, perché questo lo metterebbe in crisi”. Il Buon Pastore, Gesù, è il “pastore vero”, dice papa Francesco, “ci difende sempre, ci salva in tante situazioni difficili, situazioni pericolose, mediante la luce della sua parola e la forza della sua presenza, che noi sperimentiamo sempre e, se vogliamo ascoltare, tutti i giorni”. Ci conosce, non siamo “massa” o “moltitudine”; “siamo persone uniche, ciascuno con la propria storia […] ciascuno con il proprio valore”. Conosce, Gesù “i nostri pregi e i nostri difetti, ed è sempre pronto a prendersi cura di noi, per sanare le piaghe dei nostri errori con l’abbondanza della sua misericordia”. Ai nuovi sacerdoti ha detto che l’ordinazione non è un passo verso la “carriera ecclesiastica”, ma è “un servizio, come quello che ha fatto Dio al suo popolo”; e che ha uno stile fatto di “vicinanza, compassione, tenerezza”. Vicinanza con Dio nella preghiera: “se uno non prega lo spirito si spegne”. Vicinanza con il vescovo, segno di unità, “anche nei momenti difficili”. Quindi vicinanza tra sacerdoti. Ma la più importante, per Francesco, è “la vicinanza al santo popolo di Dio”. Ricorda loro: “siete stati eletti, presi dal popolo. Non dimenticatevi da dove siete venuti: della vostra famiglia, del vostro popolo. Non perdete il fiuto del popolo di Dio”. Infine, ha detto loro di allontanarsi “dalla vanità, dall’orgoglio dei soldi. Il diavolo entra dalle tasche. Siate poveri, come povero è il santo popolo fedele di Dio. Poveri che amano i poveri”. Ha raccomandato loro di non essere “arrampicatori”. La “carriera ecclesiastica: poi diventi funzionario, e quando un sacerdote inizia a fare l’imprenditore, sia della parrocchia sia del collegio…, sia dove sia, perde quella vicinanza al popolo, perde quella povertà che lo rende simile a Cristo povero e crocifisso, e diventa l’imprenditore, il sacerdote imprenditore e non il servitore”. Ancora, li ha esortati a essere “sacerdoti di popolo, non chierici di Stato”, ma “pastori del santo popolo fedele di Dio. Pastori che vanno con il popolo di Dio: a volte davanti al gregge, a volte in mezzo o dietro, ma sempre lì, con il popolo di Dio”. Finita la celebrazione in basilica, c’è stato anche il tempo di un incontro segnato da un gesto di umiltà: papa Francesco si è chinato per baciare le mani a ognuno dei nove nuovi preti, chiedendo a uno di loro di benedirlo. (Fabio Zavattaro – Sir)  

I verbi della concretezza: guardare, toccare, mangiare

19 Aprile 2021 - Città del Vaticano - Luca nel suo Vangelo ci riporta sui fatti avvenuti nel giorno della resurrezione, e l’insistenza non casuale, perché la Chiesa ci ricorda che ogni domenica è Pasqua. Di nuovo Gesù incontra i suoi discepoli, riuniti nel Cenacolo. I due tornati da Emmaus stanno ancora raccontando ciò che è accaduto loro, lungo la strada, quando vengono salutati da Gesù con queste parole: pace a voi. Nel vederlo sono presi da stupore e spavento, pensano si tratti di un fantasma. Dopo la diffidenza di Tommaso, dopo lo stupore dei due di Emmaus, ancora una volta troviamo incredulità in coloro che invece dovrebbero essere testimoni della sua presenza. “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. I suoi discepoli parlano di lui, delle cose meravigliose accadute, ma appena Gesù è in mezzo a loro, pensano si tratti di un fantasma, una figura non reale. Ecco il problema: l’incapacità di accogliere la buona notizia, di essere testimoni della morte e della resurrezione di Gesù. È in mezzo a loro, mostra le mani, i piedi, dice loro di toccarlo e di guardarlo perché “un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che ho io”. Ancora Gesù chiede da mangiare, e gli viene data “una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro”. Il risorto mangia, si fa guardare e toccare, non è una apparizione eterea. Manifesta la sua fisicità, e i suoi sono spaventati; anzi Luca scrive che erano “sconvolti e pieni di paura”; più avanti, nel suo racconto, afferma che erano “turbati” e “pieni di stupore”. Erano stupiti, dice papa Francesco, “perché l’incontro con Dio ti porta sempre allo stupore: va oltre l’entusiasmo, oltre la gioia, è un’altra esperienza”, Torna di nuovo ad affacciarsi in piazza san Pietro il Papa, per la recita della preghiera del Regina caeli – “vi dico una cosa: mi manca la piazza quando devo fare l’Angelus in Biblioteca. Sono contento” – e nel commentare il brano di Luca evidenzia tre verbi “molto concreti”: guardare, toccare, mangiare. “Tre azioni – dice il Papa – che possono dare la gioia di un vero incontro con Gesù vivo”. Guardare. “non è solo vedere, è di più, comporta anche l’intenzione, la volontà. È uno dei verbi dell’amore”. Guardare, afferma Francesco, “è un primo passo contro l’indifferenza, la tentazione di girare la faccia dall’altra parte, davanti alle difficoltà e alle sofferenze degli altri”. Toccare. Per il Papa è il verbo che indica relazione con lui e con i nostri fratelli; relazione che “non può rimanere a distanza, non esiste un cristianesimo a distanza”. Il buon Samaritano non si è fermato a guardare, ma “si è fermato, si è chinato, gli ha medicato le ferite, lo ha toccato, lo ha caricato sulla sua cavalcatura e lo ha portato alla locanda”. Infine, mangiare. È il verbo che “esprime bene la nostra umanità nella sua più naturale indigenza, cioè il nostro bisogno di nutrirci per vivere”. Mangiare insieme, ricorda il Papa, diventa “espressione di amore, espressione di comunione e di festa”. L’eucaristia è il “segno emblematico della comunità cristiana. Mangiare insieme il corpo di Cristo: questo è il centro della vita cristiana”. Cosa ci dice la pagina di Luca, si chiede Francesco; ci dice che “Gesù non è un fantasma ma una persona viva” che “ci riempie di gioia” e “ci lascia stupefatti”. Essere cristiani “non è prima di tutto una dottrina o un ideale morale, è la relazione viva con lui, con il Signore risorto: lo guardiamo, lo tocchiamo, ci nutriamo di lui e, trasformati dal suo amore, guardiamo, tocchiamo e nutriamo gli altri come fratelli e sorelle”. Con queste parole di papa Francesco possiamo cogliere un aspetto sul quale ha posto l’accento, in diverse occasioni nei suoi interventi: quante volte pensiamo che il Vangelo sia una specie di galateo delle buone maniere, parole astratte, lontane dalla vita di tutti giorni; parole belle ma difficili, se non impossibili, da rispettare, perché troppo esigenti, rigorose. Per usare espressioni care al Papa, rischiamo di essere cristiani “da pasticceria”. La mondanità, ricordava Francesco nell’omelia della Domenica delle Palme di sei anni fa, “ci offre la via della vanità, dell’orgoglio, del successo. È l’altra via. Il maligno l’ha proposta anche a Gesù, durante i quaranta giorni nel deserto”. (Fabio Zavattaro – Sir)

Il dono della Misericordia

12 Aprile 2021 - Città del Vaticano - Sette giorni dopo la Pasqua, Gesù appare ai discepoli nel Cenacolo, dove si trovavano, le porte chiuse per “timore dei Giudei”, leggiamo nel quarto Vangelo. Sette come i giorni della creazione, come dire che in quel periodo è racchiuso tutto il tempo e tutto lo spazio. Sette è il simbolo di Dio e della sua perfezione e completezza; sette sono le settimane del tempo di Pasqua. Sette sono gli anni di abbondanza e altrettanti quelli di carestia in Egitto al tempo di Giuseppe. Nell’Apocalisse il sette torna sette volte per indicare chiese, candelabri, stelle, coppe, spiriti, suggelli e tombe. Sette giorni dopo la Pasqua, la chiesa fa memoria della festa introdotta da san Giovanni Paolo II, devoto di suor Faustina Kowalska che proclama santa durante il Giubileo del duemila. Attraverso la misericordia Gesù opera la “risurrezione dei discepoli”, che viene loro offerta “attraverso tre doni: dapprima Gesù offre loro la pace, poi lo Spirito, infine le piaghe”. Celebra la Messa nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, papa Francesco; con lui alcuni missionari della Misericordia – sacerdoti con poteri speciali di assoluzione, voluti da Francesco con il Giubileo della Misericordia nel 2015 – presenti detenuti dal carcere di Regina Cæli, dal reparto femminile di Rebibbia, e Casal del Marmo di Roma, infermieri, alcune Suore Ospedaliere e alcune persone con disabilità, una famiglia di migranti dall’Argentina, rifugiati provenienti da Siria, Nigeria ed Egitto. Misericordia. Papa Giovanni XXIII, aprendo il Concilio, voleva una Chiesa che “preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”. Paolo VI, chiudendo il Vaticano II, ricordava che “l’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio”. Papa Wojtyla consegnerà al mondo la sua enciclica Dives in Misericordia: “la Chiesa contemporanea è profondamente consapevole che soltanto sulla base della misericordia di Dio potrà dare attuazione ai compiti che scaturiscono dalla dottrina del Concilio Vaticano II”. Benedetto XVI, a Erfurt, nell’ex convento agostiniano, dove ha studiato Martin Lutero, ripropone l’interrogativo dell’iniziatore della Riforma, quasi premessa dell’Anno della fede: “come posso avere un Dio misericordioso”. Francesco apre a Bangui, Repubblica Centroafricana, l’Anno Santo della Misericordia: nel mistero di Dio, la misericordia “non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito stesso del suo cuore”; così nella Fratelli tutti, propone l’icona del Samaritano, come chiave dell’enciclica. Sette giorni dopo, il primo della settimana, Gesù incontra i suoi “angosciati” e “sfiduciati”, leggiamo in Giovanni, e “li rialza con la misericordia”; e loro, afferma papa Francesco con un suo neologismo, “misericordiati, diventano misericordiosi. È molto difficile essere misericordioso se uno non si accorge di essere misericordiato”.  Ai discepoli Gesù dice: “pace a voi”. La pace di Gesù suscita la missione: “non è tranquillità, non è comodità, è uscire da sé. La pace di Gesù libera dalle chiusure che paralizzano, spezza le catene che tengono prigioniero il cuore. Gesù oggi ripete ancora: pace a te, che sei prezioso ai miei occhi. Pace a te, che sei importante per me”. Il secondo dono è lo Spirito Santo, “per la remissione dei peccati”. Al centro della confessione, la mano “sicura e affidabile” del Padre “che ci rimette in piedi”, ricorda il Papa, “non ci siamo noi con i nostri peccati, ma Dio con la sua misericordia. Non ci confessiamo per abbatterci, ma per farci risollevare”. Il terzo dono, sono le piaghe, “da quelle siamo guariti”; come l’incredulo Tommaso, “tocchiamo con mano che Dio ci ama fino in fondo, che ha fatto sue le nostre ferite, che ha portato nel suo corpo le nostre fragilità”. Non “dubitiamo” più della sua misericordia, e “adorando, baciando le sue piaghe scopriamo che ogni nostra debolezza è accolta nella sua tenerezza”. I discepoli “misericordiati” hanno condiviso tutto e “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Il Papa sottolinea: “Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro”. Prima avevano litigato su premi e onore, la misericordia “ha trasformato la loro vita”. (Fabio Zavattaro - Sir)