Anche questo Natale e i giorni che lo precedono sono stati funestati da eventi tristi, luttuosi: penso ai recentissimi fatti di cronaca, cioè i tre morti sul lavoro a Torino, le vittime sotto il crollo di un palazzo in Sicilia ma anche la tragedia della baraccopoli rom nel Foggiano, con due bambini piccoli arsi vivi nel rogo. Alina e Hristov avevano 2 e 4 anni: sono morti bruciati a Stornara, vicino Foggia. Fatti così ci colpiscono perché coinvolgono bambini in tenera età. Non è la prima volta. Era già accaduto, nelle stesse condizioni a Roma, dove, per anni, mi sono trovato coinvolto nelle tragedie del mondo rom. Solo per ricordarne alcuni: nel 2011 quattro bambini sono morti bruciati nel rogo di una baracca in un insediamento abusivo in via Appia Nuova. Sebastian, Elena Patrizia, Raoul ed Eldeban, fra gli 11 e i 3 anni, hanno perso la vita mentre dormivano, a causa di una stufa a legna. I genitori si erano allontanati per comprare da mangiare. Stessa identica dinamica di Foggia. Ma anche, nel maggio 2017, quando a perdere la vita sono state una ventenne, Elisabeth Halilovic, e le sorelline Francesca e Angelica, 8 e 4 anni: dormivano nel camper della famiglia.Anche questo è Natale, pur segnato dal dolore, dalla sofferenza e dal sangue. E tutto ciò non può non appartenerci. Il nostro essere uomini e donne inseriti in un contesto sociale, facenti parte di una Chiesa recentemente sollecitata da Papa Francesco a porsi in un “cammino sinodale” accompagnata e guidata da tutti noi vescovi. Non possiamo non pensare che Natale è Gesù che ci ricorda di essere presente, di “esserci”, nei tanti modi in cui la sua presenza è reale e manifesta: anzitutto l’eucaristia, poi l’ascolto della Parola, poi la stessa comunità che si riunisce in preghiera; ma anche il povero, il piccolo, una presenza altrettanto silenziosa e misteriosa come le precedenti e non meno importante. «Tutto quello che avete fatto a uno di questi piccoli lo avete fatto a me», ci dice Matteo nel capitolo 25 del suo vangelo. Questa è una verità di fede che non può lasciare mai, per alcun motivo, le nostre menti e i nostri cuori, neanche nel giorno di Natale. Quella piccolezza è concretizzata, incarnata, resa visibile proprio nel Bambino di Betlemme. Piccolezza non è solo quella di un neonato ma è quella di tutti i “piccoli” della storia e dell’intera società umana. Il piccolo del Vangelo è l’ultimo, il senza diritti, l’emarginato, il profugo. Papa Francesco ce lo ricorda continuamente; forse a qualcuno dà fastidio il ricordo incessante, questo ritornare costantemente sull’attenzione ai migranti: ma il Papa non può non annunciare il Vangelo. Lo scorso anno ha sentito anche la necessità di aggiungere, come fatto già da altri pontefici, una litania proprio per loro: Solacium migrantium (aiuto, soccorso dei migranti), per richiamare ancora una volta l’attenzione della Chiesa e del mondo sul dramma, anzi sulla tragedia di chi emigra.Non più di alcune settimane fa, come periodicamente accade, è riapparsa una polemica: prima il crocifisso, poi il presepe nelle scuole e negli uffici. Stavolta è toccato alle linee-guida della Commissione europea per una “corretta comunicazione”. Un documento interno, parte della più ampia strategia Union of equality, che è finito sui media. Da notare la maldestra raccomandazione di evitare riferimenti al Natale, sostituendolo con il più neutro “festività”. La bagarre è stata tale che alla fine Bruxelles ha deciso di ritirarla. La commissaria all’uguaglianza, Helena Dalli, che aveva voluto il testo, ha definito il documento «inadeguato allo scopo prefisso» e lo ha ritirato. Nessuno potrà togliere all’Europa e al nostro Occidente le radici che l’hanno formata e costituita: non ci sarebbe cultura, arte, storia se non ci fosse stato il cristianesimo e la Chiesa, pur con tutti i suoi errori e mancanze, con le sue inadempienze e distanze rispetto al Vangelo.Ancora in questi giorni qualcuno ha detto: «Lasciamo Babbo Natale ai bambini». I bambini hanno bisogno di sapere che c’è chi vuole loro bene, li pensa e porterà dei regali. Il regalo è segno di amicizia, di vicinanza, di affetto. Quando ci scambieremo i regali la notte o il giorno di Natale facciamolo in maniera diversa, rispondendo non solo a un dovere che dovevamo rispettare ma anche e soprattutto a un impegno di vicinanza e di fraternità. Offriamo a chi ci sta vicino, se lo accetterà, insieme al regalo, anche minore formalità, magari un sorriso e almeno il desiderio di vincere e di superare tutte le distanze che ci tengono lontani. Essere vicini oggi è una necessità sempre più grande anche se le norme per contrastare la pandemia, ancora, materialmente, ce lo impediscono. Vicini e insieme per affrontare le battaglie della storia della vita; vicini e insieme per camminare insieme e “fare sinodo”, per ricordarci che la Chiesa nasce camminando lungo la strada, lungo tutte le strade che Gesù ha percorso nei suoi pellegrinaggi per annunciare la Buona Notizia e nasce chiedendo alle persone di mettersi una vicino all’altra, come Gesù ha chiesto uno a uno ai suoi discepoli di stare con lui e di stare tra di essi cercando di rispettarsi e di condividere i valori fondamentali dell’esistenza, nonostante tutte le loro fragilità e le loro debolezze, tipiche della condizione umana. I discepoli certamente non sono stati, nella parte di vita che hanno condiviso tra di loro e con Gesù, dei modelli di virtù ma anzi hanno rivelato tutte le loro debolezze e fragilità umane e caratteriali. Sono stati come noi. Ma alla fine ce l’hanno fatta. (card. Paolo Lojudice - arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa - Montalcino e membro della Commissione Cei per le Migrazioni)